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venerdì 17 febbraio 2023

Un'altra serialità è possibile




I serial televisivi (o streaming, ormai non fa più differenza) sono diventati compagni di strada nel quotidiano per molti di noi. Per me sono un rito serale, che in genere non mi trattiene più di un'ora prima di abbandonarmi alla lettura e quindi al sonno. L'offerta è vastissima e se in mezzo c'è tanto materiale che a volte emerge con clamore, in altri casi rimane più o meno sommerso.

Questo mio post si propone di elencare alcune di quelle serie meritevoli di essere viste che per una ragione o per l'altra non hanno goduto della stessa eco mediatica riservata a prodotti più celebrati.

Quanto spesso sui social abbiamo letto elogi di titoli come House of the Dragon? Quante volte ci siamo imbattuti nell'isterismo di massa (di segni opposti) a proposito della serie The Lord of the Rings: The Rings of Power? Nel visibilio relativo a The Boys, a Mercoledì e più recentemente a The Last of Us?

Insomma, esistono dei prodotti che più di altri possono essere definiti mainstream, o se preferiamo... popolari. Titoli in grado di catalizzare l'attenzione e monopolizzare la ribalta, in qualche caso a discapito di prodotti seriali interessanti che risultano spinti in una zona d'ombra dai riflettori puntati sui serial più gettonati.

Vediamo di scoprire qualcosa di meno dirompente, non per qualità, ma per riscontro mediatico. Una serialità “altra”, che non punta su brand arcinoti e grosse campagne promozionali pur avendo molto da dire, o semplicemente rivelandosi un valido intrattenimento. Quella che segue non è da intendere come una classifica, ma solo una casuale raccolta delle mie più recenti visioni preferite. Quindi, fatene un uso consapevole. Sono solo consigli.



Bad Sisters
– Grace Garvey è sposata con un uomo orribile. Un individuo insopportabile che non è il classico marito violento, ma che ha un'influenza nefasta sulla vita della moglie, stroncando in lei ogni minima gratificazione personale. Grace ha anche quattro sorelle molto legate tra loro, ciascuna delle quali ha subito una conseguenza negativa dalla condotta dell'infame cognato. John Paul ora è morto, apparentemente per cause fortuite. Ma se non fosse così? E come sono andate esattamente le cose? Nel frattempo, un agente assicurativo sull'orlo della bancarotta indaga per non essere costretto a pagare la cospicua polizza sulla vita del defunto. Succederà di tutto in un crescendo da cardiopalma.

Bad Sisters è una serie irlandese (basata su una produzione belga inedita da noi) prodotta da Apple TV, una piattaforma che negli ultimi tempi ha sfornato diversi titoli davvero interessanti. Ideata da Sharon Horgan, che nella serie interpreta il personaggio di Eva, è una commedia nera come la pece e frizzante come lo champagne. Seguendo le peripezie delle cinque ineffabili sorelle Garvey si ride e si inorridisce nello stesso tempo, in un balletto tra presente e passato che svela poco alla volta i segreti di una famiglia tutt'altro che esemplare. Un thriller al femminile appassionante, grottesco e divertentissimo.




Inside Man
– Un detenuto nel braccio della morte di un carcere statunitense riceve visite da persone che gli sottopongono quesiti di vario genere. Grieff ha ucciso la moglie in modo efferato e nessuno sa perché né dove abbia nascosto la testa del cadavere. L'uomo, che è stato un criminologo professionista, possiede qualità deduttive pari a quelle di Sherlock Holmes, e si presta a risolvere enigmi dal chiuso della prigione quasi fosse un modo per pareggiare i conti con il proprio senso etico. Nel frattempo, in Inghilterra, un sacerdote protestante si trova di fronte a un dilemma morale apparentemente insolubile. Le vicende dei due uomini si intrecceranno a distanza in modo imprevedibile.

Scritto da Steven Moffat, autore di Sherlock e per anni show runner di Doctor Who, Inside Man si basa moltissimo sulle performance dei due attori protagonisti: David Tennant e Stanley Tucci. Solo quattro puntate, ma serratissime e dal ritmo indiavolato. Un senso di angoscia crescente e un meccanismo a orologeria che funziona come una trappola. Difficile non cedere alla tentazione del binge watching e divorarlo in un'unica seduta. Si trova nel catalogo Netflix.





Severance – Scissione – Altra serie prodotta da Apple TV e altro titolo di alto profilo del quale, sia pure all'interno di una nicchia, si è parlato un po' di più. Il paradosso con Scissione, serie ideata da Dan Erickson e diretta tra gli altri dall'attore Ben Stiller, è che per consigliarla sarebbe meglio parlarne il meno possibile. Il suo incipit è fulminante e sarebbe un peccato rovinarlo ai neofiti. Limitiamoci pertanto a dire che siamo nei territori di una fantascienza sociale che sconfina nel thriller, dove le domande si succedono l'una all'altra sia per lo spettatore che per i protagonisti. Il contesto paranoico e claustrofobico, un vero e proprio incubo, pur narrando una storia completamente diversa, ai più anziani tra noi potrebbe ricordare alcune atmosfere del classico serial inglese Il prigioniero. Un mondo del lavoro distopico, dove l'essere umano è ridotto a un mero ingranaggio e le coscienze non sono mai state così manipolabili. Un gioiello di cui si attende con impazienza la seconda stagione.





Yellowjackets
– L'aereo su cui viaggia una squadra di calcio femminile cade in una remota zona montuosa lontana dalla civiltà. Un pugno di superstiti sono ritrovate molti mesi dopo. Ma non sono più le stesse. Venticinque anni più tardi, oscuri segreti tornano a perseguitare le giovani sportive ormai divenute donne ciascuna con la propria storia. Che cosa è successo nel misterioso eremo in cui la squadra si era trovata a sopravvivere, e chi sta giocando oggi con le loro esistenze?
Tra passato e presente, gioventù e maturità, Yellowjackets potrebbe essere definito un lontano parente del leggendario Lost. Una vicenda enigmatica che si dipana come un mosaico da formare un pezzo alla volta in base ai continui salti temporali. Un po' mistery un po' teen drama, un po' crime e un po' horror con pennellate di grottesco, lo show è arricchito da una ciurma di attrici notevoli tra cui si distinguono Melanie Linksey, Juliette Lewis e la sempre impagabile Christina Ricci. La prima stagione (già confermata la seconda) presenta numerosi enigmi e non è ancora chiaro in che misura il mistery centrale presenti venature soprannaturali. Come che sia, Yellowjackets è uno spasso. Se si ama farsi domande e giocare a indovinare le risposte (proprio come facevamo con Lost), il divertimento è assicurato. La serie è ideata da Ashley Lyle, Bart Nickerson e in Italia è andata in onda su Sky.



The Afterparty – Il giallo-rosa (un tempo li chiamavano così) è stato rilanciato di recente da Only Murders in the building riscuotendo un certo gradimento. La stessa etichetta sarebbe da applicare a The Afterparty, serial di Apple TV scritto da Christopher Miller. Gradevole nella sua visione di insieme, The Afterparty presenta un approccio specifico potenzialmente affascinante che però non ha il coraggio di andare fino in fondo, risultando alla fine uno show simpatico, ma anche lasciando una sensazione di possibilità sprecata. Almeno così è stato per me. Una classe di ex studenti si incontrano per una rimpatriata in cui emergono inevitabili i bilanci esistenziali di ognuno, i vecchi amori e rancori. Alla fine ci scappa il morto ed è subito millenial whodunnit, come dicono oggi quelli bravi. Una commedia poliziesca, direbbero altri senza troppi fronzoli, in cui ogni episodio è concentrato sul differente punto di vista di un ospite della festa e potenziale colpevole. L'intenzione era quella di proporre attraverso la soggettiva dei vari protagonisti un tono narrativo diverso per ogni puntata, passando dalla commedia sentimentale all'horror, all'action, al musical e persino al cartone animato. L'idea è tanto carina e intrattiene il giusto. Peccato, però, che l'atmosfera di base rimanga sempre quella della commedia, smorzando un po' la trovata sperimentale e riducendo il gioco a semplici allusioni parodistiche. Se ogni episodio, oltre al genere avesse mutato anche chiave e tono narrativo, avremmo potuto trovarci davanti a un evento. Ciò non toglie che The Afterparty sia un giallo simpatico, che se non altro prova a essere diverso dagli altri e merita la visione.


                                                        



The Devil's Hour
– Prodotto da Steven Moffat e scritto da Tom Moran come original su Amazon Prime Video, The Devil's Hour è una piccola (grande) sorpresa. Lucy si sveglia ogni notte alla stessa ora, tra le 3 e le 4 antimeridiane, reduce sempre dallo stesso incubo. Non un minuto prima né dopo. L'orario è implacabilmente preciso. La sua vita non è certo un letto di fiori. Ha ripreso da poco a frequentarsi con il marito da cui è separata, ma il loro rapporto continua a non convincerla. L'uomo non riesce proprio a relazionarsi affettivamente con il figlioletto. Isaac, un bambino strano che appare indifferente a qualunque stimolo, che non ride, non piange e a tratti appare simile a un guscio vuoto inclassificabile anche per la scienza medica. Intorno a Lucy, intanto, si verificano una serie di brutali omicidi e fenomeni indecifrabili che la porteranno a incrociare il cammino di un misterioso serial killer.

The Devil's Hour è un oggetto enigmatico e di fruizione non proprio facilissima. Trama labirintica, dinamiche narrative sfuggenti che confondono lo spettatore fino alla conclusione risolutiva nella sua complessità. Un horror mistery britannico che invita a comporre un nuovo mosaico dalle tessere tremendamente ambigue. Narrazione tesa, tenebrosa eppure affascinante grazie ai numerosi colpi di scena, all'ottimo ritmo e alle interpretazioni di Peter Capaldi e Jessica Raine. Disorientante e proprio per questo appassionante nella sua spietatezza.



                          
                                                       

Servant
– Ormai giunta alla conclusiva quarta stagione, la serie ideata da Tony Bassgallop, prodotta da M. Night Shyamalan, che ha pure diretto alcuni episodi, non è sicuramente roba per tutti. Eppure, tra le tante serie proposte da Apple TV (che sembra averne imbroccata una dietro l'altra), fa bella mostra di sé per originalità e il modo personale con cui affronta temi abusatissimi.

Sì, perché Servant è praticamente una storia supereroistica, di quelle in chiave dark e decostruzioniste. Può suonare strano, ma di questo si tratta, considerato che il personaggio centrale ha molti punti di contatto con quello marvelliano di Scarlet Witch, o perlomeno con la sua versione a fumetti più classica. Aggiungere altri dettagli sconfinerebbe nello spoiler.

Una famiglia americana formata da uno chef specializzato in cucina molecolare e da una giornalista televisiva rampante perde il figlioletto appena nato in circostanze drammatiche che non saranno subito chiarite. Per aiutare Dorothy, la madre, psicologicamente provata dal lutto, il marito accetta di ricorrere a un trattamento terapeutico sperimentale che prevede l'uso di una bambola che riproduce le fattezze del neonato defunto. Dorothy però sta varcando la soglia della follia, e mette sul giornale un'inserzione alla ricerca di una tata per il figlio artificiale. All'annuncio risponde Leanne, una misteriosa ragazza dal passato oscuro che viene subito assunta per assecondare le illusioni della madre confusa. Da quel momento, nella casa gli eventi sembrano non seguire più le leggi della natura, ma distorcersi in modo imponderabile.

Servant è una serie strana, probabilmente non per tutti. Qualcuno potrebbe trovarla ostica. Tuttavia mi sento di consigliarla, in quanto siamo davanti a un fantastico esempio di narrativa non lineare, un efficace thriller da camera e di un'ottima prova di attori. Nel cast, accanto a Toby Kebbell (Black Mirror), Lauren Ambrose (Six Feet Under) e Nell Tiger Free (Games of Thrones), troviamo anche Rupert Grint, l'ex Ron Wesley della saga di Harry Potter, in un ruolo sfaccettato che lo fa svettare su tutto il cast.






 The Bear
– Carmy è uno chef stellato che ha appena ereditato dal fratello defunto una tavola calda in un quartiere popolare di Chicago. Il locale è assediato dai debiti, il personale fuori controllo e rimettere l'attività in carreggiata sembra un'impresa impossibile. Carmy farà di tutto per comunicare con i suoi nuovi collaboratori, aiutarli a dare il meglio di sé e fare i conti con il rapporto mai del tutto risolto con il fratello ormai scomparso. The Bear 
è una serie che osa ignorare gli schemi più battuti e porta la serialità in un territorio raramente esplorato. Gli episodi, tutti molto brevi, sono ambientati in una cucina incasinatissima e chiassosa. Una vera zona di guerra dove si urlano istruzioni cui fanno eco proteste per tutto il tempo e ci si tuffa tra corpi che sgobbano, ingredienti miscelati, fornelli accesi e pietanze cotte con disperato senso di urgenza. La serie, scritta da Christopher Storer, a tratti può ricordare alcune pellicole di Spike Lee per il taglio realistico, la vicinanza ai personaggi e la narrazione ellittica in cui alcuni eventi sono suggeriti più che mostrati. Qualcosa di insolito che parla di umanità attraverso il rapporto con il cibo e la sua preparazione. Un gioiellino imperfetto, ma lucente da scoprire. Su Disney+ come Star Original.




Black Bird – Ispirato a una storia vera, come specifica un tag a inizio di ogni episodio, Black Bird è un thriller psicologico e nello stesso tempo una prova di attori a lenta ebollizione.

James, ex campione di football figlio di poliziotto in pensione, ricco, spavaldo e sicuro di sé, campa facendo affari con la cocaina finché non lo incastrano con una condanna durissima. Per avere un condono e potere stare vicino al padre malato nei suoi ultimi giorni, gli viene proposta una missione sotto copertura. Dovrà infiltrarsi in un carcere di massima sicurezza riservato a criminali con turbe mentali e usare le sue capacità di socializzazione per estorcere informazioni a Larry, un uomo accusato di essere un presunto serial killer di ragazzine che potrebbe essere presto liberato in appello data l'assenza di prove schiaccianti. Larry è mentalmente disturbato, mitomane, bugiardo... perverso. Jim dovrà trovare il modo di fare breccia nella psiche del vicino di cella, carpirgli informazioni cruciali, e assicurarsi che il mondo rimanga al sicuro dal suo delirio omicida...

Prodotto da Apple TV, scritto da Dennis Lehane e basato sul saggio In with the Devil, Black Bird non è un giallo in cui scoprire l'identità del colpevole, sebbene alcuni elementi possano a tratti far sorgere qualche incertezza sul reale andamento dei fatti. Tutto si basa sul confronto tra due personalità complesse. Una lucida, potenzialmente redimibile, e un'altra torbida, sfuggente, in cui bugie e verità possono diventare indistinguibili. A entrambi i protagonisti, Taron Egerton (Kingsman) e Paul Walter Hauser (Richard Jewell) sono stati candidati al Golden Globe (poi vinto da Hauser) per le loro interpretazioni. Black Bird è il crescendo ansiogeno di una partita a scacchi psicologica che si dipana per sei puntate tese come corde di violino mentre si sprofonda sempre più nella palude di una mente malata. Nel cast vediamo per l'ultima volta Ray Liotta, scomparso poco dopo il termine della serie, in una prova recitativa che ce lo farà ulteriormente rimpiangere.  




mercoledì 3 marzo 2021

Paranormal: dall'Egitto con... terrore


«Se la mente ti fa dei brutti scherzi... Faglieli anche tu!»

"Paranormal" è una serie Netflix egiziana a tema soprannaturale, tratta da una serie di romanzi, molto popolari in patria, scritti da Ahmed Khaled Tawfik. La serie è partita in sordina, ma grazie a un discreto passaparola sta pian piano conquistando una discreta fetta di pubblico. All'estero pare essere andata molto bene, e già si discute se confermarla per una seconda stagione. Nel panorama delle serie TV (o streaming che dir si voglia), dominato decisamente dalla cultura anglofona, "Paranormal" è una proposta davvero bizzarra. Innanzitutto per la sua ambientazione, discretamente diversa da quelle cui siamo abituati, e per il modo di intendere il soprannaturale, il misterioso e l'horror, qui rappresentato riferendosi, volta per volta, a leggende popolari in Egitto, spesso mutuate anche dalla cultura greca. Il plot di "Paranormal" si fonda molto sulla caratterizzazione del suo protagonista, il dottor Refaat Ismail. Personaggio che più antieroico non si può. Medico razionalista schivo, misantropo, nevrotico, il cui mal di vivere ha origine, però, in un trauma infantile legato a qualcosa di tuttora inspiegabile. Esperienza che farà da perno all'intera serie e alle avventure, apparentemente indipendenti, ma in realtà collegate da un sottile filo esoterico, che sconvolgeranno la vita del dottore e di tutta la sua famiglia.


"Paranormal" è quindi un racconto di fantasmi, di magia e di mitologia, con sprazzi horror e una curiosa alternanza tra i toni del dramma e quelli della commedia. L'attore Ahmed Amin, che interpreta Refaat, infatti, è noto in patria per essere soprattutto un comico. Ma il suo personaggio si arricchirà di più strati di episodio in episodio, così come l'avventura si farà sempre più nera e inquietante.
Una piccola, interessante sorpresa, quindi. E' probabile che molti storceranno il naso per la povertà degli effetti visivi (non se ne può più, gente. Seguite il cuore delle storie, è importante anche quello). Eppure "Paranormal" è una perla da scoprire tra le tante proposte, fatte con lo stampino, dal colosso dello streaming. Umorismo nero, paura, personaggi ben caratterizzati. E la costruzione di una mitologia interna che, se la serie sarà confermata per nuove stagioni, promette di crescere ulteriormente. Il mondo è grande. Le storie possono essere raccontate in molti modi diversi, in contesti molto variegati. E "Paranormal" è un ottimo biglietto da visita. Auguriamoci che a questo esperimento (a mio parere riuscito) ne seguano altri altrettanto interessanti.

mercoledì 23 dicembre 2020

The Leftovers

 


Non so ricostruire che cosa mi abbia fatto scoprire "The Leftovers" (serie TV prodotta da HBO iniziata nel 2014 e conclusa dopo tre stagioni) con tanto ritardo. Forse perché l'anno del suo debutto per me fu particolarmente duro, e la mia soglia di attenzione in fatto di spettacolo era molto bassa. Oppure perché la serie è stata oggettivamente sottovalutata dai più, e mentre la critica e quella fetta ridotta di pubblico che aveva avuto il piacere di scoprirla la elogiava, altri brand dal fandom agguerrito facevano molto più rumore rubandole la scena. Curioso, considerando che tra le tante serie che nel corso degli anni sono state paragonate alla leggendaria "Lost", "The Leftovers" è una delle poche, forse l'unica a meritare seriamente questo accostamento. Pur trattandosi di un prodotto per molti aspetti differente, e nonostante il fatto che la mano di chi scrive, in collaborazione con Tom Perrotta, l'autore del romanzo alla base di tutto, sia quella di Damon Lindelof, cocreatore di "Lost" e suo principale sceneggiatore.

The Leftovers (sottotitolato "Svaniti nel nulla", che poi sarebbe il titolo italiano del libro di Perrotta) è veramente una strana creatura. Tutto ha inizio con la simultanea sparizione di migliaia di persone nel mondo. Una sorta di rapimento mistico (alcuni, almeno, lo interpretano così) del tutto privo di spiegazione. Evento incomprensibile e traumatico, che lascia milioni di persone alle prese con un lutto difficile da elaborare. Figli, mogli, mariti, genitori, amici, sono svaniti senza una ragione apparente. Non si ha idea di quale sia stata la loro sorte, e quello che hanno lasciato è un mondo ferito, diverso, che a tre anni da quell'evento apparentemente soprannaturale è profondamente cambiato. Lo scenario è quello di una società dove tante certezze sono state ridotte in cenere (la sparizione è un evento isolato o potrebbe ripetersi da un momento all'altro?), e dove lo shock planetario ha prodotto una miriade di nuove forme di fanatismo. Per quanto le persone si sforzino di continuare a vivere normalmente, niente è più come prima. E ognuno reagisce come può, secondo la propria storia, il proprio carattere, le proprie ferite.

Damon Lindelof fa tesoro della narrazione frammentata sdoganata da "Lost", ma mettendola al servizio di una storia più compatta (solo tre stagioni, neanche troppo lunghe). Ancora una volta siamo di fronte a un mosaico le cui tessere sono state incasinate, e anche stavolta dovremo attendere che tutti i pezzi vadano pian piano al loro posto. Ma in "The Leftovers" c'è molto più di un accattivante trucchetto narrativo. La regia è sempre molto curata, il cast superbo, e alcuni frangenti hanno il sapore spiazzante di un'opera surrealista. Un po' alla Luis Buñuel, ma a tratti assume anche toni alla Lars von Trier, intinti in un misticismo che ha qualcosa di perverso. Un romanzo corale che presenta una galleria di personaggi dai destini intrecciati, e una serie di avventure singole che si incastrano significativamente nel disegno generale, risultando in qualche caso dei piccoli film preziosi in sé.

Al tono drammatico, si mischia in modo insinuante un vago elemento grottesco (in qualche caso si potrebbe parlare di vero e proprio humor nero), accompagnato dal commento di una colonna sonora spiazzante come la stessa narrazione, fatta di scelte eterogenee, canzoni folk, opera lirica e altro ancora, che contribuiscono a conferire alla serie un alone di intrigante follia.


Un peccato che (così pare) la serie abbia finito col diventare un prodotto d'essay, mancando la ribalta e sottraendo agli attori Justin Theroux e Carrie Coon (attrice teatrale pluripremiata, e prossimamente protagonista al cinema di “Ghostbusters: Legacy”), ma anche al sempre straordinario Christopher Eccleston e a un'imprevedibile Liv Tyler, l'attenzione che le loro performance avrebbero meritato.
Una serie, dunque, della quale mi sento di consigliare spassionatamente il recupero. Aspettatevi tanti pugni nello stomaco. Ma anche un coinvolgimento che vi toglierà il sonno imponendovi di andare avanti. E di innamorarvi di ogni singolo personaggio, anche quelli apparentemente odiosi. Forse soprattutto quelli.





lunedì 26 ottobre 2020

Ripensando a The Strain...


Un recupero tardivo, da parte del sottoscritto, quello dell'intera serie TV ispirata a "The Strain", la trilogia letteraria scritta da Guillermo Del Toro e Chuck Hogan. Quattro stagioni che adattano tre romanzi horror dalle venature fantascientifiche, e che particolarmente si prestano al clima autunnale di chi sta aspettando Halloween. La serie si era conclusa già da un po', tra l'altro passando discretamente sotto silenzio nella provincia virtuale dei consumatori seriali. Uno di quei prodotti che macinano una stagione dopo l'altra, arrivando alla loro naturale conclusione senza suscitare clamore, più che in sordina. Lontanissimi dal berciare suscitato da ogni episodio di "Game of Thrones" o di "The Boys", ma anche da titoli più di nicchia, come "Doom Patrol". Forse non sufficientemente pubblicizzato. Forse sottovalutato per via del tema abusato. O forse perché non ha neanche l'ombra di una componente "teen".

Un rimosso mediatico che per lungo tempo ho ignorato anch'io. Anche se forse per motivi differenti ai più. C'è da dire che quando la serie ha esordito (in America su FX, in Italia su Fox) avevo da pochissimo finito di leggere tutti i libri della saga letteraria. I vampiri creati da Del Toro e Hogan non avevano più segreti per me. Ogni personaggio aveva incontrato il suo destino e io ero decisamente satollo. Inoltre, chi mi segue su Youtube sin dall'inizio, forse ricorda quanto mi fece incazzare la girata fantasy (posticcia e contraddittoria) presente nell'ultima parte del terzo romanzo (la spiegazione sull'origine degli strigoi), e il mio rapporto con l'intero corpo narrativo della trilogia ne era uscito vagamente compromesso. Aggiungiamo che avevo completato la lettura dei romanzi in uno dei periodi in assoluto più brutti della mia vita, e il quadro sarà completo. "The Strain" per me era stato consegnato alla memoria. Non aveva nessuna voglia di ricominciare da capo e farmi raccontare tutto in live action. Non in quel momento. Ma il tempo passa, e le cose cambiano.


A distanza di qualche anno, a serie terminata, i tempi erano evidentemente maturi. Senza sapere neanche bene perché, probabilmente influenzato dal parere positivo di altri stimati cultori, ho deciso di dare una chance al "The Strain" di FX, e alla fine l'ho consumato in maniera quasi bulimica, bevendomi un episodio al giorno fino a esaurire tutte e quattro le stagioni. Attualmente, quando si parla di serie TV, sento ripetere sempre più spesso aggettivi come "Perfetto" e "Geniale". E altrettanto spesso non riesco a mettermi nei panni di chi le pronuncia. Bene. Nel caso di "The Strain" non c'è proprio nulla né di geniale né di perfetto. Anzi, è un prodotto pieno di imperfezioni. E a tratti qualche buco logico rischia di ingoiarci per non sputarci più. Eppure è un serial che si fa vedere dannatamente bene. Forse proprio per la sua onestà, la sua capacità di mantenere alto il ritmo, l'assenza di pretese e l'uso di personaggi caratterizzati molto bene. Quei buchi, quindi, alla fine appaiono come dei nei su un corpo che esteticamente, nel suo complesso, si difende benissimo e riesce a risultare più che attraente. Chiedere altro a una serie TV è lecito. Ma bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare. "The Strain" intrattiene, cattura e ti spinge ad andare avanti. Grazie anche alle numerose libertà che si prende rispetto ai romanzi. Cosa, per una volta, saggia e tutto sommato riuscita. Giusto quello che serviva a me per riavvicinarmi a una storia che avevo già approfondito in forma diversa.


Parliamo di uno spunto horror che più classico non si può. L'aereo che atterra a New York e subito interrompe i contatti, spegne le luci e rimane inerte come un antro buio e silenzioso rimanda dichiaratamente a uno degli episodi più iconici del "Dracula" di Bram Stoker. Parliamo di vampiri, dunque, ma i succhiasangue di Del Toro e Hogan hanno qualcosa di diverso da quelli che siamo abituati a frequentare. Niente di romantico, niente di sensuale. Il vampirismo è visto più come una malattia, un virus (e sì) altamente trasmissibile, che muta la fisiologia del corpo ospite dando vita a una forma predatrice che è anche veicolo per ulteriori contagi. I romanzi di Gullermo Del Toro e Chuck Hogan, soprattutto il primo, sono fortemente debitori allo stile di Michal Chricton, e al suo approfondimento scientifico (o fantascientifico), legato a filo doppio alla storia che sta raccontando. I vampiri, insomma, sono descritti in modo molto fisico, come una malattia da combattere. Ed è per questo che tra i principali protagonisti troviamo subito un'equipe di epidemiologi. Ma anche uno zelante e pragmatico disinfestatore specializzato nella derattizzazione.
L'attore inglese David Bradley, sempre grande, è praticamente nato per interpretare Abraham Setrakian, l'anziano rigattiere ebreo, sopravvissuto all'olocausto, che sembra attendere da tempo l'insorgere di un male che ha già incrociato il suo cammino in passato. Inoltre, devo ammettere che uno degli elementi che mi avevano finora tenuto lontano dalla serie era la presenza di Kevin Durand. Attore che, dai tempi di "Lost", per qualche motivo mi ha sempre ispirato un'epidermica antipatia, e che non vedevo tanto nei panni del disinfestatore ucraino Vasily Fet. "The Strain" è stata invece l'occasione per riconciliarmi con Durand, e il suo Fet, per quanto caratterizzato in modo un po' diverso dalla sua controparte cartacea, funziona benissimo. Ma tutto il cast è al posto giusto. E mi sento di dire che la versione televisiva riesce a lasciarsi alle spalle alcune lungaggini presenti nei libri e ad avanzare agile lungo quattro stagioni dicendo tutto quello che aveva da dire senza perdersi per strada.
L'episodio pilota, diretto dallo stesso Guillermo Del Toro, è forse quello più vicino alle atmosfere originali. Ma le deviazioni (meritevoli) dal percorso sono probabilmente riconducibili allo stesso regista messicano, show runner dell'intera serie assieme al corresponsabile Chuck Hogan, scrittore con cui aveva firmato la trilogia. Magari, questo, perché Del Toro funziona meglio sul set che alla scrittura di un romanzo. Non lo so, ma è un'ipotesi da considerare. Infatti, la serie glissa sulla parte mistica (stucchevolissima) che tanto avevo odiato nell'ultimo libro. Proprio non se ne fa menzione (emmenomale!). Aggiungiamo qualche personaggio inesistente nei romanzi, altri che vedono lievitare di molto il loro ruolo (Ruta Gedmintas e Samantha Mathis sono proprio brave). Qualche risoluzione differente, caratterizzazioni rivedute... e "The Strain" si dimostra un prodotto fruibile e godibile sia da chi ha apprezzato i libri che da chi li ha trovati appena sufficienti. Niente che faccia gridare al capolavoro, ma al prodotto di qualità sì. E con il suo bel carico di difetti. Ma parliamo di quei difetti che ti fanno voler bene a un caro amico. Insomma, ho fatto pace con "The Strain". Guillermo Del Toro rimane l'uomo più bello del mondo, e i suoi vampiri "virali" sono tornati per restare definitivamente nel mio immaginario.

martedì 29 settembre 2020

Ratched, il nome di... che cosa?


 Ma questa serie Netflix, "Ratched", che cosa vuole essere esattamente? Finora ho visto solo i primi due episodi e non so ancora se continuerò. Però mi suscita domande. E' stata presentata come basata sul personaggio dell'infermiera Mildred Ratched, antagonista nel romanzo e nel film "Qualcuno volò sul nido del cuculo". Una sorta di prequel in cui vengono narrati i precedenti del personaggio. Ok, una sparata bella grossa, volta a far chiedere "Ma siamo seri?" e a far dare un'occhiata alla serie anche solo per curiosità. Qualcuno, e a ragione, ha osservato che il personaggio di Mildred Ratched (quella del film e del romanzo di Ken Kesey) non ha bisogno di un background noir. La sua funzione è quella di rappresentare un'istituzione ottusa e glaciale, malvagia e dannosa in quanto espressione di un atteggiamento medico e culturale frutto del suo tempo e di un determinato contesto sociale. Trasformarla in un personaggio da crime drama manda fuori strada i presupposti narrativi. Tutto vero. Ma il punto è: era necessario attribuire quelle generalità e quella destinazione finale al personaggio della serie Netflix? Intendo dire una necessità che non fosse semplicemente quella di far discutere echeggiando il titolo di un classico. Quello che emerge dai primi episodi (senza entrare in dettagli spoilerosi) è la storia di un complotto criminale, e il ritratto di una donna manipolatrice e pronta a tutto che persegue un obiettivo ben preciso. La conduzione e le atmosfere della serie sembrano fare deliberatamente il verso ai film neri degli anni quaranta, da certe dinamiche tra i personaggi all'evidentissima scelta delle musiche. La stessa Sarah Paulson, che figura tra i produttori, recita in un modo che la fa apparire come un ibrido tra Bette Davis e Barbara Stanwick. Una dark lady hollywoodiana in un contesto estetico contemporaneo. Tutto questo mixato insieme produce un risultato dal gusto confuso. Non si capisce dove finisce il thriller che si prende sul serio e dove inizia l'intento parodistico. Ma rimane la sensazione posticcia e forzata di quell'accostamento iniziale, presente nei titoli di apertura. Intendiamoci, magari come racconto nero indipendente potrebbe anche andar bene. Ma abbiamo davvero bisogno di dover ricorrere a brand celeberrimi per promuovere nuovi prodotti commerciali? A pensarci bene, è anche inutile chiederselo. Esiste una divisione marketing, e le cose che già si conoscono vendono meglio di qualcosa che si presenta con un nome mai sentito.

sabato 29 agosto 2020

Les Revenants


Il fotogramma nell'immagine non appartiene a "Curon", ma a "Les Revenants", e il campanile che emerge dall'acqua non è al centro della trama come nella serie italiana.

"Les Revenants", serie francese la cui prima stagione è uscita nel 2012, è uno strano caso di cult di nicchia. Amato praticamente da tutti quelli che lo hanno visto, discusso, interpretato, ma rimasto avvolto nel silenzio del pubblico generalista. Per intendersi, senza arrivare a suscitare il clamore mediatico di altre, successive, serie europee, come "Dark". Eppure "Les Revenants", con la sua trama misteriosa, la sua narrazione corale articolata su diversi piani temporali, i suoi segreti e l'atmosfera esoterica, è una delle prime serie TV che hanno fatto tesoro della ricetta presentata trionfalmente da "Lost". E con esiti artistici notevoli, che vanno da una fotografia spettacolare, alle performance di attori carismatici, alle inquietanti e bellissime musiche originali della band post-rock scozzese Mogwai. Due sole stagioni di otto episodi ciascuna. Un incipit che fa gelare il sangue per quanto è perfetto e sinistro. Una piccola folla di personaggi memorabili e grande suggestione. Prendendo spunto dal film omonimo di Robin Campillo uscito nel 2004, "Les Revenants" narra le vicende di un piccolo paese tra le montagne della Francia in cui d'un tratto e senza preavviso i morti cominciano a tornare.

Non si tratta di zombi antropofaghi come in "The Walking Dead", ma di veri e propri risorti, restituiti alla vita integri e immemori di cosa gli è successo. Naturalmente, il misterioso fenomeno non può restare senza conseguenze, e le reazioni di familiari e amici saranno le più disparate e imprevedibili. Ma l'inatteso ritorno dei cari estinti sembra non essere l'unico fenomeno inquietante. L'acqua della vicina diga ha strani movimenti, gli animali hanno comportamenti inconsueti, e i vivi lasciano trapelare parecchi segreti sepolti. Per una volta, la televisione batte il cinema, e il film di Campillo fornisce il la per una saga allegorica ed enigmatica sulla gestione del lutto, la capacità di fare i conti con il passato, la forza di reinventarsi e andare avanti.


"Les Revenants", un grosso successo in patria, ha ispirato serie statunitensi di modesto valore e scarso riscontro. Come "Resurrection" (che narra una storia simile per lo spunto di partenza, ma in realtà molto diversa per sviluppo e atmosfere) e il remake "The Returned", entrambe cancellate in fretta. Qualcuno (è prassi) si è affrettato a etichettare "Les Revenants" come una sorta di nuovo "Twin Peaks". Ma la serie, scritta da Fabrice Gobert, ricorda di più dinamiche lostiane, in cui l'attenzione dello spettatore e la sua capacità di cogliere le ellissi narrative è sfidata sin dall'inizio.
Alla prima stagione è seguito un lungo intervallo (come spesso accade con le produzioni europee) durato tre anni (tre anni!). Cosa che ha reso necessario rivedere l'intera prima stagione per mettere insieme tutti i pezzi (nella narrazione sono trascorsi solo sei mesi). Ma l'attesa è ripagata da una qualità che non delude le aspettative e regala nuovi colpi al cuore. Due stagioni che portano a compimento una narrazione non convenzionale, dove molte risposte sono nei simboli e nella nostra capacità di interpretarli. L'onnipresente acqua, fonte della vita e a volte dispensatrice di morte. Le ferite del corpo e dell'anima, le seconde, inattese possibilità. Un mosaico vasto e complesso come l'umanità stessa, che davanti a un fenomeno come la morte (ma anche davanti alla vita) reagisce in molti modi eterogenei.

"Les Revenants", come già successo con "Buffy", realizza il potenziale di un'opera cinematografica non del tutto compiuta, e sfrutta il linguaggio seriale per produrre qualcosa di nuovo e di grande impatto. Se "Lost" è diventato un feticcio e un modello cui guardare, possiamo dire che la televisione di qualità (in questo caso europea) è andata avanti, e riesce a riprodurre quelle vibrazioni fatte di attesa, sorpresa, desiderio di partecipare al racconto con le proprie fantasie, fino alla fine di un viaggio meraviglioso.
La musica dei Mogwai: https://youtu.be/BYSdLYmfQG4

sabato 4 luglio 2020

Dark... un cugino per Lost

Anche "Dark" è giunto a termine. Tre stagioni, di cui le ultime due sono arrivate a discreta distanza dalla prima, causando una certa difficoltà a riprendere il bandolo della matassa, e rendendo necessario un tempestivo rewatch. Peraltro non spiacevole, considerata la miriade di avvenimenti, intrecci e personaggi che questa serie tedesca porta in scena e che si giovano di una seconda visione. Inoltre, rivedere "Dark" dal principio accende oggi una sensazione di tenerezza, ripensando al modo in cui la serie era stata salutata al suo primo apparire su Netflix. A suo tempo, qualcuno la definì la versione tedesca di "Stranger Things". E la vicinanza con l'uscita del primo capitolo di "IT" al cinema, fece persino percepire l'impermeabile giallo di uno dei protagonisti (dello stesso colore di quello indossato dal bambino nel film di Muschietti) come una sorta di inesistente citazione (guai a vestire gli stessi colori di qualcuno più popolare di te nel momento in cui debutti in società). Oggi, a serie conclusa, possiamo dire con certezza che se vogliamo riconoscere in "Dark" una parentela culturale con una fiction precedente, quella è sicuramente con il celebrato "Lost". E non per l'elemento fantastico in comune tra i due show, ma per una comune estetica narrativa. Volontariamente o casualmente (ma non ci credo più di tanto), lo show ideato da Baran Bo Odan è fortemente debitore alla serie di culto statunitense. E - titolo di merito - riesce a riprodurre certe atmosfere e dinamiche sviluppando una proprio personalità, tra l'altro tutta europea. Piaccia o meno, "Dark" è l'esperimento riuscito di un nuovo, intricato, mosaico narrativo che produce una propria mitologia. Cosa che caratterizzava la storica serie di J. J. Abrahms e Damon Lindelof. "Dark", insomma, non si identifica soltanto con il suo spunto fantascientifico, ma con la sua selva di personaggi e la frammentazione del racconto che conferisce loro profondità, episodio dopo episodio, dettaglio dopo dettaglio, secondo il medesimo meccanismo di caos e progressiva ricostruzione che riguardava le vicende dei naufraghi sull'isola e del mistero che li legava. In parole povere, sia pure in modo più lineare e compatto (ed è paradossale da dire) rispetto alla lunghezza fluviale di "Lost", "Dark" riesce a far rivivere le emozioni di un grande arazzo che si completa poco per volta, alimentandosi di aspettative, teorie, attesa. E se di citazioni vogliamo parlare (perché ci sono, e sono tante), notiamo sotto finale quella musicale dedicata a "L'esercito delle 12 scimmie", film di Terry Gilliam che ha in comune con la serie tedesca lo spunto centrale del racconto. Come "Lost", anche il finale di "Dark" potrebbe scontentare qualcuno. Così come non tutti i numerosi enigmi, a serie conclusa, risultano perfettamente sciolti (ma anche qui, come in "Lost", molto è affidato all'attenzione dello spettatore, rifuggendo dagli spiegoni). In definitiva, dunque, le due serie, statunitense e tedesca, hanno in comune certe scelte di scrittura (direi di qualità) e la struttura labirintica, fatta di rimandi e pezzi da incastrare che coinvolgono lo spettatore in un gioco in cui non può restare passivo, pena il caos (e un mal di testa mostruoso). "Dark" non sarà perfetto. E ovviamente gli manca l'originalità che "Lost" presentava. Ma rispetto a tanti epigoni si avvicina davvero tanto ai risultati del prototipo. Ed è per questo che probabilmente sarà ricordato.

lunedì 22 giugno 2020

Curon: più ombre che luci

Non voglio accanirmi su "Curon", la serie originale Netflix italiana che in queste settimane sta facendo discutere, tra detrazioni, discreti consensi e motivatissime perplessità. La prima cosa (positiva) che sento di poter dire è che, a differenza dell'altrettanto nostrano "Luna Nera" (respingente sin dal primissimo episodio), questo mistery soprannaturale altoatesino qualche carta da giocare ce l'ha. E tra queste, per quanto mi riguarda, è c'è quella di avermi indotto a guardare la serie fino alla fine. Nonostante i dubbi che, andando avanti nella visione, aumentavano. Potremmo dire che è un po' un peccato. Che "Curon" presenta un'intrigante idea narrativa, uno scenario suggestivo, e persino qualche intuizione affascinante. Ma... spreca una grossa fetta del suo potenziale di partenza. Senza farsi detestare, per quanto mi riguarda, ma neppure amare veramente. In modo paradossale, vorrei dire, che questa serie Netflix non riesce a essere quello che avrebbe potuto o voluto essere. E che forse da qualche parte, in un'altra linea temporale, in un'altra dimensione, qualcuno avrebbe potuto farne un racconto del mistero davvero efficace. E chissà, magari sta sbraitando per farsi ascoltare e prendere il posto che gli spetta. Il problema principale non è neppure la performance del cast. Il discorso sulla qualità della recitazione della fiction italiana sarebbe lungo, ed è in buona parte ormai scontato, come una condanna passata in giudicato molti anni fa. Un trend che riguarda quella parlata pseudo "naturale" che molti scambiano per recitazione "teatrale" (come se di modo di recitare in teatro ce ne fosse soltanto uno). Quelle dinamiche di regia rese note da "Boris", vera serie di culto che satireggia le produzioni televisive italiane e ne denuncia tutte le storture. La recitazione "buttata lì", spesso per espressa richiesta del regista, dove sull'altare di una presunta naturalezza si sacrifica l'intelligibilità del copione. Ed è un peccato, perché tra i giovanissimi protagonisti di "Curon" ci sono diverse promesse, alcuni davvero intensi, espressivi e carismatici, ma non sempre in grado di esprimersi in modo comprensibile. Questo è senz'altro un male, ed è comune a una deriva tutta italiana che riguarda (ormai con poche eccezioni) le moderne fiction e anche una parte del nostro cinema. Ma come dicevo, non è la recitazione il vero problema di "Curon", che su questo fronte si difende tutto sommato discretamente rispetto ad altre produzioni ("Luna Nera" su tutte). Il punto nevralgico è... la scrittura. Un mistero che a tratti lievita e subito dopo si affloscia, appiattito da spiegoni non necessari o da scelte di regia eccessivamente chiarificatrici laddove avrebbe giovato una maggiore ambiguità. Troppe contraddizioni nelle condotte di più personaggi (si veda il forzatissimo twist che innesca il finale di stagione), e alcune caratterizzazioni eccessivamente stereotipate, suscitano parecchie perplessità. La stereotipia appesantisce anche alcuni dialoghi, rendendo il progredire del racconto prevedibile in più di un atto. L'uso scientifico della parola cazzo (Gabriel Garcia Marquez, ne "L'autunno del patriarca", cazzo, lo usò al posto della virgola con intenti sperimentali), qui usata palesemente per conferire (una cazzo di) "verità" al parlato (cazzo!), ma talmente abusata (cazzo!) da risultare un manierismo (ecchecazzo!) e quindi fallire (cazzo!) proprio nell'intento (cazzo!) che si proponeva (non diciamo cazzate!). Direi quindi che il punto più debole di "Curon" è proprio il suo copione, lo sviluppo di una storia che aveva un potenziale interessante, e una debolissima gestione dei tempi narrativi. Tutto sorvolando sul forte sospetto che chi ha scritto la sceneggiatura, molto probabilmente, non conosce affatto i gatti, non ha mai fumato una canna, e non ha mai avuto a che fare con un vero alcolista in vita sua. Tutto questo senza astio. Anzi, forse nutrendo anche la riserva di provare a vedere una possibile seconda stagione. Perché il potenziale di "Curon" resiste nonostante tutti questi difetti, e dal momento che è rimasto in buona parte inespresso (alludendo involontariamente ai temi stessi della serie), permane un notevole margine di miglioramento che gli autori dovrebbero prendere in considerazione. Gli auguro di riuscire ad aggiustare il tiro e fare di meglio la prossima volta, senza abbandonare queste promesse (comunque intriganti) sotto la superficie ghiacciata del lago di Curon.

giovedì 4 giugno 2020

In the Flesh



"In the Flesh" è una serie TV inglese trasmessa dalla BBC per due sole stagioni a partire dal 2013. Dopo un'apocalisse zombi che ha mietuto numerosissime vittime, l'umanità ha trovato il modo di arginare il problema e ricominciare. La vera conquista dovrebbe essere il fatto che gli scienziati hanno trovato una cura per i morti viventi. Un cocktail di farmaci che somministrati in modo regolare riattivano il loro cervello, ripristinando la loro personalità, i ricordi, le emozioni, e sopprimono la frenesia di nutrirsi della carne dei vivi. I morti restano morti, ma psicologicamente tornano del tutto umani, e possono essere reintegrati nella società e nelle loro famiglie. Almeno, in teoria. Considerato che i non morti curati conservano i ricordi di quando vagavano uccidendo e sbranando le persone vive, e che molti tra i viventi, alcuni dei quali si sono distinti nella lotta alla piaga zombi, vedono in loro soltanto pericolose mostruosità da estirpare, e non reduci di una terribile malattia, ora chiamata Sindrome del Decesso Parziale. Questo non può che suscitare un clima di tensione, di sospetto, paura e odio nei confronti dei nuovi diversi. E Kieren, giovane che ha commesso suicidio prima dell'epidemia, risorgendo come non morto antropofago, e oggi restituito alle cure della sua amorevole famiglia, dovrà affrontare molti demoni, interiori ed esterni. In un quadro sociale molto complesso, perché dove ci sono mutanti e discriminazione, esiste sempre anche un Magneto... E' evidente quanto questa serie inglese (cancellata dopo due stagioni e rimasta inedita nel nostro paese) abbia ispirato "The Cured", film di David Freyne del 2017, che ruba letteralmente tutti gli spunti fondamentali di "In the Flesh" (sebbene nel film di Freyne non si parli di zombi, ma piuttosto di infetti che manifestano la stessa violenza cannibale). Il punto cruciale, però, è che la serie TV creata da Dominic Mitchell centra ogni bersaglio là dove "The Cured" si limita ad accennare, e si arena afflosciandosi su se stesso. Già l'episodio pilota di "In the Flesh" (sì come il brano dei Pink Floyd) dice tutto in un'ora scarsa di minutaggio, presentando metafore sì già viste, ma rese con una forza emotiva che travolge. In "In the Flesh" c'è dramma, thriller, e persino momenti di reale commozione. La necessità dei non morti recuperati di vestire un make up che camuffi il loro aspetto cadaverico, e delle lenti a contatto che nascondano i loro occhi spettrali, è solo il punto di partenza in una parabola sulle diversità (al plurale, attenzione...) e le contraddizioni di un mondo che si sforza di essere giusto, ma che non riesce a esserlo davanti a un cambiamento costante che fa piazza pulita di regole, etica, e aspettative di vita. I motivi (non subito svelati) che hanno condotto Kieren al suicidio hanno una forte importanza, così come la rappresentazione di maschere sociali che non hanno niente da invidiare al fondotinta degli zombi recuperati. E forse sono anche peggio. Ancora una volta la soppressione del cervello diventa simbolo. Simbolo di sottomissione e di azzeramento del dissenso e delle individualità. E per una volta, la seconda vita dei morti viventi può essere intesa come una possibilità, dolorosa, difficile, ma anche preziosa, di provare a vivere come un tempo non potevamo. Si potrebbe dire che già "True Blood" (serie fin troppo bistrattata oltre tutti i suoi oggettivi difetti) utilizzava i vampiri come simbolo di diversità. Ma "In the Flesh" ha qualcosa di diverso, e di molto british. Si prende maledettamente sul serio, e picchia duro rinunciando all'etichetta di horror per sconfinare in un genere difficile da catalogare. Un vero peccato che da noi sia rimasta del tutto inedita mentre si macinano e si traducono quattro stagioni di "13".

mercoledì 8 gennaio 2020

Dracula di Moffat e Gatiss... è davvero da buttare?

Non si può negare che il "Dracula" realizzato da Steven Moffat e Mark Gatiss per Netflix abbia dei problemi. Li ha. E' un prodotto molto imperfetto. E per parlarne si deve partire da questo dato di fatto. Tuttavia, non mi trovo d'accordo con i pareri che lo bocciano in modo totale, in qualche caso con ferocia, e senza nessuna possibilità di appello. Si è usata molto la parola "trash", vocabolo entrato nell'uso comune senza restrizioni di sorta, e spesso applicato a qualunque cosa si giudichi semplicemente brutta, ma chissà perché nobilitandola con il ricorso a un vocabolo anglofono che a volte è stato usato anche per dire "spazzatura sì... ma nella quale ci piace rotolarci come porcelli". Credo (e il caso di questo Dracula di Moffat e Gatiss non è un'eccezione) che la parola "trash" sia spesso confusa concettualmente con la parola "kitsch". Anche kitsch, parola di origine tedesca dall'etimo incerto, presenta ambiguità. E' riferita generalmente al cattivo gusto, ma anche a determinate produzioni artistiche che fanno dell'eccesso la propria cifra stilistica. In qualche caso, kitsch diventa anche sinonimo di "sopra le righe" e di gusto per l'esagerazione. Tutti ingredienti che a seconda del contesto possono essere valutati negativamente o positivamente, a seconda anche dell'orientamento culturale e del gusto.

Tornando al Dracula di Moffat e Gatiss... E' vero. La scrittura è diseguale, e la miniserie in tre parti traccia una parabola discendente in cui la qualità (ma sarebbe meglio dire l'ispirazione degli autori) va scemando, fino a una scelta estetica e narrativa che non mantiene le promesse e va incontro alla conclusione in un modo che avrebbe potuto fare a meno dello scenario scelto, rendendolo in questo modo forzato e praticamente inutile.
Questo non esclude che la miniserie possa essere fruita con divertimento. Amo troppo il romanzo di Bram Stoker e ho visto troppe riletture del suo personaggio centrale per essere spietato nei confronti di questa nuova versione, che in fondo qualche cartuccia da sparare dimostra di averla. Di Dracula abbiamo visto rivisitazioni in chiavi molto disparate, serie, semiserie, decisamente parodistiche. La lettura grottesca, ma anche elegantissima di Roman Polansky in "Per favore non mordermi sul collo". Quella romantica e psichedelica di John Badham con Frank Langella nel ruolo del conte, ispirata a un dramma teatrale, e che ricalca (ma solo in parte) la versione storica di Todd Browning in cui Bela Lugosi incarnava Dracula. Il Dracula amante tormentato interpretato da Jack Palance ne "Il demone nero", e il Dracula villain fortissimo e belluino di Christopher Lee, un conte vampiro che abbiamo visto muovere anche in ambientazioni metropolitane moderne (con risultati non memorabili, è il caso di dirlo). Il Dracula antologico, polimorfo ed estetizzante di Coppola. Abbiamo avuto anche la miniserie italo-tedesca "Il bacio di Dracula" in cui Peter Bergen impersonava una versione del conte vampiro ambigua e volta alla seduzione omosessuale. Insomma, Dracula è un canovaccio, un codice palinsesto sul quale si è scritto e rappresentato di tutto. La "ditta" Gatiss e Moffat, è a sua volta un brand che ha fatto della revisione e della trasgressione il suo marchio di fabbrica. Prendere classici della letteratura e farne delle fantasie moderne (non necessariamente per ambientazione), mantenendo soltanto alcuni punti fermi iconici per poi rimodellare il tutto secondo una concezione pop, irrorata da abbondante humor nero britannico. Non è una ricetta perfetta. Anzi, non è neppure una ricetta, visto che gli approcci ai vari classici sono anche molto diversi tra loro. Ma il gioco, anche solo il tentativo, può essere divertente. Qualcuno ricorderà "Jekill", miniserie firmata anni fa dal solo Steven Moffat, in cui si rileggeva in chiave inedita il classico di Robert Louis Stevenson. Ebbene: "Jekill" era indubbiamente molto più riuscito di questo "Dracula". Ma la festa a cui siamo invitati è la stessa. Una fantasia, anzi una variazione sul tema, che prende direzioni impreviste. Con "Dracula" l'esperimento riesce a metà. E' il caso di dirlo. Il primo episodio introduce numerose varianti, ma seguendo di base gli spunti del romanzo di Stoker. Il secondo imbocca praticamente la stessa via, ma aumentando le trasgressioni e le rivisitazioni, e potrebbe in buona parte funzionare. Ma già nel finale qualcosa si inceppa, e ci lascia intuire che il progetto, interessante, sta per arenarsi. L'ultima, controversa puntata (la più debole delle tre, inutile girarci intorno) fallisce il climax del racconto, e svela le sue ultime carte in un contesto forzato. L'introduzione del personaggio di Lucy appare più che altro una citazione voluta, ma anche una lungaggine a quel punto evitabile. Certe scelte dei personaggi, una in particolare, risultano immotivate e inspiegabili. Il cambio di scenario (non un peccato in sé) azzoppa il gioco fino a quel punto abbastanza divertente, e risulta voluto, quasi stucchevole. Evitabile. Ed è un peccato, perché la risoluzione finale, il disvelamento di questa ennesima interpretazione del mito di Dracula e della sua essenza era interessante. Se condotto con il giusto climax avrebbe potuto spaccare, ma la ricerca dell'eccesso e del cambiamento continuo di registro penalizza tutto. Una conduzione più aderente agli atti del romanzo di Stoker, forse, avrebbe giovato di più. La sterzata invece porta la miniserie a sbattere, e infrange quanto c'era di buono e divertente.


Questo non significa che "Dracula" di Moffat e Gatiss sia un prodotto da cestinare. Ho letto critiche che definiscono il protagonista, l'attore danese Claes Bang privo del carisma necessario e lontano dal ruolo che gli è stato assegnato. Non sono d'accordo neppure su questo. Bang fa un lavoro del tutto diligente e in sintonia con il clima in cui il protagonista è stato inserito. Un Dracula aristocratico (con sprazzi della bestialità che caratterizzava Christopher Lee) che lascia trasparire gli atteggiamenti di un moderno serial killer in pieno delirio di onnipotenza. L'elemento del fattore "Zelig" legato al consumo del sangue è interessante. Van Helsing in versione suora atea e cinica, inoltre, l'ho trovato uno dei punti di maggiore simpatia della miniserie. Non solo un cambio di genere del personaggio, ma una variante complessa, che introduce anche un inedito rapporto tra i due antagonisti.
In definitiva... sì e no. Luci e ombre. Dolce e amaro. Non farei cadere la mannaia su questa miniserie, incompiuta, non del tutto riuscita. Senza promuoverla a must, ma neppure condannandola alla discarica.