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martedì 27 settembre 2016

Le due vite di Frank Carter (Il Maestro di Cera e Prigioniero di Ares)


Frank Carter è tornato.
Due volte.
E per quanto lo storico Bond-Connery abbia insegnato a tutti che “Si Vive Solo Due Volte”, Frank sembra avere tutte le intenzioni di tornare anche per un terzo round (anzi, lo ha già fatto), e magari perdurare finché le energie degli autori e le attenzioni dei lettori lo supporteranno.

Un riassunto per i neofiti. Frank Carter nasce come web comic su testi di Carlo Coratelli e per i disegni di Fortunato Latella nel 2009 sul portale di Shockdom (realtà editoriale ormai consolidata e fucina di artisti esordienti negli spazi virtuali) e si “reincarna” in un primo volume cartaceo nel 2012 con il marchio Red Publishing. Le Avventure di una Spia per caso, pubblicate per la prima volta online con cadenza quindicinale, si ispirano dichiaratamente alla scuola del fumetto franco-belga, sia per la scelta grafica della cosiddetta linea chiara, sia per il tono avventuroso e vagamente retrò delle sue storie. La matrice del racconto è da cercare nella tradizione della spy-comedy hollywoodiana, dove un individuo qualunque, senza alcun addestramento ma pieno di spontanea iniziativa, si trova coinvolto suo malgrado in intrighi di portata (hitchockiana) internazionale.


Dopo i primi due archi narrativi (“Equivoco a Casablanca” e “La formula Zolta”) già raccolti nel primo volume cartaceo, Frank Carter è ancora una spia, anche se quel “per caso” ormai si è un po' perso per strada. Infatti, secondo l'antica, ingenua tradizione delle strip avventurose della golden age, i servizi segreti hanno riconosciuto il potenziale del nostro uomo qualunque, che adesso può essere richiamato a collaborare con il governo per operazioni pericolose in qualunque momento. Ed è questo lo scenario che ci presenta la seconda trasferta cartacea di Frank Carter nel volume che raccoglie “Il Maestro di Cera” e “Prigioniero di Ares”.


Lo spirito del fumetto di Coratelli e Latella (cui subentra Marco Performato nella seconda metà del volume) rimane invariato. Avventura spensierata e atmosfere leggerissime che ammiccano alla cultura popolare di un tempo andato, partendo dal cinema e attraversando i punti cardine della gloriosa storia delle strisce syndacate. Storie semplici, basate su twist narrativi calibrati e scanditi appositamente per colpire la fantasia del lettore con brevi sequenze disegnate che suscitino l'attesa per il seguito. Avevamo lasciato la coppia di protagonisti con la notizia della gravidanza di Jill che in questo volume renderà padre Frank di un bambino che non potrà (feticisticamente) ricevere un nome diverso da quello della stessa “spia per caso”, con una venatura di amour fou che insinua un impalpabile sottotesto inquietante nel rapporto, cartoonesco e spensierato, di questa coppia felice. Felice di trovarsi in costante pericolo, in quanto dipendenti dall'adrenalina e geneticamente insofferenti a una vita di banale quotidianità. Scherzi a parte, l'elementarità delle storie è da dare per scontata e non può essere intesa come un difetto della serie, a meno che non s'ignori del tutto il valore di omaggio e l'esercizio di stile vintage che è carburante dell'intero progetto. Un progetto (che è anche una sorta di gioco artistico) nato per riproporre stilemi antichi (vecchio, ormai, è parola dispregiativa) adattandoli ai mezzi di comunicazione attuali. E nella fattispecie, soprattutto il web.


Il Maestro di Cera, il primo ciclo che compone questa seconda escursione di Frank Carter nell'universo dell'avventura senza frontiere, parte ancora una volta come spy-comedy, ma attinge soprattutto ad archetipi del cinema horror della Hollywood più classica (dovrebbe essere inutile citare “La Maschera di Cera” e i suoi infiniti remake). E introduce un nuovo villain che sicuramente darà filo da torcere al protagonista anche in futuro. I riferimenti ai tratti somatici dell'attore Vincent Price parlano abbastanza chiaro. Frank Carter potrà anche essere una spia per caso, ma è un cocktail di cultura pop organizzato e fortemente voluto. Rigorosamente analcolico, per essere alla portata di chiunque. Da consumare in bicchieri piccoli e da buttare giù d'un fiato, godendo di quel velocissimo brivido che un salto nel passato (e tra diversi mondi dell'immaginario legato all'intrattenimento) riesce a suscitare, specialmente a chi ancora possiede il senso della storia.



Nel secondo ciclo qui presentato in cartaceo, “Prigioniero di Ares”, assistiamo al passaggio di testimone da Fortunato Latella a Marco Perforato. La cifra artistica resta omogenea, e il lavoro di Perforato non produce nessun trauma, restando perfettamente aderente allo spirito del racconto e alla scelta di stile che fa da base al progetto. Qui assistiamo a un nuovo scontro diretto dell'ormai rodata spia-non-più-tanto-per-caso e quella che si è già connotata come la sua nemesi, e cioè l'organizzazione criminale che si fa chiamare Ares. Se nel capitolo precedente, Coratelli e Latella si sono divertiti a giocare con gli archetipi dell'horror classico, qui abbiamo un'escursione nel territorio immarcescibile delle “escape adventures”, le storie di evasione. La ricetta non cambia. Un'iniezione di leggerezza (e un ritmo sostenuto) permettono di narrare anche episodi di violenza e risvolti drammatici senza che il lettore sia costretto a prenderli necessariamente sul serio. Riducendo il tutto all'osso della narrazione avventurosa, dove il sangue, le lacrime, la morte, non sono reali shock, ma semplici passi di una danza che per essere eseguita ed essere piacevole non possono essere esclusi. Quel che conta è l'intrattenimento e la confezione globale. L'origami completo alla fine di un certosino lavoro di piegatura.


C'è da chiedersi se, a prescindere dalle intenzioni di partenza, Frank Carter non abbia finito con lo sconfinare, e da iniziativa volta a recuperare atmosfere ed emozioni deliziosamente vintage, non si stia progressivamente trasformando in un esperimento di minimalismo fumettistico, che attinge e sintetizza in forma essenziale un po' tutti i topos dell'immaginario legato all'intrattenimento. Una chiave di lettura interessante, che ci fa chiedere come evolverà ulteriormente la serie.

Se il primo volume cartaceo, con il marchio Red Publishing, era il risultato di un crowdfunding riuscito, questo secondo avvento odoroso di tipografia ha avuto un parto più travagliato ed è reperibile direttamente su ebay. Cosa che fa porre qualche domanda. Nel frattempo, la spia-non-più-per-caso continua a correre e a rischiare la pelle sul web, ed è lecito chiedersi se la somministrazione periodica delle sue avventure in modiche quantità, concise e accattivanti come caramelle dal sapore proustiano, non rimanga il suo format per eccellenza. La professionalità è indubbia, la qualità della confezione anche. Ma il passaggio su carta e la lettura d'un fiato potrebbe (e il condizionale qui è d'obbligo) smorzare nel corso del tempo una parte del suo carisma gioviale e scattante, così legato al revival di un piacere che fu. A meno che qualcosa nella formula non cambi rotta, e Frank Carter (che ormai è un avventuriero a tutti gli effetti) non osi di più. Magari rischiando il collo sul serio (sul piano artistico e commerciale) con una progressiva maturazione che possa portarlo a un livello successivo, in grado da reggere la strada ancora da percorrere tanto sul web che sulla carta stampata. Ricordiamo che serie televisive diventate di culto, come Buffy del non ancora famosissimo Josh Whedon, hanno iniziato in termini di grande leggerezza per poi evolvere in saghe più complesse, dai dialoghi densi e dai colpi di scena devastanti. Pertanto, chi può dire cosa ne sarà di Frank e Jill Carter?

Non ci resta che fare gli auguri a Carlo Coratelli, Fortunato Latella, Marco Perforato e a Enrico Folli, salito a bordo del progetto web già dallo scorso 2015.


Guarda la videorecensione del volume 1

giovedì 22 settembre 2016

Fumetti in soffitta: «Jesus! Koko... ma sei un Coyote!»


Correva il 1976, e chi era adolescente in quel periodo (come il sottoscritto) attraversava una trasformazione che andava oltre la pubertà. Stiamo parlando di una trasformazione “fumettistica”, che metteva in atto una metamorfosi del gusto dell'intrattenimento (anche se si rivelò essere una transizione solo temporanea), facendo “evolvere” i bambocci affascinati dai supereroi (erano i primi, floridissimi anni della Marvel in Italia grazie all'editoriale Corno) in appassionati di più tradizionali (si fa per dire) avventure western. Insomma, dalla Corno si passava alla Bonelli (che ancora si chiamava editoriale Cepim). Il personaggio di Zagor risultava un ottimo spartiacque. Offriva praticamente un effetto metadone, in quanto era un eroe che agiva nel west, interagendo con pellerrossa e pistoleri, ma era di fatto un supereroe. Un ibrido di Tarzan e Phantom (ma noi lo conoscevamo ancora come “L'Uomo Mascherato”) cui era stata shakerata altra roba. Aveva persino un costume, e come tutti gli eroi super girava così conciato per le strade senza che nessuno gli fischiasse dietro (anche perché se no erano cazzottoni alla Bud Spencer... che però suonavano in modo imbarazzante, con l'onomatopea SMACK). Poi arrivava l'immarcescibile Tex, più canonico (e troppo serio già allora). La Collana Rodeo, albo antologico che conteneva una vera cornucopia di serie: Storia del West, La Pattuglia dei Bufali, I Tre Bill. I recuperi d'annata per la stessa casa editrice, come Un ragazzo nel Far West (una delle prime opere del giovane Bonelli-Nolitta), e il Piccolo Ranger, il Comandante Mark... Mister No era arrivato da pochissimo, non era un western e l'ambientazione amazzonica faceva ancora strano. Non parliamo dei personaggi con l'allitterazione nel nome (Martin Mystere, Dylan Dog, Nathan Never) che erano ancora lontanissimi.

Be', noi ragazzetti di quel periodo eravamo affamati di west e di avventura tradizionale. Per qualche motivo (probabilmente legato agli ormoni) le calzamaglie dei supereroi ci apparivano troppo infantili, e il nostro immaginario si rifugiava in qualcosa di (apparentemente) serio e cazzuto come le storie di frontiera dove fumavano le canne delle colt. Ancora meglio, però, quando in queste sconfinavano elementi neogotici e fantastici (si veda la saga di Zagor contro il vampiro o le escursioni di Tex nella stregonerie con Mefisto e tutta la sua progenie).

A parte i Bonelli (che, ricordiamo, non si chiamavano così. Dal momento che la casa editrice cambiò nome più volte. Daim, Cepim... ma tanto eravamo piccoli e all'epoca nessuno ci faceva caso), iniziavano a sbucare nelle edicole tutta una serie di prodotti epigoni di quelli che ai tempi erano considerati pezzi da novanta. Titoli che oggi chiamiamo (pensa un po') “bonellidi”. Giusto per dire che il formato (più del contenuto) della casa editrice di Tex Willer aveva proprio fatto scuola nell'industria di quella che all'epoca, nel nostro paese, non era contata neppure nona tra le arti. Alcuni tra questi furono pubblicati dal gruppo editoriale Geis, dove aveva le mani in pasta Renzo Barbieri, il signore che ha legato il suo nome alla lunga stagione del fumetto erotico italiano (ops! Ai tempi, noi sbarbati li chiamavano “giornaletti di donne nude”), ma che ha dato molto anche alle avventure di frontiera. Tra questi, un ricordo molto forte lo ha sicuramente lasciato il Coyote, un oscuro personaggio western, disegnato da Pietro Gamba. Oscuro perché (per i tempi, eh!) le sue avventure erano toste assai e politicamente scorrettissime. Mettiamola così. Il protagonista, chiamato con il nome di battaglia (preso in prestito da un collega di oltreoceano) di Coyote e una maschera ricavata da una pelle di lupo (come il marvelliano Red Wolf prima di lui) era stato scotennato dagli indiani ed era sopravvissuto. 

Come? Non aveva importanza. La sua leggenda raccontava che durante un assalto di pellerrossa lui si era finto morto, e aveva continuato a farlo anche mentre gli strappavano il cuoio capelluto... come si diceva facesse il vero coyote (e io mi sono sempre chiesto chi si era preso la briga di scuoiare un canide selvatico per verificare se in quell'occasione si fingeva morto). Ad ogni modo... il signore ne esce vivo, ma calvo e affascinante come un giovane Yul Brinner nei Magnifici Sette (non deturpato come avrebbe dovuto essere, ma liscio e lucido come una palla di biliardo) e anche un tantino incazzato. Insomma, da quel momento i nativi americani (pardon, gli indiani, che ancora si chiamavano così) gli stanno sul culo (sai, gli hanno rovinato la pettinatura!) e quindi ha giurato che ne scotennerà almeno mille, perché tanto valeva il suo scalpo. Insomma, un folle maniaco. Tra l'altro pistolero imbattibile. Un serial killer di pellerrossa che casualmente si trova coinvolto anche in intrighi di fuorilegge che poco c'entrano con la sua maniacale vendetta. C'è anche una procace e tostissima donna bionda, imparentata con gente che lui ha fatto fuori, che lo odia e fa di tutto per ucciderlo. Insomma, dovrebbe essere la villain della storia, ma i due si sbaciucchiano e ne viene fuori un rapporto simile a quello tra Batman e Catwoman. Balordo, violento, e sotto molti aspetti (non sono il primo a dirlo) antesignano di antieroi psicopatici come The Punisher (ma il Punisher E' un personaggio western, in fondo! Vogliamo capirlo?!), la serie del Coyote durò una manciata di numeri (8 in tutto), ma rimasero impressi nella memoria dei bimbetti del tempo. Ragazzotti che cercavano di sfuggire alle spire dell'idea supereroistica, ma che ne erano in realtà completamente soggiogati.

Un'altra creatura della Geis che riprendeva il formato bonelliano e i temi di frontiera che fecero la fortuna della casa editrice milanese, fu il personaggio creato da Ennio e Vladimiro Missaglia (fratelli, sceneggiatore e disegnatore nell'ordine) chiamato Jesus. Sì, avete capito bene. In teoria, suppongo, che il nome andrebbe pronunciato alla spagnola e quindi Heeesùs... (che poi è un nome maschile di uso comune in Messico, solo che il personaggio era più biondo di Ursula Andress) o all'inglese Giiiiisus. Ma noi pischelli dei 70 lo chiamavamo semplicemente “Ièsus”. La caratteristica di questo avventuriero molto bravo con le pistole era un look che c'entrava con il vecchio west (Pirandello insegna) come Pilato nel Credo. Infatti portava una fluente capigliatura biondo oro sciolta sulle spalle, indossava un gilet a frange sul torso nudo, collane, bracciali e persino pantaloni a zampa di elefante (sic!). Insomma, era un freakettone che girava per il west, aveva un rapporto di vecchia amicizia con gli indiani Arrapaho (che ancora non avevano subito lo sputtanamento mediatica degli Squallor) e flirtava con una bella squaw chiamata Occhio d'Anitra (nome normalissimo per una donna nativa americana, ma che all'epoca a noi faceva un po' ridere). Questo Jesus (che in una successiva ristampa fu ribattezzato con un più laico Colt, forse per paura di un boicottaggio da parte dell'autorità cattolica non proprio incline a porgere l'altra guancia, o forse solo per una perdita della capacità di osare) iniziava la sua storia come una sorta di Conte di Montecristo di frontiera. Era stato condannato ingiustamente al carcere duro a seguito di un complotto, e una volta evaso inizia la sua regolare vendetta. Jesus era un western per certi versi canonico, per altri spiazzante dal punto di vista estetico, soprattutto per lo strampalato protagonista, che comunque aveva carisma da vendere. Anche la sua corsa durò poco. Oddio (e qui ci sta) volendo più di altri, visto che riuscì a superare la ventina di uscite. Un vero record per i suoi tempi. E il suo effimero ritorno negli anni 90 (un'apparizione molto più breve dell'edizione originale) fu sotto il più scontato dei nomi che un fumetto western potesse avere.

Che dire al riguardo? Un pistolero vestito come un hippy che si chiama Jesus? Be', erano gli anni settanta, in fondo, e si potevano fare cose oggi impensabili. Compreso vivere il kitsch come innovazione. Se nel film fotocopia (ma in realtà visivamente molto più trasgressivo) de L'Esorcista di William Friedkin, intitolato L'Anticristo (diretto da Alberto De Martino) veniva mostrata un'allucinazione della posseduta Carla Gravina che vede un santino raffigurante un Cristo che le mostra un'enorme erezione senza che la cosa scatenasse neanche la metà del finimondo innescato da L'ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese... i fumetti popolari godevano di una parallela, relativa libertà trash. Pellicole come Soldato Blu di Ralph Nelson erano vietate ai minori, e avevano per i più giovani la stessa aura maledetta di certi horror interdetti ai piccoli spettatori. Tempo per capire che i nativi americani erano un popolo vessato e violato dall'uomo bianco, ne sarebbe dovuto passare ancora parecchio. E il Coyote, con la sua zucca pelata ma fascinosa, poteva sventrare (e scotennare) i “musi rossi” come se fossero stati un mucchio di anonimi vaganti in The Walking Dead senza che la cosa suscitasse nel lettore nessun dubbio di natura etica, storica e politica. Eravamo ingenui, ma anche più disponibili al divertimento e alla meraviglia.

Nello stesso periodo, sempre dalle edizioni Geis, esce Koko (ebbene sì, faceva ridere anche allora. Provate oggi ad andare dall'edicolante e chiedere “E' uscito Koko?”). Stavolta non si trattava di un western, ma di un avventuroso esotico. Gli stilemi di casa Bonelli (che... uff... non si chiamava ancora così) la facevano anche qui da padroni. Stesso formato, stessa foliazione, stesso bianco e nero. La matrice, stavolta, era in parte zagoriana. Koko era ambientato nel continente nero, e il personaggio era una sorta di protettore del patrimonio ecologico (l'eroe era rigorosamente di razza bianca, eh!). Ai testi c'era Rubino Ventura (che si era fatto le ossa sui fumetti sporcaccioni accanto a Leone Frollo) e ai disegni nientemeno che Stelio Fenzo, vecchio leone del Vittorioso, collaboratore e continuatore di opere di Hugo Pratt e anche lui a bordo della corazzata di Renzo Barbieri come creatore assoluto di Jungla (e si parlava sempre di donnine e donnone nudine). Koko era un eroe ecologista con una patina alla Zagor, ma l'atteggiamento paternalistico nei confronti dei nativi del luogo era molto smorzato rispetto a quello del più celebre Spirito con la Scure. Inoltre non si fingeva una divinità. Era più buffo (anche fisicamente), più cialtrone, e aveva come compagna di avventure una buonissima leonessa di nome Ly, ovviamente ingelosita dalla fidanzatina esploratrice di turno. Un punto debole delle avventure, comunque godibili di Koko, era l'invereconda ripetitività di certi meccanismi narrativi. 

Per ben due episodi di seguito, il protagonista si sottrae a una trappola mortale che sotto alcuni aspetti anticipa quella di Indiana Jones ne I Predatori dell'Arca Perduta. La prima volta è una fossa piena di scolopendre velenose, la seconda è una caverna gremita proprio di aspidi. In entrambi i casi, l'espediente di fuga era lo stesso. Nel primo, si cosparge di una lozione contro le punture delle zanzare che puzza come cento diavoli (gliel'aveva donata la sua amorosa Vanessa... che evidentemente non ne aveva mai fatto uso) per allontanare le bestiacce. Nel secondo, scopre da solo una pozza di guano di pipistrello e ci si fa letteralmente il bagno (così noi pischelli imparammo che per non farsi mordere dai serpenti bisognava fare un bagno nella merda). Insomma, l'arma principale di Koko era la puzza (ditemi voi se un fumetto simile non è indimenticabile!). Koko durò circa una decina di albi (il decorso di queste influenze fumettistiche anni 70 era più o meno questo) e oggi è finito nel dimenticatoio come tutti gli altri, salvo che per il settore dei collezionisti.


Ricordare oggi questi piccoli passi editoriali, che hanno lasciato un'impronta nei ricordi di alcuni di noi, ci fa riflettere anche sul cinema di genere italiano, allora in auge e oggi completamente scomparso a beneficio di cinepanettoni e affini. Come al cinema, nel fumetto, esisteva una cultura bis, una tradizione dell'imitazione che in qualche modo poteva generare anche piccole gemme. Certo, erano altri tempi, e le esigenze erano diverse. E suonerà pure come una bestemmia per molti... Ma io ricordo con tanta nostalgia Jesus, tanto strampalato da essere ipnotico, molto più dell'inossidabile Tex.

mercoledì 14 settembre 2016

Paperi - One$, la fine della trilogia di Marco e Giulio Rincione


 La trilogia è finita. E ora che la lettura si è conclusa, ci aspettano gli incubi. Cala il sipario, e cadono anche le maschere. Paperi, il trittico dei gemelli Marco e Giulio Rincione edito da Shockdom, scopre finalmente le sue carte con l'atto finale. One$... che potremmo leggere “ones” con davanti quel suffisso, “Paper”, che ci riconduce per assonanza al grande vecchio, terribile e avaro della dinastia pennuta di casa Disney. Ma anche “uan$”... Cioè “Uno”, seguito dal simbolo del dollaro. Come qualcos'altro, di diverso eppure collegato. Come la posizione sociale, come il primo passo verso la ricchezza (e la rovina), come un talismano...
Questa nota a margine (che in pochi leggeranno) non contiene spoiler rispetto al video dedicato all'ultimo capitolo della trilogia. Ma si riserva di sottolineare un aspetto appena accennato. Alla fine, Paperi acquista un significato completo e va oltre la mera rappresentazione del male di vivere, come c'era sembrato all'inizio. No, in One$ i trucchi sono svelati, e gli intenti satirici scoperti. Perché la satira è spessa amara. Ci si strozza bevendola, e più che un sorriso induce la tosse, un senso di soffocamento... Il simbolo dell'infanzia di tanti tra noi è legato al ricordo di un uomo geniale ma anche spregiudicato, e influenzato da orizzonti politici condannati dalla storia. Come abbiamo visto, nel mondo descritto dai fratelli Rincione, i Paperi sono tutti attori, tutti ingranaggi di una spensierata macchina dei sogni... in realtà condannati a vivere esistenze miserrime, sotto il controllo di una razza a forma di sorcio che muove le fila dei giochi. Persino quelli che sembrano più fortunati tra loro, i più conniventi e benestanti, non sono che pedine e possono essere gettati via e dimenticati come oggetti fungibili. La maschera della satira, qui, ha un doppio strato. E ci chiediamo se oltre agli evidenti riferimenti all'ambiguità della celeberrima icona della nostra infanzia, non ci stiano parlando di qualcosa di più vicino a noi. Forse della stessa industria del fumetto, dove autori e disegnatori devono sbracciarsi come pagliacci su palcoscenici illuminati. Dietro le quinte sfruttati, spremuti, umiliati, e alla fine cancellati. Proprio come i Paperi dell'allucinante e meraviglioso mondo dei fratelli Rincione.

sabato 10 settembre 2016

The ONE - L'ultima parola sui supereroi [di Rick Veitch]


Rick Veitch, un fumettista underground innamorato dei supereroi. Talmente estroso e in gamba da subentrare al timone di Swamp Thing subito dopo il celebrato ciclo del bardo Alan Moore, e di andare via (dalla testata e dalla casa editrice) quando si vede bocciare un progetto considerato troppo ardito per i tempi. Autore di opere iconoclaste, stravaganti, profonde, divertenti. E di The One, che si propone (a metà degli anni 80) come "l'ultima parola sui supereroi". Per lo stesso Alan Moore, che firma la prefazione all'edizione in volume, The One e Veitch hanno anticipato l'ondata di rinascimento supereroistico che vede il suo picco di maggiore visibilità in Watchmen. Ma The One, pur parlando di supereroi, va molto oltre. Quando il fumetto è figlio dei suoi tempi, ma è capace anche di crescere e camminare sulle sue gambe, senza data di scadenza. Ed è satira, fantasia, divertimento. E ci parla di noi, di quanto potremmo o dovremmo essere migliori. 

giovedì 11 agosto 2016

BAMF - Robotics


Robotics. Un mondo popolato esclusivamente da automi che un tempo erano umani. Un'incubo che somma diversi archetipi della fantascienza, ma anche del fantasy e del romanzo d'avventura in generale. Una serie a fumetti tutta italiana, ideata da Claudio (Claps) Iemmola, scritta in collaborazione con Paul Izzo e disegnata da Giacomo Pilato, Gaetano Matruglio, Lazzaro Lo Surdo e Sudario Brando. Saga tecnologica, ma declinata secondo uno stile mutevole. In evoluzione, come la razza umana, come i robot...

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mercoledì 27 luglio 2016

Civil War II (...Bis, Revival, Cosplayer?)

Civil War, l'evento orchestrato nel 2006 dallo sceneggiatore Mark Millar che ha scosso il mondo dei supereroi Marvel è oggi materia di un revival, tuttora in corso di uscita negli Stati Uniti. Pregi e difetti di un'operazione che - come già la trascorsa Secret Wars - si propone di rilanciare il Marvel Universe, prendendo - a sorpresa - le distanze dalle ormai popolarissime versioni cinematografiche. Ma è tutto oro quel che luccica? Quali differenze ci sono tra queste due "guerre civili". Scopriamolo insieme.

giovedì 14 luglio 2016

Basilicò di Giulio Macaione

Basilicò, di Giulio Macaione. Una piacevolissima sorpresa da parte di un giovane autore italiano.
La storia di Altroquando e quella di Giulio sono parzialmente intrecciate, considerato che ha mosso i suoi primi passi di disegnatore a Palermo, allestendo la mostra "Nell'ombra" presso la nostra (non più esistente... non chiamate con il nome della mia famiglia le mura in affitto dove oggi vive qualcun'altro, per favore...) libreria, durante il ciclo "Sguardi & Visioni" nel 2001. Da allora, acqua sotto i ponti ne è passata. Giulio è cresciuto, ha frequentato l'Accademia di Belle Arti a Bologna, dove vive ormai da anni, e ha prodotto tutta una serie di prove notevoli, fino a Basilicò. Forse il suo banco di prova più ambizioso. Almeno per ora. Scopriamolo insieme.

venerdì 10 giugno 2016

Rebirth: una prima occhiata alle singole serie...


Lo so. Da qualche parte, sui social, avevo detto che non ne avrei più parlato. Ma sono un risaputo brunello. Quindi...

Insomma, Rebirth, il crossover che rilancerà il DC Universe e che vede come grande architetto lo sceneggiatore Geoff Jhones, procede... lentamente sulle singole serie, ma si fa sentire un po' di più su Flash (come si poteva immaginare dal prologo) e Wonder Woman.

Se Green Arrow inizia a recuperare qualcosa del suo rapporto sentimentale (azzerato dagli eventi di Flashpoint e dai New 52) con Black Canary, il vecchio Superman (quello che ha avuto un figlio da Lois Lane) inizia a fare i conti con una realtà che non sembra seguire le regole che credeva di aver riconosciuto. Dal canto suo, sulla sua serie personale, Batman ha ben altre gatte da pelare, e la vicenda lasciata in sospeso al termine del prologo è ancora in alto mare. O meglio, si collega direttamente alla storyline di Flash, probabilmente una delle sorprese più riuscite di questa ennesima (e sicuramente non ultima) revisione di uno dei cosmi supereroistici più famosi al mondo. Carmine di Giandomenico è in ottima forma, e ci regala un velocista scarlatto carismatico, scattante e umanissimo. Il suo tratto non realistico, libero, ma lontano da facili derive grottesche, si presta molto a interpretare il mondo ipercinetico di Barry Allen, e mostra un biglietto da visita che è una festa per gli occhi nella storia sceneggiata da Joshua Williamson. Una trama densa di riferimenti iconici che ripercorrono l'origine di Barry e i suoi principali traumi. Quindi Wally ora è tornato. Un altro Wally seguirà il suo destino, e il passato ritornerà a mordere (o accarezzare) le chiappe di tutti i personaggi. E' sulle pagine di Flash che s'infittisce il mistero della spilla smiley ritrovata da Batman nella Bat-Caverna (in realtà è stata “sputata” dallo stesso fulmine in cui era apparso per pochi istanti Wally West). Per il resto, dovremo aspettare le prossime uscite.


Così per Wonder Woman (nuovamente affidata allo sceneggiatore Greg Rucka), che ci appare in crisi. E sappiamo che questa non è una parola da prendere alla leggera in casa DC. Confusa, spaesata, tormentata da ricordi che non comprende, e dalla frase che continua a ripetersi ossessivamente, e cioè che “il passato continua a cambiare”. Wonder Woman, forse più di altri personaggi DC, ha subito modifiche retrospettive, e il rimaneggiamento dei New 52 non è stato esattamente da poco. La sua prima avventura sotto l'ombrello di Rebirth è fortemente onirica, non può non esserlo. Diana è una creatura mitologica la cui origine è stata più volte riscritta. Bizzarro vederle fare qualcosa che forse non ha mai fatto prima... o che almeno, io non le avevo mai visto fare: legare se stessa con il suo lazo che induce a dire solo la verità. Le risposte sono tante. Sono tutte vere. Ma qualcuna forse è più vera delle altre. Chissà.


Insomma, a piccoli passi, inizia a svilupparsi questo “raddrizzamento” della continuity. Pare che molto riguarderà la memoria dei personaggi, che riacquisteranno gradualmente i ricordi di cosa è successo prima degli eventi che hanno modificato il corso della loro storia, ma senza riplasmare il loro mondo come avvenuto alla fine di Flashpoint. Non per ora, almeno. La direzione sembra questa. L'idea non è da buttare se funzionale a ripristinare concetti cestinati con troppa leggerezza (e tuttora rimpianti da molti lettori di vecchia data). Ma i risultati a lungo termine restano ancora tutti da scoprire.  


martedì 7 giugno 2016

Crisi e Rinascita... anzi, REBIRTH (l'ennesima)

C'è grossa Crisis... e allora: Rebirth! Ripercorriamo le trasformazioni editoriali del cosmo DC attraverso le principali saghe che ne hanno riplasmato la continuity per meglio osservare l'attuale DC Universe Rebirth. Evento che rilancerà uno dei più famosi e amati universi supereroistici dopo l'avventura (finita male?) dei New 52. Crisi cosmiche, interventi (forse) divini, enigmi e teorie. Ma ricordate: niente si crea e niente si distrugge. Qui si ricicla tutto. Un video che mi ha letteralmente sfiancato. Per inciso... Alfred Hitchcock appariva nei suoi film. Nei miei video appare qualcun altro, che alle mie spalle ha fatto uno sbadiglione spettacolare. Non l'ho censurato. Buona visione, from Altroquando with Love.

venerdì 11 marzo 2016

American Horror Story: Hotel (riflessione finale di uno spettatore deluso)


Finalmente ho finito di vedere la quinta stagione del serial TV American Horror Story, il ciclo intitolato Hotel. E finalmente, in questo caso, indica un senso di liberazione, dal momento che la compulsione a non lasciare niente di incompleto mi ha spinto ad assistere allo show nella sua interezza, pur prendendomi delle confortanti pause per dedicarmi ad altre serie. Alla fine posso tirare le somme convinto della mia impressione iniziale: American Horror Story: Hotel è veramente, a mio parere, il picco più basso toccato dalla serie ideata da Ryan Murphy e Brad Falchuck.

Se la precedente stagione, FreakShow, aveva fatto storcere il naso a molti (io l'avevo in buona parte apprezzata, trovando ben più lacunosa la terza stagione, intitolata Coven), Hotel è una discesa nel kitsch senza ritorno. Già dal secondo ciclo, Asylum, la serie aveva iniziato a presentare una struttura composita, con più trame parallele e convergenti. Le stagioni successive hanno tentato tutte di seguire il medesimo criterio, ma senza riuscire a riprodurre lo stesso equilibrio. Hotel è un minestrone di situazioni e personaggi dove praticamente non esiste un vero finale per nessuno, un meccanismo che gira a vuoto azzardando l'ennesima rilettura di un mito mediatico ormai troppo sfruttato: i vampiri. I succhiasangue negli ultimi vent'anni sono stati oggetto di infinite riscritture, alcune interessanti, altre patetiche. Ma non avevo mai incontrato dei vampiri scialbi, incoerenti, privi di fascino come quelli che vediamo in Hotel.

Lady Gaga, premiata in modo incomprensibile con il Golden Globe come migliore attrice protagonista di una serie televisiva, non aggiunge gran che, se non fare pesare ancor di più l'assenza di un protagonista realmente carismatico dopo l'abbandono di Jessica Lange. Dal punto di vista recitativo, la popstar non è esattamente un disastro. Potremmo anche dire che si difende senza infamia e senza lode. Ma il suo personaggio vive soprattutto nei costumi appariscenti che sfoggia, e la sua performance, sia pure non disprezzabile, non meritava certo un premio. Insomma, Lady Gaga incede in una versione molto dilatata di uno dei suoi videoclip, mentre il sangue zampilla, la gente muore, serial killer realizzano omicidi raccapriccianti e macchinosi, e tutto sa terribilmente di statico e stantio.


Si è scritto che la rivelazione di Hotel è l'attore Denis O'Hare, nella parte della trans Liz Taylor. Ma che O'Hare fosse un attore duttile e di grande talento lo sapevamo già dai tempi di True Blood, nonché dalle stagioni precedenti di American Horror Story. La sua prova d'attore è sicuramente degna di nota ed è tra le cose più riuscite di Hotel, ma lo spazio a lui riservato è pochissimo e – ahimé – non basta a reggere il peso di un baraccone dove alla fine non quadra niente. Troppi spunti sprecati, troppe situazioni dimenticate per strada. Appunto: troppi, come le trame che vanno a comporre il mosaico (alla fine informe) di Hotel, collocandosi qualitativamente al di sotto anche del già difettoso Coven.

L'assenza di Jessica Lange, o comunque di un interprete al suo livello, si rivela dunque cruciale. Già da un po', la Lange appariva sacrificata, intrappolata com'era dagli sceneggiatori in ruoli troppo simili tra loro, da maliarda non più giovanissima, assetata di successo e di potere. Ma nonostante il ruolo sempre uguale, il fascino e il talento di Jessica rappresentavano un faro che illuminava la scena. Qui manca, e nessuno è in grado di prenderne il posto. Kathy Bates e Angela Bassett continuano a essere relegate a ruoli di supporto, e anche loro appaiono sempre più stereotipate. Lungi dal fermarsi, la sesta stagione di American Horror Story si farà. E probabilmente Lady Gaga sarà ancora della partita. Ma se le premesse sono quelle di questo Hotel, fosse sarebbe stata opportuna una pausa di riflessione.


Una serie antologica avrebbe potuto presentare approcci differenti alla materia trattata. Murphy e Falchuck, invece, non hanno fatto che servire sempre lo stesso menu, aumentando di volta in volta in modo esponenziale le quantità di ogni ingrediente, col risultato di presentare alla fine una pietanza dal gusto pesante e stucchevole. Emblematico, da questo punto di vista, l'effetto di già visto (sebbene voluto) che ci riporta alle dinamiche della primissima stagione. Solo che a quel punto anche lo spettatore si sente un fantasma legato a un luogo che non potrà mai lasciare, e la sensazione non è confortante.