lunedì 12 febbraio 2024

Se volessi parlare un po'...

 


Io sono fatto così.

Ci sono periodi in cui sono preso da una logorrea bulimica. Non solo parlo tanto (...anche da solo), ma scrivo. Scrivo forse più di quanto abbia da dire. Fa parte delle mie neurodivergenze, perciò... stacce.

Poi ce ne sono altri, in cui mi zittisco. Resto muto, non interagisco e smetto pure di scrivere. Quasi una forma di afasia selettiva. Ma se non altro, raramente smetto di leggere.

Tra la fine dell'anno scorso e l'inizio di quello in corso, in effetti, ho divorato un bel po' di libri. Letto finalmente Capolinea Malausséne di Daniel Pennac, ultima (si direbbe) tappa della saga familiare che ha fatto conoscere al mondo lo scrittore francese. Recuperato (ebbene sì) Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda. Classico la cui lettura avevo rimandato per buona parte della vita. Qualcosa che è più di una semplice immersione letteraria. Un'esperienza, che andava fatta. Dopo gli equilibrismi linguistici del grande Carlo Emilio, ho dato spazio al disimpegno più totale, leggendo Festa di morte di Philip J. Farmer, primo tassello di quel mosaico (in larga parte inedito in Italia) che fa incrociare le strade di celebri eroi della narrativa popolare. Nella fattispecie Tarzan (mai così selvaggio, violento, animalesco e sessuale) e Doc Savage, uno dei principali archetipi del supereroe nato nella narrativa pulp, anch'egli spogliato da ogni velo morale. Ho assaporato l'angoscia sublime (e in buona parte incompresa) trasmessa da John Ajvide Lindqvist nel suo L'estate dei morti viventi, di cui presto uscirà il film, e mi sono rifatto il palato con il divertentissimo Guida al trattamento dei vampiri per casalinghe di Grady Hendrix, sempre più vicino a essere incoronato come lo Stephen King delle nuove generazioni. Dunque ho fatto conoscenza con il fantasy nostrano di Francesco Dimitri e il suo Alice nel paese della vaporità, per poi tornare a trovare il mio amico Haruki Murakami tra le pagine de Nel segno della pecora, romanzo giovanile forse meno incisivo dei lavori successivi, ma dove il suo caratteristico cocktail di facilità narrativa e surrealismo è comunque straniante.

Una droga per me. La lettura, intendo.


E i fumetti?

Ammetto di averli trascurati un po' ultimamente. Ad ogni modo, mentre soggiornavo a Pisa, ho letto Tristerio e Vanglorio, fumetto satirico fantasy di Francesco Catelani e Federico Fabbri. Lettura quanto mai doverosa, considerato che ero ospite a casa di uno dei due autori, ma anche perché si tratta di un fumetto italiano di quelli che non si trovano facilmente e una piacevolissima sorpresa. Un universo fantasy dalla mitologia... Pardon, oggi si dice “lore”... assolutamente peculiare. Ricamato sul modello dell'epica cavalleresca, ma ricco di anacronismi e trovate visionarie, in cui le peripezie dello sgangherato eroe Tristerio e del suo anonimo scudierio si intrecciano con le leggende che hanno per protagonista Vanglorio, superbo cavaliere senza paura e con qualche macchia, le cui gesta hanno messo radici nella memoria collettiva del suo mondo come un ineguagliabile modello di eroismo. E la Fama, ritratta come fu descritta da Virgilio nell'Eneide: un essere dalle grandi ali, dai mille occhi, bocche e lingue pronte a narrare. Una divinità capricciosa capace di seminare nelle orecchie degli uomini canti di lode come cronache di infamia. In definitiva un mostro, ma nondimeno ambita e corteggiata da un'umanità affamata d'attenzione e di riscatto dalla mediocrità. Un'avventura a fumetti dai toni irriverenti, pregna di simbolismi e critica sociale. Inno agli umili allo sbando in un mondo di merda, che tale rimane a dispetto di sacrifici e altruismo. Fumetto, quello di Catelani e Fabbri, quanto mai cattivo, nerissimo e intelligente, che non si dimentica dopo aver chiuso il libro, ma che lascia una sardonica sensazione di disagio.

Le letture, in fondo, servono a questo. A scuoterci, indurci a riflettere...

Appunto.

Questo è un blog, un diario di bordo in rete. Un posto in cui vengo a pensare per iscritto. E non è immune al mio periodico blocco. Posso scriverci sopra tanto, anche fesserie. E poi fermarmi, a lungo. E così è stato di recente, una volta di più.

Ormai da anni scrivo per... parlare. Nel senso che ciò che scrivo è progettato per finire in un video su Youtube o in podcast su Anchor (ora acquistato da Spotify). Ed è su questo che nelle ultime settimane mi sto trovando a rimuginare. Mi sento sempre più tentato dal linguaggio del podcast, dalla voce senza corpo, dalle parole e dai suoni che bastano a sé stessi. Tante volte mi son sentito dire che i miei video sono ascoltati più che guardati. Una vera stoccata per il sottoscritto, che spende ore a confezionare la parte grafica sforzandosi di dare al proprio prodotto un look riconoscibile. Non che per realizzare un podcast sia tutto in discesa. C'è comunque un copione da scrivere, da leggere, le voci nella mia testa che tento di replicare, le musiche scelte in base al tono del discorso e i mille effetti sonori. Che posso farci? Tutto è iniziato dalla mia passione per il teatro. Le prime cose che scrissi da ragazzo erano commedie. Facevo impazzire i miei coetanei coinvolgendoli in improbabili compagnie teatrali e dirigevo da solo spettacoli amatoriali in cui spesso mi sentivo dare del regista tiranno. Colpa del mio perfezionismo, fallace ma ostinato. Tutte cose che ancora oggi mi porto dietro qualunque cosa faccia.

Ma perché questo discorso? Considerato anche che questo blog, tra le mie attività in rete, è sicuramente il palcoscenico meno seguito. Non me lo scordo, eh! In passato ho scritto per anni su riviste elettroniche. Sempre parlando di fumetti. E non ricevevo manco un commento. Ma proprio zero. Nisba. Pacche sulle spalle dagli addetti ai lavori, quelle sì. Ma nessuna interazione con il pubblico. Poi arrivò il grande tubo, la chiusura della libreria Altroquando e la mia definitiva trasmigrazione da “articolista” in “creator”, qualunque cosa questo significhi. Giusto per sentirmi dire che risultavo uno scrittore cui s'era rotta la tastiera, e che su youtube mi stavo svendendo.

Ma si può?!

Che devo dire? A te. Proprio te che mi stai leggendo?

Bravo, brava, bravə. E grazie. Considerato che oggi comunicare scrivendo è diventato veramente difficile se il tuo nome non è urlato dagli algoritmi in home page blasonate.

E i podcast?

Sono un mondo strano, in espansione nel nostro paese e amatissimo all'estero. In realtà non dissimili da certe esperienze radiofoniche, ma progettati per essere disponibili in qualunque momento e su qualsiasi supporto. Insomma, qualcosa di comodo. Un codice che (ci risiamo!) si presta a integrare scrittura, idee, narrazione e... teatro.

Non si scappa, ritorno sempre lì.

Quello che faccio io, dopotutto, è questo. Un teatro di narrazione che ha scelto il fumetto come spunto di partenza, ma che si basa su affabulazione e divagazione. Qualcuno potrebbe scegliere di chiamarla “divulgazione”. Beh, ci sta. Più che altro lo spero.

Allora, se questo è un blog, un diario, blablabla... perché non dovrei usarlo come tale? Scrivere a ruota libera (come sto facendo) per inseguire idee e condividere la confusione che ho in testa.

Caos con cui ora sto ammorbando te che mi leggi... ammesso che tu ci sia ancora.

Qual è il problema?

Io lo chiamo... l'ingorgo. Una situazione di stallo in cui ciclicamente mi ritrovo impantanato.

Vorrei tanto andare avanti, ma non so che direzione prendere. Nella produzione in rete, intendo. In genere preparo una scaletta, un carnet di argomenti e progetti... che consulto, affronto e depenno un po' alla volta. Ma le cose non vanno sempre lisce.

E' come avere tante voci nella testa che parlano contemporaneamente. Tanti spunti, tanti argomenti che ti si offrono e ti dicono: prendimi! Normale che subentri una certa ansia da prestazione. In poche parole... l'esubero di pensieri, di temi e di propositi, anziché foraggiare il mio lavoro finisce col produrre un blocco. Un ingorgo, appunto, nel quale mi sento intrappolato.

Questo blog è una sorta di spia rossa del mio umore, dello stato di salute della mia creatività. E' devastante, per me, contare quanti coccodrilli ho scritto nell'ultimo anno. Artisti che ci hanno lasciato cui ho voluto dedicare almeno un breve pensiero. E poco altro. O nulla.


La recente scomparsa di Alfredo Castelli, poi, mi ha colpito in modo particolarmente violento. Non ho mai avuto il piacere di incontrarlo, ma per me era come un vecchio zio che c'era sempre stato. Da bambino ero rimasto affascinato dalle storie dell'Ombra negli inserti (i cosiddetti Albi Avventura) del Corriere dei Ragazzi. Avevo seguito con piacere le imprese degli Aristocratici e i contrappunti surreali dell'Omino Bufo. E la rivista Tilt, le adorate strisce di Zio Boris... fino a Martin Mystère, letto per la prima volta mentre svolgevo il servizio civile come forestale nei boschi della Calabria.

Alfredo Castelli, con la sua prolificità di narratore, la sua competenza storica e l'allegria che gli permetteva di disegnare e incidere nella memoria pur essendo fuori da ogni canone tecnico, era come un punto fermo, un irraggiungibile modello di creatività vulcanica, e sapere che non c'è più mi addolora profondamente. Mi fa sentire vecchio e mi mette davanti alla povertà di quanto sono riuscito a produrre nel corso della mia esistenza. Lutto, insomma, per una persona che ho conosciuto solo attraverso le sue opere e la costante presenza sulla scena del fumetto.

A pensarci bene, credo che non mi capitasse da tanto di scrivere sul blog con questo tono. Da vero e proprio diario, insomma. Diciamocelo, i blog sono prevalentemente dei magazine dove troviamo raccolte recensioni di cinema, di libri, di altro... o comunque dissertazioni su argomenti specifici, in genere firmati da appassionati se non da chi è professionalmente attivo in determinati settori.

Io stesso, in passato (probabilmente anche in futuro) mi sono dedicato alle recensioni. Ogni tanto piazzando qualche racconto qua e là (madonna, da quanto non ne scrivo?!) e supportando i miei impegni altrove, soprattutto sul grande tubo.

Ma Cronache da un Altroquando, come ha preso a chiamarsi in anni più recenti, nasceva come blog a supporto della nostra libreria. Per la funzione di comunicare con la clientela, parlare della nostra attività, presentare i nuovi arrivi e i nostri progetti culturali. A suo modo un diario del capitano al comando di una bagnarola alla deriva in un mare non sempre amichevole.

Perché oggi dovrebbe essere diverso?

Se mi stai leggendo, prendilo come uno sfogo. Il tentativo di fare il punto. Perdonami. Ho l'ingorgo in testa. Tutte le vetture intorno a me stanno strombazzando, immobili e frustrate. Il livello di smog sale, e le mie cellule grigie friggono come uova in padella.

Non so cosa voglio, questo è il problema. Da giovanissimo credevo di volere dedicare la mia vita al teatro, alla scrittura e alla recitazione. Poi al giornalismo, alla cronaca e al servizio dell'informazione. Infine ho preso a lavorare in libreria, circondato prima da libri di narrativa, poesia e saggistica. Quindi fumetti, fumetti e ancora fumetti.

Fumetti... che sono stati sempre nella mia vita, cadenzandola come un leitmotiv wagneriano. In qualche caso in modo giocoso, in altre in termini quasi tragici.

«Un tram che si chiama Desiderio è un dramma che ha influenzato tutta la mia vita!» diceva la protagonista di Tutto su mia madre di Pedro Almodovar. Per me sono stati i fumetti. Via di fuga durante l'infanzia e la prima adolescenza, oggetto di riscoperta e passepartout culturale nell'età matura e quindi oggetto di lavoro (prima) e zattera di salvataggio (dopo).

E cosa posso fare se non rimanere aggrappato alla zattera? Prima o poi l'ingorgo dovrà iniziare a sciogliersi, il traffico a fluire, e io finirò da qualche parte. Dove non so... ma un posto ci sarà.

Scusa se ti ho coinvolto in questo delirio. Sono un soggetto complicato. E tutto sommato, mi andava di scrivere, di parlare... anche di nulla.

O di tutto, non lo so. Ma spero che ci risentiremo presto.



mercoledì 7 febbraio 2024

Ciao, Pitore di Santini...



Ci ha appena lasciati Alfredo Castelli. Un gigante nel panorama del fumetto italiano.

I più giovani lo ricorderanno per Martin Mystère e la forte impronta lasciata sulle edizioni Bonelli nel corso degli ultimi quarant'anni. I meno giovani, come il sottoscritto, lo ricordano in prima istanza per le sperimentazioni umoristiche quali Scheletrino, striscia demenziale pubblicata in appendice a Diabolik, e a l'Omino Bufo, che disegnava in prima persona firmando con lo pseudonimo sgangherato di "Il Pitore di Santini". Una sfida culturale che avanti nei tempi presentava uno stile abborracciato per portare avanti invenzioni e provocazioni, nonché l'idea del fumetto come linguaggio integrato, che va fruito nella sua complessità e non come una mera somma delle parti.


In veste di sceneggiatore, Castelli ha scritto storie di personaggi popolarissimi: Tiramolla, Cucciolo e di Topolino. Fondò le prime fanzine italiane dedicate ai fumetti,
Comics Club 104, e la rivista Tilt con Carlo Peroni, Mario Gomboli e Marco Baratelli. Contribuì in collaborazione con Pier Carpi a fondare Horror, la prima rivista italiana dedicata all'orrore sulla quale esordisce Zio Boris, striscia ideata da Castelli su disegni di Carlo Peroni, e in seguito portata avanti con le matite di Daniele Fagarazzi. Cronaca familiare di un mad doctor circondato da creature mostruose che riprendeva con humor tutto italiano lo spirito macabro e beffardo della Famiglia Addams. 
Altra pietra miliare è rappresentata dalla storie di Otto Kruntz, inventore tedesco sosia di Adolf Hitler, sempre disegnato da Fagarazzi, e delle sue devastanti macchine.
Negli anni 70, sul Corriere dei Ragazzi, Castelli creò numerosi personaggi destinati a mettere radici nella memoria di più generazioni. Ricordiamo tra i tanti, l'Ombra, giustiziere a metà strada tra The Shadow e l'Uomo Invisibile di HG Wells, e Gli Aristocratici, indimenticabile clan di ladri gentiluomini. Due opere fondamentali che diedero inizio alla la sua storica collaborazione con il disegnatore Ferdinando Tacconi. 


Odio scrivere coccodrilli. Si cede sempre alla tentazione di compilare delle cronologie se non degli sterili elenchi. E anche stavolta non è stato diverso. Perciò mi fermo qui.

Aggiungerò solo che Alfredo Castelli è stato un personaggio immenso, come autore, come saggista, come sperimentatore in tempi non sospetti, come curatore e storico della Nona Arte. E chiuderò ribadendo l'ovvio, ma anche la verità. Cioè che lascia un vuoto incolmabile.


Ciao, Pitore di Santini. Il mondo del fumetto sarà più grigio senza di te. Grazie di tutto.



Alfredo Castelli – 1947 - 2024






lunedì 5 febbraio 2024

Tanti auguri a me (su Youtube)

 

Youtube mi segnala che oggi il canale di Altroquando compie gli anni. Quanti, non lo so e non voglio contarli. Come dice chi so io: «Non si chiede l'età a una bella signora.»

Lo festeggio ricordando quello che credo sia in assoluto il video più visto. Non perché sia il più bello (personalmente ne preferisco altri), ma solo perché contiene il nome di Batman, e all'algoritmo piace così.

Tanti auguri a me. Su Youtube.


martedì 19 dicembre 2023

Kang or not Kang


 Ok, e adesso che si fa?

Jonathan Majors è stato definitivamente condannato per aggressione, e questo con molta probabilità, per non dire certezza, porterà a una correzione dei piani Marvel per l'immediato futuro dell'universo cinematografico.
Una prassi che trovo di un'ipocrisia sconcertante, ma che negli ultimi anni è diventata regola. Se hai un calo di popolarità, non importa se non in un ambito che riguarda la tua professione, sei rimosso dalla vetrina di mercato. C'è stato un tempo, almeno in Italia, in cui le cose andavano in modo diverso. Maurizio Costanzo uscì fresco e pettinato dalla vicenda della loggia P2, e così tanti altri. Sofia Loren fu prima arrestata, poi rimase latitante per anni per evasione fiscale, eppure continuò ad apparire in produzioni estere senza che la cosa scalfisse minimante la sua immagine di star. Roman Polansky fu accusato di stupro, un reato gravissimo. Il regista si rifugiò in Europa, ma la sua cattiva fama non pregiudicò in nessun modo la distribuzione e il successo dei suoi film in territorio americano.
Altre storie, altri tempi? In ogni caso oggi parliamo della Disney, la casa di tutte le famiglie, il volto pulito (?) dell'America e dei suoi valori più sacri. Insomma, uno che maltratta le donne, la cui responsabilità è ora passata in giudicato, la cuccia sacra di Topolino non lo può proprio gestire.

Il punto che ci troveremo a discutere da qui ai prossimi mesi è però un altro. Che fare... non tanto di Jonathan Majors, ma di Kang, del suo personaggio, già controverso, e fondamentale nell'attuale fil rouge che attraversa il Marvel Cinematic Universe? Recenti rumors avevano parlato di sostituire il villain con un altro personaggio, forse Destino, altro grande cattivo delle saghe marvelliane. O magari qualcuno di totalmente nuovo.
E un recasting? Mah! Boh! Uff! Grunt! Snort!

Personalmente, trovo l'avversione nei confronti del recasting qualcosa di infantile. L'attaccamento a una presunta perfezione-coerenza formale impossibile nella realtà, soprattutto in un contesto sfuggente e mutevole come quello delle produzioni cinematografiche e televisive seriali. The show must go on... ma ancora meglio... lo spettacolo richiede un certo sforzo partecipativo da parte del pubblico, della sua fantasia, della sua disposizione a credere a una storia. Qui no. Non si parla quasi neanche più di storia. Interessa a pochi. Si discute solo di forma, di facce, e di effetti speciali più o meno accettabili che tutti (dico tutti) si sentono qualificati ad analizzare nei minimi dettagli.
Il recasting è una poverata da soap opera, dicono alcuni. Cazzatona. Il recasting è una cosa normale, che può accadere, che accade, perché un attore-attrice può stancarsi, allontanarsi, ammalarsi, morire persino... e lo spettacolo, se paga, deve continuare. E' successo da sempre, e nessuna sala cinematografica è mai andata a fuoco per la sostituzione di uno o più interpreti. Anche in serie blasonate. Gli esempi non si conterebbero, ma mi sentirei stupido a farli, come se ce ne fosse bisogno.



Quindi che fare? Sostituire Jonathan Majors? Per quanto mi riguarda sarebbe l'unica cosa da fare, se proprio si vuole. E amen!
E sostituire il personaggio? Introdurre un nuovo soggetto nel grande gioco?

Ehmm... Sicuri sicuri? La saga del multiverso, sempre a mio modestissimo avviso, è una delle cose più pasticciate, confuse, contraddittorie, antipatiche, mal scritte degli ultimi anni. Anche in un contesto "easy" quali sono i film di supereroi, che (lo ribadisco... io la penso così) non seguono lo stesso criterio di sospensione dell'incredulità di altri racconti cinematografici. Sono un giocattolo dalle dinamiche tutte sue.

Intervenire in corso d'opera in un lavoro già così ingarbugliato e (diciamolo!) poco interessante, dubito molto possa essere salutare. Il rischio di annacquare un vino già di per sé scadente è davvero alto. Voterei, dunque, per un recasting e una conclusione quanto più definitiva della parentesi Kang-multiversale. Anticipata? Magari. La vedo come un'eutanasia necessaria, la soppressione di un prodotto nato deforme e sofferente la cui agonia (condivisa da una vasta fetta di pubblico) potrebbe giungere a un'anticipata, pietosa conclusione. Le ragioni ci sarebbero tutte, e tutte etiche.
L'introduzione in extremis di un nuovo villain, temo non farebbe che infettare ulteriormente il bubbone già purulento, confondere acque già torbide, e partorire un altro povero mostro disgraziato.
No, decisamente, all'inserimento frettoloso di Destino, personaggio dal grande potenziale che gradirei vedere esordire ed evolvere in tempi razionali. Magari nel futuro, ancora misterioso (e pericolosissimo) rilancio dei Fantastici Quattro al cinema.

Ma qua si chiacchiera di aria fritta. E' sempre così.
A ciascuno il suo, d'altronde. E ricordiamo che quello sotto scopa, al di fuori di queste speculazioni, rimane Jonathan Majors, che con una condanna per aggressione sulle spalle adesso avrà ben altre gatte da pelare.
A noi restano i fumetti, il cinema... e il nostro parlare di nulla.
Perché... ammettiamolo, ci piace farlo.

sabato 16 dicembre 2023

Tumbbad

 


Tumbbad”, è un film horror indiano del 2018, diretto dall'esordiente Rahil Ani Barve. Naturalmente inedito nel nostro paese, ha però spopolato in più festival in giro per il mondo raccogliendo consensi a Sitges, alla 75a Mostra del Cinema di Venezia, al Brooklyn Horror Film Festival e molti altri, ottenendo un consenso raro sulla scena internazionale per una produzione di Bollywood. A riguardo, la sua natura è controversa, in quanto si discute se collocarlo sotto l'etichetta di Bollywood o quella di film Marathi, lingua parlata in India da un'alta percentuale di popolazione e utilizzata in una cinematografia peculiare, nonché in molta letteratura, tra cui il romanzo dello scrittore Narayan Dharap, cui “Tumbbad” si ispira. Resta il fatto che la sua origine hindi gli ha precluso la distribuzione nelle sale occidentali, per niente interessate a concedere spazio a pellicole estranee alle più collaudate dinamiche commerciali.


Ed è l'ennesimo peccato, perché “Tumbaad” è un film splendido in ogni sua singola parte. Nella sua natura di racconto fantastico e storico, pauroso e politico, e nella spettacolarità di un cinema che pur non giovandosi di cifre da blockbuster è in grado di invadere gli occhi e l'anima dello spettatore e mettere radici anche a visione conclusa.

1918, nel piccolo e miserando villaggio di Tumbaad, la madre del giovane Vinayak si prende cura, di un vecchissimo signorotto locale. Assistenza che include anche favori sessuali. La cosa va avanti da anni, e dalla relazione sono nati lo stesso Vinayak e un fratellino più piccolo. La famiglia della donna è considerata pariah e i tre vivono in condizioni di estrema povertà, sopravvivendo con le misere risorse che la madre riceve dall'anziano protettore. Nel palazzo dell'uomo si dice sia nascosto un tesoro inestimabile, oggi testimoniato da un'unica, pregiatissima moneta d'oro che il vegliardo ha promesso alla donna in cambio dei suoi servigi, ma che finora non le ha mai permesso di toccare. Tra le incombenze della donna c'è anche quella di prendersi cura della bisnonna dell'uomo. Una creatura decrepita e mostruosa, forse immortale, che passa la maggior parte del tempo dormendo e viene nutrita per mezzo di un imbuto. Un giorno, il fratellino di Vinayak ha un incidente e la madre è costretta a portarlo d'urgenza da un medico abbandonando le sue mansioni quotidiane. Toccherà all'inesperto Vinayak dare da mangiare alla vecchia strega, che rimasta sola col bambino, per la prima volta dopo tanto tempo, apre gli occhi...

Tumbbad” si presenta come un folk horror, ma forse gli si addice più la definizione di dark fantasy, in quanto è una fiaba nerissima e crudele, che intreccia la mitologia (in questo caso fittizia) e il racconto morale su uno sfondo storico suggerito ma comunque rilevante. Siamo in presenza di un film generazionale, che si apre sulle vicende di una povera famiglia in un angolo dell'India coloniale, attraversa il periodo della resistenza e del cammino politico del Mahatma Gandhi e si conclude all'indomani della rinconquistata indipendenza del paese dal governo britannico.

E' anche un film dall'evidente eco lovecraftiana, dove ai miti dell'orrore dello scrittore di Provvidence si sostituiscono elementi della cultura indiana e la temibile divinità Hastar, personificazione dell'avidità umana di cui solo pronunciare il nome porta disgrazia. Un orrore cosmico dalla valenza allegorica, reso per mezzo di una delle scenografie più suggestive e disturbanti che siano mai apparse sullo schermo.


Hastar è un'invenzione letteraria, ma la sua presenza nel racconto è perfettamente giustificata dalla narrazione di un mito ancestrale che fa del personaggio uno dei demoni più spaventosi che si possano incontrare. Divinità in catene, imprigionata per i suoi peccati dai numi della tradizione e condannata a essere dimenticata dall'umanità, ma eternamente in agguato nelle viscere della terra. La figura di Vinayak, prima fanciullo, poi uomo, è l'archetipo fiabesco del personaggio audace e determinato, le cui ossessioni innescano una spirale sinistra di eventi a orologeria. Non è un caso che in tanti abbiano paragonato alcuni aspetti del film di Rahil Ani Barve alle opere di Guillermo Del Toro, filmografia dove il fantastico e il macabro fanno da lanterna magica a dolenti pagine di storia e a una natura umana sostanzialmente fallace.

Tumbbad” è un film di spavento, avventuroso, mitico, sociale... ed è un film incantevole, fatto di suggestioni oscure, fiabesche. Insomma, un gran film che merita di essere visto.

Un film invisibile in Italia, che per essere recuperato rende necessario rivolgersi ai folletti dell'Internet se non al terribile e dimenticato nume Hastar. Se si cerca bene, esistono anche degli ottimi sottotitoli in italiano.


domenica 10 dicembre 2023

Doctor Who: The Giggle

 


Si conclude con “The Giggle” la celebrazione del sessantesimo genetliaco di “Doctor Who”, il longevo serial della BBC, il cui primo episodio andò in onda nel lontano 1963 e che tanto successo ha mietuto nel corso dei decenni, subendo un temporaneo arresto, qualche scossa in corsa, ma riuscendo comunque a tenersi a galla fino a oggi.

Che dire? Wow! Un senso di vertigine, tanta curiosità, e... l'esordio di Ncuti Gatwa nel ruolo del Dottore.

Il terzo dei tre speciali caratterizzati dal ritorno di David Tennant nei panni del quattordicesimo Dottore, dopo essere stato l'amatissimo decimo, chiude la trilogia in modo pirotecnico, e con una commistione tra vecchio, mediano e nuovo che lascia frastornati, ma anche curiosi di vedere come lo show andrà avanti.

Ormai è evidente che Russell T. Davies, artefice del primo rilancio della serie avvenuto nel 2005, si è messo comodo al timone di questo nuovo corso, riportando in scena atmosfere e situazioni collaudate, ma intenzionato anche a sperimentare. Lo dimostra il ritorno in scena di Mel Busch, compagna del sesto e del settimo Dottore, sempre interpretata dall'attrice Bonnie Langford, e soprattutto del Giocattolaio, avversario comparso nella terza stagione dello show, nel 1966, e scontratosi con il primo Dottore a pilotare il Tardis, il venerando William Hartnell.


Parliamo di un ciclo di tre episodi intitolato “The Celestial Toymaker”, i cui primi due capitoli sono andati, aimé, perduti e oggi esistono solo in forma novellizzata. Sopravvive l'ultimo segmento della trilogia, in cui il Dottore e i suoi due compagni dell'epoca, Dodo e Steven, si scontravano con la potente entità chiamata Toymaker, che allora aveva il volto dell'attore britannico Michael Gough (lo ricordiamo, tra le tante apparizioni, nel ruolo di Alfred Pennyworth, nei due Batman di Tim Burton e nei successivi capitoli diretti da Joel Schumacher).

Il Giocattolaio, creatura antica e quasi onnipotente, al di là di ogni etica, che esiste solo in funzione dell'azzardo del gioco, del divertimento e del puro caos. Un essere che sotto alcuni aspetti potrebbe rammentare per poteri e caratterizzazione Mr. Mxyzptlk, il diavoletto dimensionale nemico di Superman, e che oggi ha il volto di uno scatenato Neil Patrick Harris, perfettamente a suo agio in un ruolo insinuante e temibile.

Riesumare un villain così classico, finora mai ricomparso nella serie classica né in quella revival, non è una scelta casuale. Davies, dicevamo, parla di passato e futuro, di canone e di rovesciamento delle prospettive. Da un lato si dimostra uno dei migliori architetti possibili cui affidare le sorti dello show (Chris Chibnall, con le sue innovazioni fallimentari, è già un pallido ricordo). Dall'altro, si rivela pronto a svecchiare i moduli e prendere il largo facendo tesoro dei nuovi mezzi a sua disposizione.

The Giggle” è un vero caleidoscopio. Tra gli ingredienti troviamo l'horror (che nelle avventure del Timelord è di casa) e la satira sociale, con un fugace ma corrosivo riferimento alla pandemia da Covid-19 e a certo complottismo (scommetto che qualcuno si incazzerà). L'elemento gotico si esprime al meglio parlando di giocattoli e di temi infantili che diventano sinistre sfide. Lo stesso primo incontro con il Toymaker, in fondo, echeggiava il modello di gioco mortale che oggi conosciamo bene grazie a film e prodotti seriali di successo come “As the Gods Will”, “Alice in Borderland” e soprattutto il gettonatissimo “Squid Game”.

E' quasi una resa dei conti con un discorso lasciato in sospeso tanto tempo fa, ma anche la ricerca di una linea di demarcazione e di un nuovo punto di partenza. Tutto deve restare simile affinché lo show non si snaturi e vada avanti, ma nello stesso tempo deve cambiare pelle. Vecchi avversari che risorgono, altri nascosti nell'ombra, veloci riassunti delle saghe precedenti... e il nuovo Dottore, il Quindicesimo, pronto a iniziare il suo viaggio.


Il twist finale proposto da Russell T. Davies può risultare ostico da mandare giù. Io stesso, inciampato mesi fa in uno spoiler precoce, non so dire quanto mi senta convinto. Tutto sta a vedere come sarà gestita la cosa in futuro. In nostro aiuto, però, accorre una riflessione che mi è molto cara. E cioè che le storie non contano solo per gli accadimenti che ci mostrano, ma vivono nei simboli che ci invitano a interpretare. L'invenzione di Davies per traghettare il ciclo precedente verso la nuova stagione (che ricordiamo: sarà indicata come Prima e non come quattordicesima, secondo la numerazione del revival), si presta a una lettura fortemente allegorica. Lo show, sembra dirci Russell T. Davies, aveva bisogno di tagliare un traguardo, ribadire alcuni principi fondamentali cui resterà sempre fedele, ma anche di prendere il volo alla scoperta di nuove direzioni da scoprire. Il temporaneo ritorno di Catherine Tate e la sua rinnovata condizione di compagna del Dottore, ha la medesima funzione del recupero di David Tennant come protagonista. L'esigenza umanissima di avere un lieto fine, un punto di arrivo, il raggiungimento di un porto sicuro in cui fermarsi e godersi un meritato pensionamento. Ad andare avanti ci penseranno le prossime generazioni.


Non si tratta solo di salutare la parentesi firmata da Chibnall, ma anche quella scritta da Steven Moffat, ribadendo che il Dottore è un'idea, un'invenzione anarchica in continua evoluzione, e pertanto è libero da qualsiasi vincolo di continuity, pur riservandosi nostalgiche reunion di quando in quando.

Lo scrittore Neil Gaiman, nel suo “Sandman”, a conclusione del ciclo intitolato “La stagione delle nebbie”, scrive che chiunque può avere la sua storia a lieto fine. E' sufficiente trovare un cielo azzurro, un prato verde, un luogo dove ci si sente in pace. Sedersi, guardare il tramonto e semplicemente... smettere di leggere.

Qualcosa che nella vita reale non è possibile, ma che la fantasia e una brillante scelta di scrittura possono realizzare. Sempre che la smania di spin off non ci metta del suo. Ma questo è tutto da scoprire.

Pertanto: benvenuto, Quindici. Non vediamo l'ora di scoprire cosa farai a Natale, l'ultimo degli speciali di quest'anno che segnerà l'inizio ufficiale della prossima stagione. Nuovi viaggi, nuovi compagni, nuove sfide alle convenzioni da parte di chi è capace di evolversi, di cambiare.

E un sentito vaffanculo agli idioti che alla notizia del casting di Ncuti Gatwa hanno commentato affermando che skipperanno schifati la nuova stagione, caratterizzata da questa scelta “politicamente squallida”, buona solo per eccitare gli sciocchi “woke”.

Doctor Who, per fortuna, vola sopra tutto questo. E rimane lo show più progressista (e queer) di tutti i tempi.

Buon viaggio, Fourteen.


mercoledì 6 dicembre 2023

Godzilla Minus One

 

Alla fine sono riuscito (facendo salti mortali, vista la programmazione per me problematica) a vedere "Godzilla Minus One", di Takashi Yamazaki, regista che conoscevo soprattutto per i suoi film ispirati a manga: "Space Battleship Yamato", "Kiseiju parte 1 e 2". "Godzilla Minus One" riporta il primo dei kaiju alle sue radici giapponesi dopo anni di brandizzazione americana, e ricomincia da zero, con la prima apparizione del mostro, collegata (anche metaforicamente) alle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.

Il film di Takashi Yamazaki, però, è qualcosa di più di un semplice reboot. Oggi, forse, lo definiremmo "reimaging", la nuova visione di un mito. Il racconto, infatti, stavolta inizia durante la fine della seconda guerra mondiale (il film originale diretto da Ishirō Honda nel 1954 si svolgeva nella sua contemporaneità) , e procede negli anni di ricostruzione del Giappone, in un clima politico delicato e instabile, dove la presenza statunitense (solo suggerita nel film) rappresenta un'ulteriore condanna dopo la devastazione causata dall'attacco nucleare.


La venuta di Godzilla diventa così il simbolo di conflitto irrisolto, anche interiore, così come la metafora di un pianeta squarciato, che non potrà più essere lo stesso e presenta catastrofi immani che di naturale ormai hanno poco. Una guerra destinata a non finire mai, negli animi di uomini e donne come nelle ferite del pianeta violato.


A metà strada tra il disaster movie, il monster movie e il melodramma (ebbene sì), "Godzilla Minus One" è un film spettacolare e intenso (la scena della distruzione di Tokyo è un colpo al cuore), che non lesina una buona dose di introspezione.

L'attore Ryūnosuke Kamiki, qui più maturo dopo le prove di "Bakuman" e "As the Gods Will", interpreta un kamikaze disertore, tormentato dal passato e in cerca di riscatto, proprio come la società giapponese, ridotta in ginocchio dalla guerra, ma anche dalle scelte scellerate dei propri governanti. Il kaiju come spunto di redenzione sociale, mentre il film di Yamazaki si mantiene in equilibrio tra l'avventura di mostri e il dramma, in un modo assolutamente inedito per un film del genere.

L'ottima notizia è che, dopo l'annuncio di soli sei giorni di programmazione, la sala palermitana che lo proietta (unica e sola) ha fatto sapere che prolungherà le proiezioni fino al 13 dicembre.

Una scelta forse motivata dall'evidente affluenza di un pubblico interessato, probabilmente non prevista per un film in lingua originale sottotitolato in italiano.
Ogni tanto, il pubblico sorprende. Ne sono contento.

Vai, Godzy. Spacca tutto quello che puoi. Parlando di botteghini, ovvio.