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lunedì 12 novembre 2018

The Heap: dalle radici...



C'è poco da dire. Andando alla ricerca di archetipi fumettistici, non si smette mai di imparare.
Che nulla si crea e nulla si distrugge, ma che tutto ha origine da qualcos'altro, ormai dovremmo saperlo. E anche in uno studio recente ho definito L'Uomo Cosa marvelliano e lo Swamp Thing della DC Comics, nati lo stesso anno, come il paradigma di quelle creazioni gemelle che negli anni hanno caratterizzate i due colossi editoriali concorrenti. Se è difficile dire quale delle due case abbia “copiato” l'altra, è interessante puntualizzare che entrambi i personaggi si rifacevano a una oggi dimenticata creazione della golden age del fumetto, edita negli anni 40 dalla Hillman Periodicals. Un personaggio chiamato The Heap (il “mucchio” o se vogliamo il “pagliaio”), che a tutti gli effetti è l'antenato sia di Swampy che della “Cosa Umana”. Precedente di decenni anche alla breve storia di House of Secrets che avrebbe fatto da prologo al mostro della palude creato da Len Wein e Bernie Wrightson per la DC.

The Heap, creato da Harry Stein e Mort Leav sulle pagine di “Air Fighter Comics”, è stato dunque il primo punto di riferimento per tutte le cose paludose dei fumetti che sarebbero arrivati. E a sua volta ha avuto più incarnazioni. Anche lui, come Alec Holland e Ted Sallis era un'essere umano prima di mutare in un mucchio di fango e alghe. Era un soldato della Grande Guerra, il barone Eric Von Emmelman, asso dell'aviazione tedesca, abbattuto e caduto con il suo aereo in una palude, ma tenuto in vita per intervento della dea Cerere, che ne conserva l'essenza mescolata alle sostanze primordiali della madre terra. The Heap è una creatura fortissima, ma sostanzialmente benevola, che vaga per il mondo, costantemente fraintesa, aiutando chi può. Il suo aspetto fangoso e vegetale è quello di un pagliaio verde ambulante, dalla sagome rozzamente antropomorfa. Da notare la radice che gli attraversa la faccia come un lungo naso. Dettaglio che sarà ereditato e perfezionato graficamente dal successivo Uomo Cosa della Marvel.

The Heap entra in seguito nel cast della serie Airboy e vi rimane fino alla chiusura della serie. Negli anni 80, la Eclipse Comics acquista i diritti del personaggio (Swamp Thing e Man Thing sono nati nel 1974) e lo ricicla nella serie The New Wave. Altre sporadiche apparizioni non ufficiali del personaggio, con origini e identità modificate, sono avvenute nel corso degli anni su riviste della Skywald Pubblications (in quel revival c'entrava lo zampino dello sceneggiatore Roy Thomas, che in Marvel aveva contribuito a creare Man Thing). Ripreso dalla Image Comics per la serie di Spawn, The Heap diventa una delle creature metafisiche combattute dalla progenie infernale, un barbone chiamato Eddie che entra in contatto con la materia oscura che costituisce il corpo di Spawn, fondendosi con la spazzatura e diventando un nuovo Heap. Quest'ultimo, però, sfoggia poteri mistici simili a quelli di Swamp Thing, e cioè la connessione con un universo verde, legato alla vita vegetale del pianeta.



Insomma, sia Man Thing (che ne ha ereditato il naso) che Swamp Thing sono nipoti di The Heap. Personaggio che li ha ispirati per poi citare i “nipoti” molti anni dopo in successive apparizioni.
L'industria (e i sogni) del fumetto è tanto vasta quanto piena di parentele più o meno evidenti. Ed è scoprendo il passato (come dovrebbe essere con la nostra Storia) che potremo guardare al presente con maggiore comprensione. E divertimento, perché no?













sabato 26 agosto 2017

Fumetti in soffitta: Il Maestro, di Mino Milani e Aldo Di Gennaro


Ecco una grossa lacuna nel mio lavoro (video) di riassumere la storia dei personaggi magici dei fumetti. Beh, andavo per linee di massima e il materiale era già tanto. Eppure oggi mi chiedo perché ho mancato di includere "Il Maestro", fumetto di Mino Milani e Aldo Di Gennaro che esordì sullo storico "Corriere dei Ragazzi" nel 1974 (anno in cui lo lessi anch'io... ebbene sì, ero già in circolazione anche se piccolino). "Il Maestro" come fumetto aveva tutte le caratteristiche delle serie del suo tempo che venivano raccolte nel popolare contenitore. E cioè poche pagine, trame concentrate ricche di didascalie, e una storyline semplice che si dipanava come filo conduttore, generando tensione e attesa da un episodio (più o meno conclusivo) all'altro. Il Maestro era un occultista di cui niente era dato sapere. La sua origine non fu mai rivelata, e probabilmente neppure l'effettiva portata dei suoi poteri, che spaziavano in tutto lo scibile della tradizione magica. Una magia potente, ma rappresentata con taglio minimalista, silenzioso, senza bagliori spettacolari o fenomeni appariscenti. Cosa che rendeva il Maestro e i suoi sortilegi forse ancora più inquietante. La trama principale era il duello con Jaga, ex assistente di un egittologo che aveva scoperto un misterioso manufatto chiamato con il nome esotico e un po' buffo di Scarabeo di Ara Tutna. 

Lo "scarabeo", era in realtà un dispositivo di origine aliena, trovato nell'antichità sul corpo di un visitatore extraterrestre morente, e capace di materializzare i pensieri e desideri di chi lo possedeva. Ricordo con emozione l'episodio in cui Jaga ricattava il mondo facendo cadere una pioggia torrenziale sul deserto egiziano, minacciando di sommergerlo. Le vignette d'apertura di quella storia in cui improvvisamente sulla sabbia rovente cadeva una goccia d'acqua. Poi un'altra, un'altra ancora e quindi iniziava il diluvio.
Difficile confrontarsi con qualcuno che può rendere reali le proprie fantasie (spunto che Milani e Di Gennaro suggerivano in modo abbastanza pauroso). Ma il Maestro era l'eroe giusto per questa serie di avventure brevi, in cui la risoluzione di ogni minaccia portava sempre più vicini all'incontro effettivo (e quindi allo scontro finale) tra il protagonista e la malefica Jaga, che per la maggior parte del tempo si sfidavano da lontano, per mezzo di telepatia, psicometria e anche l'aiuto (per Jaga) di ordinari sicari e (per il Maestro) della sua gatta mistica Nardy e della poliziotta Velda Morris. Per il tempo, l'atmosfera era tutto. Levitare a pochi centimetri da terra per superare una trappola elettrica era un'impresa sufficiente a suggestionare noi lettori dell'epoca. Così come l'ipnosi (di quelle che basta che incroci lo sguardo e sei inguaiato) e la capacità di rintracciare cose e persone grazie a percezioni paranormali. Insomma, "Il Maestro" è una lacuna nel mio lavoro sui maghi dei fumetti. Soprattutto considerando quanto lo amai da ragazzo. 

Oggi, magari, verrebbe considerato troppo poco spettacolare. Ma a suo tempo, fu proprio quella magia semplice e minimale (quasi credibile se confrontata agli incantesimi del Doctor Strange) che mi conquistò. Va da sé che oggi sente tutto il peso dei suoi anni. Ma il lavoro di Milani e Di Gennaro (cui nel tempo lasciarono un'impronta anche altri disegnatori, tra cui un giovane Giancarlo Alessandrini) è semplicemente... storia. E conserva il fascino di un immaginario che fu, un modo di raccontare, prendere per mano i giovanissimi lettori e portarli in un mondo fantastico che riusciva a sembrare quotidiano.
Insomma, il Maestro continua a essere ancora oggi una ficata.
In anni recenti, Re Noir - Nona Arte ne ha ristampato il ciclo integrale in volume. Varrebbe la pena recuperarlo, sebbene i dialoghi possano apparire oggi alquanto polverosi. Un esempio? Una frase mormorata dal Maestro a Velda che mi rimase stampata nella memoria:
«Siete adorabile, mia cara. E forse un giorno vi chiederò di amarmi.»
Nella vignetta successiva, lei abbassava gli occhi sorridendo e "pensava": «GULP!»
Il mondo cambia. Ma senza la storia alle nostre spalle non andiamo da nessuna parte. E' questa la magia.






giovedì 22 settembre 2016

Fumetti in soffitta: «Jesus! Koko... ma sei un Coyote!»


Correva il 1976, e chi era adolescente in quel periodo (come il sottoscritto) attraversava una trasformazione che andava oltre la pubertà. Stiamo parlando di una trasformazione “fumettistica”, che metteva in atto una metamorfosi del gusto dell'intrattenimento (anche se si rivelò essere una transizione solo temporanea), facendo “evolvere” i bambocci affascinati dai supereroi (erano i primi, floridissimi anni della Marvel in Italia grazie all'editoriale Corno) in appassionati di più tradizionali (si fa per dire) avventure western. Insomma, dalla Corno si passava alla Bonelli (che ancora si chiamava editoriale Cepim). Il personaggio di Zagor risultava un ottimo spartiacque. Offriva praticamente un effetto metadone, in quanto era un eroe che agiva nel west, interagendo con pellerrossa e pistoleri, ma era di fatto un supereroe. Un ibrido di Tarzan e Phantom (ma noi lo conoscevamo ancora come “L'Uomo Mascherato”) cui era stata shakerata altra roba. Aveva persino un costume, e come tutti gli eroi super girava così conciato per le strade senza che nessuno gli fischiasse dietro (anche perché se no erano cazzottoni alla Bud Spencer... che però suonavano in modo imbarazzante, con l'onomatopea SMACK). Poi arrivava l'immarcescibile Tex, più canonico (e troppo serio già allora). La Collana Rodeo, albo antologico che conteneva una vera cornucopia di serie: Storia del West, La Pattuglia dei Bufali, I Tre Bill. I recuperi d'annata per la stessa casa editrice, come Un ragazzo nel Far West (una delle prime opere del giovane Bonelli-Nolitta), e il Piccolo Ranger, il Comandante Mark... Mister No era arrivato da pochissimo, non era un western e l'ambientazione amazzonica faceva ancora strano. Non parliamo dei personaggi con l'allitterazione nel nome (Martin Mystere, Dylan Dog, Nathan Never) che erano ancora lontanissimi.

Be', noi ragazzetti di quel periodo eravamo affamati di west e di avventura tradizionale. Per qualche motivo (probabilmente legato agli ormoni) le calzamaglie dei supereroi ci apparivano troppo infantili, e il nostro immaginario si rifugiava in qualcosa di (apparentemente) serio e cazzuto come le storie di frontiera dove fumavano le canne delle colt. Ancora meglio, però, quando in queste sconfinavano elementi neogotici e fantastici (si veda la saga di Zagor contro il vampiro o le escursioni di Tex nella stregonerie con Mefisto e tutta la sua progenie).

A parte i Bonelli (che, ricordiamo, non si chiamavano così. Dal momento che la casa editrice cambiò nome più volte. Daim, Cepim... ma tanto eravamo piccoli e all'epoca nessuno ci faceva caso), iniziavano a sbucare nelle edicole tutta una serie di prodotti epigoni di quelli che ai tempi erano considerati pezzi da novanta. Titoli che oggi chiamiamo (pensa un po') “bonellidi”. Giusto per dire che il formato (più del contenuto) della casa editrice di Tex Willer aveva proprio fatto scuola nell'industria di quella che all'epoca, nel nostro paese, non era contata neppure nona tra le arti. Alcuni tra questi furono pubblicati dal gruppo editoriale Geis, dove aveva le mani in pasta Renzo Barbieri, il signore che ha legato il suo nome alla lunga stagione del fumetto erotico italiano (ops! Ai tempi, noi sbarbati li chiamavano “giornaletti di donne nude”), ma che ha dato molto anche alle avventure di frontiera. Tra questi, un ricordo molto forte lo ha sicuramente lasciato il Coyote, un oscuro personaggio western, disegnato da Pietro Gamba. Oscuro perché (per i tempi, eh!) le sue avventure erano toste assai e politicamente scorrettissime. Mettiamola così. Il protagonista, chiamato con il nome di battaglia (preso in prestito da un collega di oltreoceano) di Coyote e una maschera ricavata da una pelle di lupo (come il marvelliano Red Wolf prima di lui) era stato scotennato dagli indiani ed era sopravvissuto. 

Come? Non aveva importanza. La sua leggenda raccontava che durante un assalto di pellerrossa lui si era finto morto, e aveva continuato a farlo anche mentre gli strappavano il cuoio capelluto... come si diceva facesse il vero coyote (e io mi sono sempre chiesto chi si era preso la briga di scuoiare un canide selvatico per verificare se in quell'occasione si fingeva morto). Ad ogni modo... il signore ne esce vivo, ma calvo e affascinante come un giovane Yul Brinner nei Magnifici Sette (non deturpato come avrebbe dovuto essere, ma liscio e lucido come una palla di biliardo) e anche un tantino incazzato. Insomma, da quel momento i nativi americani (pardon, gli indiani, che ancora si chiamavano così) gli stanno sul culo (sai, gli hanno rovinato la pettinatura!) e quindi ha giurato che ne scotennerà almeno mille, perché tanto valeva il suo scalpo. Insomma, un folle maniaco. Tra l'altro pistolero imbattibile. Un serial killer di pellerrossa che casualmente si trova coinvolto anche in intrighi di fuorilegge che poco c'entrano con la sua maniacale vendetta. C'è anche una procace e tostissima donna bionda, imparentata con gente che lui ha fatto fuori, che lo odia e fa di tutto per ucciderlo. Insomma, dovrebbe essere la villain della storia, ma i due si sbaciucchiano e ne viene fuori un rapporto simile a quello tra Batman e Catwoman. Balordo, violento, e sotto molti aspetti (non sono il primo a dirlo) antesignano di antieroi psicopatici come The Punisher (ma il Punisher E' un personaggio western, in fondo! Vogliamo capirlo?!), la serie del Coyote durò una manciata di numeri (8 in tutto), ma rimasero impressi nella memoria dei bimbetti del tempo. Ragazzotti che cercavano di sfuggire alle spire dell'idea supereroistica, ma che ne erano in realtà completamente soggiogati.

Un'altra creatura della Geis che riprendeva il formato bonelliano e i temi di frontiera che fecero la fortuna della casa editrice milanese, fu il personaggio creato da Ennio e Vladimiro Missaglia (fratelli, sceneggiatore e disegnatore nell'ordine) chiamato Jesus. Sì, avete capito bene. In teoria, suppongo, che il nome andrebbe pronunciato alla spagnola e quindi Heeesùs... (che poi è un nome maschile di uso comune in Messico, solo che il personaggio era più biondo di Ursula Andress) o all'inglese Giiiiisus. Ma noi pischelli dei 70 lo chiamavamo semplicemente “Ièsus”. La caratteristica di questo avventuriero molto bravo con le pistole era un look che c'entrava con il vecchio west (Pirandello insegna) come Pilato nel Credo. Infatti portava una fluente capigliatura biondo oro sciolta sulle spalle, indossava un gilet a frange sul torso nudo, collane, bracciali e persino pantaloni a zampa di elefante (sic!). Insomma, era un freakettone che girava per il west, aveva un rapporto di vecchia amicizia con gli indiani Arrapaho (che ancora non avevano subito lo sputtanamento mediatica degli Squallor) e flirtava con una bella squaw chiamata Occhio d'Anitra (nome normalissimo per una donna nativa americana, ma che all'epoca a noi faceva un po' ridere). Questo Jesus (che in una successiva ristampa fu ribattezzato con un più laico Colt, forse per paura di un boicottaggio da parte dell'autorità cattolica non proprio incline a porgere l'altra guancia, o forse solo per una perdita della capacità di osare) iniziava la sua storia come una sorta di Conte di Montecristo di frontiera. Era stato condannato ingiustamente al carcere duro a seguito di un complotto, e una volta evaso inizia la sua regolare vendetta. Jesus era un western per certi versi canonico, per altri spiazzante dal punto di vista estetico, soprattutto per lo strampalato protagonista, che comunque aveva carisma da vendere. Anche la sua corsa durò poco. Oddio (e qui ci sta) volendo più di altri, visto che riuscì a superare la ventina di uscite. Un vero record per i suoi tempi. E il suo effimero ritorno negli anni 90 (un'apparizione molto più breve dell'edizione originale) fu sotto il più scontato dei nomi che un fumetto western potesse avere.

Che dire al riguardo? Un pistolero vestito come un hippy che si chiama Jesus? Be', erano gli anni settanta, in fondo, e si potevano fare cose oggi impensabili. Compreso vivere il kitsch come innovazione. Se nel film fotocopia (ma in realtà visivamente molto più trasgressivo) de L'Esorcista di William Friedkin, intitolato L'Anticristo (diretto da Alberto De Martino) veniva mostrata un'allucinazione della posseduta Carla Gravina che vede un santino raffigurante un Cristo che le mostra un'enorme erezione senza che la cosa scatenasse neanche la metà del finimondo innescato da L'ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese... i fumetti popolari godevano di una parallela, relativa libertà trash. Pellicole come Soldato Blu di Ralph Nelson erano vietate ai minori, e avevano per i più giovani la stessa aura maledetta di certi horror interdetti ai piccoli spettatori. Tempo per capire che i nativi americani erano un popolo vessato e violato dall'uomo bianco, ne sarebbe dovuto passare ancora parecchio. E il Coyote, con la sua zucca pelata ma fascinosa, poteva sventrare (e scotennare) i “musi rossi” come se fossero stati un mucchio di anonimi vaganti in The Walking Dead senza che la cosa suscitasse nel lettore nessun dubbio di natura etica, storica e politica. Eravamo ingenui, ma anche più disponibili al divertimento e alla meraviglia.

Nello stesso periodo, sempre dalle edizioni Geis, esce Koko (ebbene sì, faceva ridere anche allora. Provate oggi ad andare dall'edicolante e chiedere “E' uscito Koko?”). Stavolta non si trattava di un western, ma di un avventuroso esotico. Gli stilemi di casa Bonelli (che... uff... non si chiamava ancora così) la facevano anche qui da padroni. Stesso formato, stessa foliazione, stesso bianco e nero. La matrice, stavolta, era in parte zagoriana. Koko era ambientato nel continente nero, e il personaggio era una sorta di protettore del patrimonio ecologico (l'eroe era rigorosamente di razza bianca, eh!). Ai testi c'era Rubino Ventura (che si era fatto le ossa sui fumetti sporcaccioni accanto a Leone Frollo) e ai disegni nientemeno che Stelio Fenzo, vecchio leone del Vittorioso, collaboratore e continuatore di opere di Hugo Pratt e anche lui a bordo della corazzata di Renzo Barbieri come creatore assoluto di Jungla (e si parlava sempre di donnine e donnone nudine). Koko era un eroe ecologista con una patina alla Zagor, ma l'atteggiamento paternalistico nei confronti dei nativi del luogo era molto smorzato rispetto a quello del più celebre Spirito con la Scure. Inoltre non si fingeva una divinità. Era più buffo (anche fisicamente), più cialtrone, e aveva come compagna di avventure una buonissima leonessa di nome Ly, ovviamente ingelosita dalla fidanzatina esploratrice di turno. Un punto debole delle avventure, comunque godibili di Koko, era l'invereconda ripetitività di certi meccanismi narrativi. 

Per ben due episodi di seguito, il protagonista si sottrae a una trappola mortale che sotto alcuni aspetti anticipa quella di Indiana Jones ne I Predatori dell'Arca Perduta. La prima volta è una fossa piena di scolopendre velenose, la seconda è una caverna gremita proprio di aspidi. In entrambi i casi, l'espediente di fuga era lo stesso. Nel primo, si cosparge di una lozione contro le punture delle zanzare che puzza come cento diavoli (gliel'aveva donata la sua amorosa Vanessa... che evidentemente non ne aveva mai fatto uso) per allontanare le bestiacce. Nel secondo, scopre da solo una pozza di guano di pipistrello e ci si fa letteralmente il bagno (così noi pischelli imparammo che per non farsi mordere dai serpenti bisognava fare un bagno nella merda). Insomma, l'arma principale di Koko era la puzza (ditemi voi se un fumetto simile non è indimenticabile!). Koko durò circa una decina di albi (il decorso di queste influenze fumettistiche anni 70 era più o meno questo) e oggi è finito nel dimenticatoio come tutti gli altri, salvo che per il settore dei collezionisti.


Ricordare oggi questi piccoli passi editoriali, che hanno lasciato un'impronta nei ricordi di alcuni di noi, ci fa riflettere anche sul cinema di genere italiano, allora in auge e oggi completamente scomparso a beneficio di cinepanettoni e affini. Come al cinema, nel fumetto, esisteva una cultura bis, una tradizione dell'imitazione che in qualche modo poteva generare anche piccole gemme. Certo, erano altri tempi, e le esigenze erano diverse. E suonerà pure come una bestemmia per molti... Ma io ricordo con tanta nostalgia Jesus, tanto strampalato da essere ipnotico, molto più dell'inossidabile Tex.

domenica 28 agosto 2016

Fumetti in soffitta: Bonerest - La fine di un mondo



Come lacrime nella pioggia...”

Quando scrivo queste righe, ripensando a fumetti visti fugacemente e poi scomparsi, o prodotti nostrani che hanno avuto visibilità per una stagione e di cui poi non sento più parlare, mi viene una sorta di magone. L'industria del fumetto, negli ultimi anni, ha fatto passi da gigante in termini commerciali. Si vendono più fumetti alle fiere che nelle librerie specializzate, gli autori diventano qualcosa di simile a popolari rock star, e si comincia a parlare di un processo di imborghesimento della nona arte. Di perdita di vero potenziale creativo e di assimilazione (in perfetto stile Borg di Star Trek) alla cultura egemonica che appiattisce tutto.

Tra i fumetti in soffitta, recupero oggi “Bonerest – La fine di un mondo”, opera di Matteo Casali e una delle più ispirate fatiche giovanili di Giuseppe Camuncoli (che nel frattempo di strada ne ha fatta). “Bonerest” era un fumetto bizzarro, prodotto dall'etichetta indipendente Innocent Victim (vinse il premio Attilio Micheluzzi nel 1998 nella categoria Migliore Autoproduzione) e poi pubblicato in volumi dalla Magic Press (tre tomi). 

Bonerest” si rifaceva dichiaratamente alle influenze dell'ancora giovane divisione Vertigo, e con risultati tutt'altro che disprezzabili. Lo spunto di partenza era l'inizio di un'apocalisse surreale. Bone, una creatura venuta da una dimensione parallela, forse metafisica, si dissocia da quello che sembra essere il corso prestabilito degli eventi, e sulla terra inizia uno psichedelico parapiglia. Gli enigmi si moltiplicano. Bone non ha bocca, ma parla lo stesso, e cosa strana: nessuno sembra farci veramente caso. Per quanto molti elementi possano apparire derivativi, il carisma era innegabile, i personaggi interessanti, le implicazioni esoteriche in chiave anarchica intrigavano. Il personaggio partenopeo di Padre Domenico Sarzana, era appena entrato in scena e spaccava culi di brutto. E poi c'erano i disegni dell'emergente Cammo.


Bonerest – La fine di un mondo” è stato pubblicato anche all'estero, in Francia e in USA dalla Image. In patria, dopo i tre volumi Magic Press, se ne sono perse le tracce. Nonostante la forte determinazione degli autori a proseguire la saga (affermato ufficialmente nelle interviste rilasciate a siti professionali), dal 2010 il viaggio sembra essersi fermato. 

Sia Matteo Casali che Giuseppe Camuncoli hanno conquistato altre rive e varato altri progetti. Il mondo del fumetto è fatto anche di questo. Di coiti interrotti, di sogni da cui ci si sveglia prima di conoscere la fine, di storie infinite che forse ti sopravviveranno, forse no. E' comunque triste constatare oggi che facendo una ricerca di immagini in rete, si trovi così poco che ricordi l'esperienza di “Bonerest”. Non che sia stato rimosso, ma a confronto di altre opere coetanee si trova un riscontro davvero modesto.

Un peccato, a mio avviso. Possiamo solo sperare che gli entusiasmi degli autori (e i loro progetti e relazioni lavorative) siano soltanto in letargo. 









domenica 14 agosto 2016

Fumetti in soffitta: Carmine Di Giandomenico e Giulio Maraviglia


Per la serie: chi l'ha visto? Ci sono (grandi) disegnatori italiani che assurgono alla notorietà quando lavorano sui comics statunitensi. Ma spesso hanno prodotto perle nel nostro paese che hanno avuto solo fugaci apparizioni. E' il caso della trilogia steampunk "Le strabilianti avventure di Giulio Maraviglia, inventore". Scritto da Alessandro Bilotta e disegnato da Carmine Di Giandomenico. Un esercizio di stile molto interessante, che mi ha fatto subito adorare il tocco arti
stico di Di Giandomenico. In seguito, Bilotta e Di Giandomenico avrebbero firmato insieme il distopico "La Dottrina" e Di Giandomenico avrebbe affrontato la prova di autore totale con "Oudeis", per conquistare la popolarità internazionale alla Marvel, su "Daredevil" e oggi alla DC con "Flash". "Giulio Maraviglia" esordì come pubblicazione indipendente (etichetta Mondego) nei primi anni 2000, e qualche tempo dopo fu oggetto di una ristampa in volume da parte della Free Books. Da allora non ne trovo traccia. Eppure lo considero uno degli esperimenti di fumetto avventuroso-fantastico italiano più raffinati. Sarebbe simpatico che qualche editore lo riscoprisse e gli desse la visibilità che merita.



venerdì 27 marzo 2015

Fumetti in soffitta: Brat Pack di Rick Veitch


Ci sono fumetti che o non arrivano in Italia o - nella migliore delle ipotesi - fanno una fugace apparizione per poi sparire, affondando nei meandri dell'editoria nostrana come in una palude, e restando relegati a tempo indeterminato in una sorta di soffitta virtuale. Un limbo dove sono ammucchiati oggetti dismessi, senza che questo li renda necesariamente meno pregiati.

Questa sorte, nel nostro paese, è toccata a gran parte della produzione di quell'autore straordinario che è Rick Veitch, autore di The One e Abraxas e il terrestre, solo per citare due dei titoli ancora reperibili sul suolo italico.


Spendiamo due parole a proposito di Brat Pack, uno dei capolavori assoluti di Rick Veitch. Un fumetto pubblicato in America nel 1990, prima dei fasti dissacranti di Garth Ennis e Mark Millar. Prima di The Boys e di tutte le letture trasgressive del genere supereroistico che oggi tirano tanto. Rick Veitch, ispirandosi in parte all'evento mediatico che fece da cornice alla morte di Robin-Jason Todd sulle pagine di Batman, dice la sua sul rapporto tra vigilante e sidekick. E lo fa con un affresco a tinte fortissime, direi acide, dell'intero cosmo degli eroi in tuta, portando in scena una versione mai così perversa e corrotta della Justice League. 

Vanità, commercio, fanatismo, perversione, profitto... e l'antico sospetto di pedofilia tanto caro a moralisti superficiali, grandi avversari del fumetto come fu Fredric Wertham, qui sono raccontati come la norma nel quotidiano di quello che siamo abituati a chiamare "supereroe". In questa visione pessimista, gli eroi non esistono. Esistono solo gli idoli. E forse la cosa migliore da fare per essere liberi, sarebbe abbatterli. Non a caso il misterioso villain, motore del racconto si chiama Doctor Blasphemy (in italiano: Dottor Bestemmia).

Un autore notevole (qui nella sua veste totale di sceneggiatore e illustratore) ingiustamente poco noto nel nostro paese. Brat Pack fu pubblicato molti anni fa dalla defunta etichetta indipendente Phoenix, curata da Daniele Brolli. Più recentemente (ma parliamo di almeno cinque anni fa), era stata annunciata una ristampa in volume dalla Comma 22 (sempre lo zampino del buon Brolli). Purtroppo da allora, per ragioni ignote, non se n'è saputo più nulla. Un vero peccato. In un mercato che gira su se stesso ungendo gli ingranaggi con i nomi dei soliti noti, avremmo un gran bisogno di recuperare Rick Veitch e la sua visione disillusa (e graffiante) sui nostri sogni ancora fin troppo ingenui.