Visualizzazione post con etichetta Spettacolo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Spettacolo. Mostra tutti i post

venerdì 17 febbraio 2023

Un'altra serialità è possibile




I serial televisivi (o streaming, ormai non fa più differenza) sono diventati compagni di strada nel quotidiano per molti di noi. Per me sono un rito serale, che in genere non mi trattiene più di un'ora prima di abbandonarmi alla lettura e quindi al sonno. L'offerta è vastissima e se in mezzo c'è tanto materiale che a volte emerge con clamore, in altri casi rimane più o meno sommerso.

Questo mio post si propone di elencare alcune di quelle serie meritevoli di essere viste che per una ragione o per l'altra non hanno goduto della stessa eco mediatica riservati a prodotti più celebrati.

Quanto spesso sui social abbiamo letto elogi di titoli come House of the Dragon? Quante volte ci siamo imbattuti nell'isterismo di massa (di segni opposti) a proposito della serie The Lord of the Rings: The Rings of Power? Nel visibilio relativo a The Boys, a Mercoledì e più recentemente a The Last of Us?

Insomma, esistono dei prodotti che più di altri possono essere definiti mainstream, o se preferiamo... popolari. Titoli in grado di catalizzare l'attenzione e monopolizzare la ribalta, in qualche caso a discapito di prodotti seriali interessanti che risultano spinti in una zona d'ombra dai riflettori puntati sui serial più gettonati.

Vediamo di scoprire qualcosa di meno dirompente, non per qualità, ma per riscontro mediatico. Una serialità “altra”, che non punta su brand arcinoti e grosse campagne promozionali pur avendo molto da dire, o semplicemente rivelandosi un valido intrattenimento. Quella che segue non è da intendere come una classifica, ma solo una casuale raccolta delle mie più recenti visioni preferite. Quindi, fatene un uso consapevole. Sono solo consigli.



Bad Sisters
– Grace Garvey è sposata con un uomo orribile. Un individuo insopportabile che non è il classico marito violento, ma che ha un'influenza nefasta sulla vita della moglie, stroncando in lei ogni minima gratificazione personale. Grace ha anche quattro sorelle molto legate tra loro, ciascuna delle quali ha subito una conseguenza negativa dalla condotta dell'infame cognato. John Paul ora è morto, apparentemente per cause fortuite. Ma se non fosse così? E come sono andate esattamente le cose? Nel frattempo, un agente assicurativo sull'orlo della bancarotta indaga per non essere costretto a pagare la cospicua polizza sulla vita del defunto. Succederà di tutto in un crescendo da cardiopalma.

Bad Sisters è una serie irlandese (basata su una produzione belga inedita da noi) prodotta da Apple TV, una piattaforma che negli ultimi tempi ha sfornato diversi titoli davvero interessanti. Ideata da Sharon Horgan, che nella serie interpreta il personaggio di Eva, è una commedia nera come la pece e frizzante come lo champagne. Seguendo le peripezie delle cinque ineffabili sorelle Garvey si ride e si inorridisce nello stesso tempo, in un balletto tra presente e passato che svela poco alla volta i segreti di una famiglia tutt'altro che esemplare. Un thriller al femminile appassionante, grottesco e divertentissimo.




Inside Man
– Un detenuto nel braccio della morte di un carcere statunitense riceve visite da persone che gli sottopongono quesiti di vario genere. Grieff ha ucciso la moglie in modo efferato e nessuno sa perché né dove abbia nascosto la testa del cadavere. L'uomo, che è stato un criminologo professionista, possiede qualità deduttive pari a quelle di Sherlock Holmes, e si presta a risolvere enigmi dal chiuso della prigione quasi fosse un modo per pareggiare i conti con il proprio senso etico. Nel frattempo, in Inghilterra, un sacerdote protestante si trova di fronte a un dilemma morale apparentemente insolubile. Le vicende dei due uomini si intrecceranno a distanza in modo imprevedibile.

Scritto da Steven Moffat, autore di Sherlock e per anni show runner di Doctor Who, Inside Man si basa moltissimo sulle performance dei due attori protagonisti: David Tennant e Stanley Tucci. Solo quattro puntate, ma serratissime e dal ritmo indiavolato. Un senso di angoscia crescente e un meccanismo a orologeria che funziona come una trappola. Difficile non cedere alla tentazione del binge watching e divorarlo in un'unica seduta. Si trova nel catalogo Netflix.





Severance – Scissione – Altra serie prodotta da Apple TV e altro titolo di alto profilo del quale, sia pure all'interno di una nicchia, si è parlato un po' di più. Il paradosso con Scissione, serie ideata da Dan Erickson e diretta tra gli altri dall'attore Ben Stiller, è che per consigliarla sarebbe meglio parlarne il meno possibile. Il suo incipit è fulminante e sarebbe un peccato rovinarlo ai neofiti. Limitiamoci pertanto a dire che siamo nei territori di una fantascienza sociale che sconfina nel thriller, dove le domande si succedono l'una all'altra sia per lo spettatore che per i protagonisti. Il contesto paranoico e claustrofobico, un vero e proprio incubo, pur narrando una storia completamente diversa, ai più anziani tra noi potrebbe ricordare alcune atmosfere del classico serial inglese Il prigioniero. Un mondo del lavoro distopico, dove l'essere umano è ridotto a un mero ingranaggio e le coscienze non sono mai state così manipolabili. Un gioiello di cui si attende con impazienza la seconda stagione.





Yellowjackets
– L'aereo su cui viaggia una squadra di calcio femminile cade in una remota zona montuosa lontana dalla civiltà. Un pugno di superstiti sono ritrovate molti mesi dopo. Ma non sono più le stesse. Venticinque anni più tardi, oscuri segreti tornano a perseguitare le giovani sportive ormai divenute donne ciascuna con la propria storia. Che cosa è successo nel misterioso eremo in cui la squadra si era trovata a sopravvivere, e chi sta giocando oggi con le loro esistenze?
Tra passato e presente, gioventù e maturità, Yellowjackets potrebbe essere definito un lontano parente del leggendario Lost. Una vicenda enigmatica che si dipana come un mosaico da formare un pezzo alla volta in base ai continui salti temporali. Un po' mistery un po' teen drama, un po' crime e un po' horror con pennellate di grottesco, lo show è arricchito da una ciurma di attrici notevoli tra cui si distinguono Melanie Linksey, Juliette Lewis e la sempre impagabile Christina Ricci. La prima stagione (già confermata la seconda) presenta numerosi enigmi e non è ancora chiaro in che misura il mistery centrale presenti venature soprannaturali. Come che sia, Yellowjackets è uno spasso. Se si ama farsi domande e giocare a indovinare le risposte (proprio come facevamo con Lost), il divertimento è assicurato. La serie è ideata da Ashley Lyle, Bart Nickerson e in Italia è andata in onda su Sky.



The Afterparty – Il giallo-rosa (un tempo li chiamavano così) è stato rilanciato di recente da Only Murders in the building riscuotendo un certo gradimento. La stessa etichetta sarebbe da applicare a The Afterparty, serial di Apple TV scritto da Christopher Miller. Gradevole nella sua visione di insieme, The Afterparty presenta un approccio specifico potenzialmente affascinante che però non ha il coraggio di andare fino in fondo, risultando alla fine uno show simpatico, ma anche lasciando una sensazione di possibilità sprecata. Almeno così è stato per me. Una classe di ex studenti si incontrano per una rimpatriata in cui emergono inevitabili i bilanci esistenziali di ognuno, i vecchi amori e rancori. Alla fine ci scappa il morto ed è subito millenial whodunnit, come dicono oggi quelli bravi. Una commedia poliziesca, direbbero altri senza troppi fronzoli, in cui ogni episodio è concentrato sul differente punto di vista di un ospite della festa e potenziale colpevole. L'intenzione era quella di proporre attraverso la soggettiva dei vari protagonisti un tono narrativo diverso per ogni puntata, passando dalla commedia sentimentale all'horror, all'action, al musical e persino al cartone animato. L'idea è tanto carina e intrattiene il giusto. Peccato, però, che l'atmosfera di base rimanga sempre quella della commedia, smorzando un po' la trovata sperimentale e riducendo il gioco a semplici allusioni parodistiche. Se ogni episodio, oltre al genere avesse mutato anche chiave e tono narrativo, avremmo potuto trovarci davanti a un evento. Ciò non toglie che The Afterparty sia un giallo simpatico, che se non altro prova a essere diverso dagli altri e merita la visione.


                                                        



The Devil's Hour
– Prodotto da Steven Moffat e scritto da Tom Moran come original su Amazon Prime Video, The Devil's Hour è una piccola (grande) sorpresa. Lucy si sveglia ogni notte alla stessa ora, tra le 3 e le 4 antimeridiane, reduce sempre dallo stesso incubo. Non un minuto prima né dopo. L'orario è implacabilmente preciso. La sua vita non è certo un letto di fiori. Ha ripreso da poco a frequentarsi con il marito da cui è separata, ma il loro rapporto continua a non convincerla. L'uomo non riesce proprio a relazionarsi affettivamente con il figlioletto. Isaac, un bambino strano che appare indifferente a qualunque stimolo, che non ride, non piange e a tratti appare simile a un guscio vuoto inclassificabile anche per la scienza medica. Intorno a Lucy, intanto, si verificano una serie di brutali omicidi e fenomeni indecifrabili che la porteranno a incrociare il cammino di un misterioso serial killer.

The Devil's Hour è un oggetto enigmatico e di fruizione non proprio facilissima. Trama labirintica, dinamiche narrative sfuggenti che confondono lo spettatore fino alla conclusione risolutiva nella sua complessità. Un horror mistery britannico che invita a comporre un nuovo mosaico dalle tessere tremendamente ambigue. Narrazione tesa, tenebrosa eppure affascinante grazie ai numerosi colpi di scena, all'ottimo ritmo e alle interpretazioni di Peter Capaldi e Jessica Raine. Disorientante e proprio per questo appassionante nella sua spietatezza.



                          
                                                       

Servant
– Ormai giunta alla conclusiva quarta stagione, la serie ideata da Tony Bassgallop, prodotta da M. Night Shyamalan, che ha pure diretto alcuni episodi, non è sicuramente roba per tutti. Eppure, tra le tante serie proposte da Apple TV (che sembra averne imbroccata una dietro l'altra), fa bella mostra di sé per originalità e il modo personale con cui affronta temi abusatissimi.

Sì, perché Servant è praticamente una storia supereroistica, di quelle in chiave dark e decostruzioniste. Può suonare strano, ma di questo si tratta, considerato che il personaggio centrale ha molti punti di contatto con quello marvelliano di Scarlet Witch, o perlomeno con la sua versione a fumetti più classica. Aggiungere altri dettagli sconfinerebbe nello spoiler.

Una famiglia americana formata da uno chef specializzato in cucina molecolare e da una giornalista televisiva rampante perde il figlioletto appena nato in circostanze drammatiche che non saranno subito chiarite. Per aiutare Dorothy, la madre, psicologicamente provata dal lutto, il marito accetta di ricorrere a un trattamento terapeutico sperimentale che prevede l'uso di una bambola che riproduce le fattezze del neonato defunto. Dorothy però sta varcando la soglia della follia, e mette sul giornale un'inserzione alla ricerca di una tata per il figlio artificiale. All'annuncio risponde Leanne, una misteriosa ragazza dal passato oscuro che viene subito assunta per assecondare le illusioni della madre confusa. Da quel momento, nella casa gli eventi sembrano non seguire più le leggi della natura, ma distorcersi in modo imponderabile.

Servant è una serie strana, probabilmente non per tutti. Qualcuno potrebbe trovarla ostica. Tuttavia mi sento di consigliarla, in quanto siamo davanti a un fantastico esempio di narrativa non lineare, un efficace thriller da camera e di un'ottima prova di attori. Nel cast, accanto a Toby Kebbell (Black Mirror), Lauren Ambrose (Six Feet Under) e Nell Tiger Free (Games of Thrones), troviamo anche Rupert Grint, l'ex Ron Wesley della saga di Harry Potter, in un ruolo sfaccettato che lo fa svettare su tutto il cast.






 The Bear
– Carmy è uno chef stellato che ha appena ereditato dal fratello defunto una tavola calda in un quartiere popolare di Chicago. Il locale è assediato dai debiti, il personale fuori controllo e rimettere l'attività in carreggiata sembra un'impresa impossibile. Carmy farà di tutto per comunicare con i suoi nuovi collaboratori, aiutarli a dare il meglio di sé e fare i conti con il rapporto mai del tutto risolto con il fratello ormai scomparso. The Bear 
è una serie che osa ignorare gli schemi più battuti e porta la serialità in un territorio raramente esplorato. Gli episodi, tutti molto brevi, sono ambientati in una cucina incasinatissima e chiassosa. Una vera zona di guerra dove si urlano istruzioni cui fanno eco proteste per tutto il tempo e ci si tuffa tra corpi che sgobbano, ingredienti miscelati, fornelli accesi e pietanze cotte con disperato senso di urgenza. La serie, scritta da Christopher Storer, a tratti può ricordare alcune pellicole di Spike Lee per il taglio realistico, la vicinanza ai personaggi e la narrazione ellittica in cui alcuni eventi sono suggeriti più che mostrati. Qualcosa di insolito che parla di umanità attraverso il rapporto con il cibo e la sua preparazione. Un gioiellino imperfetto, ma lucente da scoprire. Su Disney+ come Star Original.




Black Bird – Ispirato a una storia vera, come specifica un tag a inizio di ogni episodio, Black Bird è un thriller psicologico e nello stesso tempo una prova di attori a lenta ebollizione.

James, ex campione di football figlio di poliziotto in pensione, ricco, spavaldo e sicuro di sé, campa facendo affari con la cocaina finché non lo incastrano con una condanna durissima. Per avere un condono e potere stare vicino al padre malato nei suoi ultimi giorni, gli viene proposta una missione sotto copertura. Dovrà infiltrarsi in un carcere di massima sicurezza riservato a criminali con turbe mentali e usare le sue capacità di socializzazione per estorcere informazioni a Larry, un uomo accusato di essere un presunto serial killer di ragazzine che potrebbe essere presto liberato in appello data l'assenza di prove schiaccianti. Larry è mentalmente disturbato, mitomane, bugiardo... perverso. Jim dovrà trovare il modo di fare breccia nella psiche del vicino di cella, carpirgli informazioni cruciali, e assicurarsi che il mondo rimanga al sicuro dal suo delirio omicida...

Prodotto da Apple TV, scritto da Dennis Lehane e basato sul saggio In with the Devil, Black Bird non è un giallo in cui scoprire l'identità del colpevole, sebbene alcuni elementi possano a tratti far sorgere qualche incertezza sul reale andamento dei fatti. Tutto si basa sul confronto tra due personalità complesse. Una lucida, potenzialmente redimibile, e un'altra torbida, sfuggente, in cui bugie e verità possono diventare indistinguibili. A entrambi i protagonisti, Taron Egerton (Kingsman) e Paul Walter Hauser (Richard Jewell) sono stati candidati al Golden Globe (poi vinto da Hauser) per le loro interpretazioni. Black Bird è il crescendo ansiogeno di una partita a scacchi psicologica che si dipana per sei puntate tese come corde di violino mentre si sprofonda sempre più nella palude di una mente malata. Nel cast vediamo per l'ultima volta Ray Liotta, scomparso poco dopo il termine della serie, in una prova recitativa che ce lo farà ulteriormente rimpiangere.  




mercoledì 1 febbraio 2023

The Last of Us 1x03: Long Long Time... una riflessione

 


In genere non mi piace partecipare a certi cori mediatici. Mi riferisco a eventi della cultura pop, film e serie TV che fanno clamore e generano in rete applausi o urla di biasimo da più parti, con tutto il corredo di critiche, analisi, incensi o roghi. Ancora meno mi piace partecipare al sezionamento sistematico di ogni episodio di una serie in fase di programmazione. Lo trovo noioso, inutile e anche fuorviante come può esserlo la contemplazione di una mano, un piede, l'orecchio o l'occhio di un individuo che non hai ancora potuto percepire nella sua visione d'insieme. Ma è la rete, bellezza! Sono i social e soprattutto il lavoro di quelli che oggi si chiamano influencer. La necessità di battere sul ferro incandescente delle news più cliccate per raccogliere visualizzazioni e relativi benefici economici.

Dicevo, non mi piace... di solito. In questo caso non riesco a farne a meno. Forse perché non sono immune come credevo a certe dinamiche omologanti. Oppure perché sento il bisogno di dire la mia davanti a qualcosa che non mi ha lasciato indifferente, sento di avere in corpo qualcosa che vuole uscire... e quindi, eccoci qua.

Il terzo episodio della serie HBO dedicata alla versione in live action del popolarissimo action-adventure The Last of Us, già acclamata per le prime due puntate, sta facendo discutere tantissimo. I giudizi sono prevalentemente positivi, commossi ed entusiasti. Finora, i detrattori si posizionano ai margini di quello che sembra un grosso successo di pubblico e critica. Long Long Time, questo il titolo dell'episodio, sta trionfando mentre una bassa percentuale di spettatori arriccia il naso bollandolo come insulso filler e prodotto della cultura woke.

Devo ammettere che ho iniziato a seguire The Last of Us con una certa prevenzione, e che lo show sceneggiato da Craig Mazin e Neil Druckman mi sta conquistando un passo alla volta. Da non giocatore, ma avvertito sulle tematiche dalla popolarità pervasiva del brand, sto scoprendo poco per volta un racconto post apocalittico diverso dal solito, forse meno prevedibile dei tanti già visti, e l'episodio intitolato Long Long Time possiede quel tocco in più che lo renderebbe fruibile anche come mediometraggio avulso dal suo contesto. Quasi, se non altro.



Glissiamo, dunque, sugli stolidi mugugni contro l'inclusione, quell'orticaria reattiva alle tematiche LGBTQ+ che, presenti nella realtà quotidiana di tanti uomini e donne, a qualcuno sembrano così fuori posto nelle storie che ci raccontiamo. Nemmeno si volesse reclutarli per giocare in una squadra avversaria o forzarli a mangiare una pietanza che aborriscono.

Lasciamo da parte anche il fattore commozione, che con me vince facile per mille motivi, che è sempre soggettivo e non è prescritto da nessun medico a chi semplicemente non lo vive.

Il post è pieno di spoiler, quindi se foste tra i pochi che ancora non sono in pari con la serie, fermatevi qui.

Per cominciare, parliamo di filler, cioè quegli episodi considerati dei riempitivi nel contesto di una serie, che possono essere più o meno riusciti, ma che per la loro struttura rappresentano un intervallo nel progredire della trama generale e che a tanti danno bruciori di stomaco. Come molte parole usate di frequente nella cultura pop in ambito social, “filler” è diventato una parolaccia. Un etichetta dispregiativa da affibbiare a qualcosa di sgradevole che ci si è trovati in bocca mentre si pensava di assaggiare altro e che va sputata con fastidio se non disgusto.

E' anche una parola abusata, spesa a volte con una certa superficialità. Infatti, nel caso di Long Long Time non siamo in presenza di un filler, ma piuttosto di una digressione dal percorso narrativo principale. Espedienti che se ben gestiti non tolgono nulla alla narrazione, riuscendo addirittura ad arricchirla. Il punto è che se Long Long Time fosse davvero un filler... beh, ad averne.


La storia d'amore omosessuale tra Bill e Frank è collocata in mezzo a schegge narrative con cui risulta speculare. Il mondo di The Last of Us è ancora in formazione e quel che l'episodio ci propone sono modi differenti di reagire a una catastrofe planetaria. I gruppi istituzionali formatisi dopo la diffusione del letale fungo sono retti da un sistema autoritario che non esita a eliminare fisicamente non solo chi è infetto, ma anche chi è giudicato di troppo o non gestibile per i nuovi standard di sopravvivenza. Altrove succede qualcosa di diverso. Le reazioni umane, potenzialmente altrettanto feroci e spietate, lasciano spazio all'accoglienza e alla possibilità di una convivenza da cui può nascere l'amore di una vita. La differenza, in sostanza, tra sopravvivenza e vivere davvero.

C'è un altro aspetto di cui si dovrebbe tenere conto. E cioè che le storie non sono fatte soltanto di un insieme di eventi e neppure del grado di logica che contengono. Le storie, spesso, vanno considerate anche in base ai loro aspetti simbolici. Sono fatte per comunicare non per essere inattaccabili costrutti geometrici. Se poi sono ben scritte, e Long Long Time lo è a dispetto dei detrattori, e interpretata da attori in gamba quali Nick Offerman e Murray Bartlett, sono senz'altro le benvenute.


Bill è un prepper, uno di quei soggetti che fondano la propria esistenza sul complottismo e la preparazione maniacale a qualunque tipo di emergenza, sia essa una guerra, un attacco nucleare, un'epidemia. Per questo ha organizzato la sua casa e il terreno circostante in modo da poter sopravvivere in piena autonomia, fornito di potenti generatori di elettricità, scorte di viveri ingenti, ma soprattutto armi di ogni forma e dimensione, e tessendo tutto intorno una fitta rete di trappole. L'emergenza micotica che ha spazzato via gran parte della civiltà umana non lo trova quindi impreparato. L'evacuazione forzata della cittadina in cui vive gli dona uno splendido isolamento che gli permette di tenere lontana l'avanzata del contagio, ma soprattutto un'umanità di cui non si è mai fidato. Questo fino all'arrivo di Frank, sopravvissuto al collasso di una delle zone di quarantena e caduto, esausto e affamato, in una delle trappole di Bill.

Accogliere Frank, anche solo per poche ore e accettare di sfamarlo produce un'incrinatura nella barriera che Bill aveva innalzato intorno a sé prima ancora che la catastrofe iniziasse. Frank possiede una facilità di comunicazione che al ruvido survivalista è sempre mancata. E' arguto, creativo, amante delle cose belle e pieno di iniziativa.

Ci viene lasciato intendere che lo stesso Bill non è proprio un pozzo arido. Conserva ancora il pianoforte appartenuto alla madre, sa anche suonarlo un po' e sa leggere la musica scritta. Anche Frank strimpella il piano e la condivisione della musica rappresenta la svolta romantica di quello che è stato un incontro fatale e l'inizio di un amore che durerà tutta la vita, suggellato dalla canzone di una folk singer del passato, quella Long Long Time cantata da Linda Ronsdat che dà il titolo all'episodio.

Quel che c'è di coraggioso in Long Long Time è la scelta di affidare la luce di speranza di un'umanità allo sbando a una coppia omosessuale, un genere di relazione per molti ancora fuori dagli schemi, e in particolar modo a due uomini. Infatti, il plot dell'episodio non sarebbe nuovissimo in sé non fosse per questo dettaglio. La fiction ha preso a fare molto uso dell'amore omosessuale, ma gli spettacoli indirizzati al grande pubblico hanno spesso scelto di mettere in scena relazioni tra donne. Non è neanche difficile capire il perché. La cultura patriarcale tuttora forte è più propensa a tollerare la rappresentazione dell'omosessualità femminile, da sempre presente anche in tanta pornografia destinata a maschi etero. Portare in scena l'amore tra uomini, in un mondo dove ancora permane tanto sentire maschilista, si può definire un atto sovversivo. Ancora di più se, come nel caso di Long Long Time, vengono abbandonati determinati stereotipi e i protagonisti che si amano non sono giovani efebi, ma uomini maturi, ordinari e senza la corporatura di fotomodelli. Caratteristica che oltre a conferire maggiore verità al racconto ha portato all'immediata adozione dell'episodio da parte della comunità Bear internazionale.

La scena del primo momento di intimità tra Bill e Frank è un ulteriore atto di scardinamento. Di rado, forse mai, si era visto in televisione qualcosa del genere. Almeno non in un prodotto destinato al vasto pubblico. Due uomini barbuti, dall'aria rude, avvicinarsi nudi l'uno all'altro e scoprire le rispettive vulnerabilità. Bill è quasi vergine. Ha fatto sesso solo una volta, tanto tempo prima, con una ragazza. Probabilmente solo per scoprire che la cosa non faceva per lui. E ora, in un mondo al crepuscolo dove le sovrastrutture culturali sono crollate, rivela per la prima volta le sue vere pulsioni. Frank, più esperto ed estroverso lo guiderà, in una scena che riesce a essere sensuale e tenerissima nello stesso tempo. Una palingenesi per il personaggio di Bill, e una possibile strada di rinascita per l'umanità tutta, che all'indomani della sua caduta può scegliere di aprire la propria anima ad aspetti prima rinnegati.



L'episodio, dicevamo, non è un filler, ma un'espansione dei punti di vista. Nel corso di Long Long Time veniamo a conoscenza di come è nato il codice radio con cui Tess comunicava negli episodi precedenti, frutto dell'inventiva di Frank. Un salto temporale ci mostra che il rapporto tra i due uomini si è evoluto in qualcosa di duraturo e che la presenza del nuovo venuto ha finito con l'allargare un poco gli orizzonti del solitario survivalista. Bill continua a diffidare dagli altri. Frank invece è collaborativo e pieno di fervore. All'insaputa del compagno è entrato in contatto via radio con Tess e la frangia di resistenza al nuovo ordine mondiale. Il ménage dei due eremiti si apre dunque a due ospiti.

Tess (l'attrice Anna Torv), morta nell'episodio precedente, torna in scena in un significativo flashback in cui la vediamo in compagnia di Joel pranzare nella dimora fortificata di Bill. Quest'ultimo conserva il suo carattere ombroso, ma è chiaro che sta cambiando. Contagiato non dal fungo mortale, ma dalla vitalità che l'esuberanza di Frank ha saputo infondergli. E' l'inizio di una riluttante amicizia, qualcosa di assolutamente non previsto, ma che porterà a costruttivi baratti e a un'esistenza migliore per tutte le parti coinvolte.

Il racconto, svolto su piani temporali diversi, ci mostra Joel e Ellie nel presente, in cammino verso la casa di Bill e Frank. Un altro motivo per cui non si può considerare il capitolo un mero riempitivo, ma una cronaca a incastro che acquisterà senso compiuto nel finale.

La casa di Bill e Frank è di sicuro diventata un'oasi felice in mezzo all'apocalisse. Nemmeno l'attacco di una squadra di predoni riesce a spezzarne l'incanto. A farlo, molti anni più tardi sarà la vecchiaia e una malattia degenerativa, forse il morbo di Parkinson, che due uomini soli in mezzo al nulla, per quanto organizzati, non possono fronteggiare.

Nel gioco le cose andavano molto diversamente. Frank si allontanava, esasperato dalle manie complottiste di Bill e finiva con l'essere contagiato dal fungo. S'impiccava prima di trasformarsi mettendo fine a un rapporto che non aveva avuto lo stesso spazio della serie TV per essere compreso. In definitiva, lasciando un messaggio nettamente agli antipodi.

I tempi cambiano. Magari non proprio in meglio, ma qualcosa evolve. Mazin e Druckman lo hanno capito e hanno scelto una via diversa e un finale ottimista pur nella sua drammaticità.

Le vite di Frank e Bill finiranno insieme nel modo più romantico possibile. Frank decide di morire per non soccombere alla malattia invalidante che prolifera nel suo corpo al posto del fungo che lo ha infettato nel videogioco, ma che in sostanza rappresenta la medesima condanna in termini metaforici. Tuttavia, stavolta non morirà solo, ma in compagnia del marito. I due decidono di sposarsi e scambiarsi gli anelli al termine di una cena consumata in un'atmosfera quasi festosa. Frank ingerirà un quantitativo letale di pillole sbriciolate in una coppa di quello stesso vino che Bill gli ha offerto il giorno del loro primo incontro e si addormenterà tra le sue braccia. Bill, però, ha avvelenato l'intera bottiglia e rassicura il compagno affermando che è meglio così. Anche lui ormai è anziano e non può rimanere da solo. Ha vissuto una vita piena, grazie a Frank, e ora è il momento di andarsene insieme.


Potremmo dire che la vita di Bill prima dell'arrivo di Frank non era da uomo realmente vivo. Chiuso in una prigione dorata e nelle sue manie complottiste, si limitava a sopravvivere. Frank gli ha insegnato a vivere veramente, condividendo l'esistenza con qualcuno che amava e a essere se stesso fino in fondo. Dietro tutto questo non c'è soltanto una storia d'avventura apocalittica o una storia d'amore fine a se stessa, ma un insegnamento morale. Se vogliamo didascalico. E come nel teatro di Bertolt Brecht i personaggi sono maschere dell'esistenza cui si affidano dei significati. Significati che vanno colti.

L'isolamento di Bill è allegoria di una solitudine dettata dalla sua cultura d'appartenenza, fatta di sovrastrutture, paura e pregiudizio, non da una possibile apocalisse. Frank, che arriva dall'esterno, è la voce della novità, della capacità di rischiare, di osare e di aprirsi a una parte di umanità che potrebbe anche farti del bene se solo glielo permettessi.

Long Long Time è il racconto di un'epifania e di una nuova vita possibile in un mondo in rovina. La costruzione di un proprio paradiso che parte dall'accettazione non solo di se stessi, ma anche dell'altro. Sì, Long Long Time è una parabola pacifista.



L'ultima parte del racconto, mostra l'arrivo dei due protagonisti della serie, lasciati in disparte per la maggior parte del minutaggio. La lettera di Bill a Joel in cui gli affida le sue armi, le sue cose e lo invita a usarle a proteggere l'ormai defunta Tess spazza via ogni dubbio sulla natura di filler dell'episodio. Tutto quello che abbiamo visto, il ricordo che Joel conserverà dei suoi amici e quelle ultime parole finali, svolgeranno una funzione importante nella sua maturazione di personaggio e nel suo rapporto con Ellie. Joel si era chiuso ai sentimenti e alla vita dopo la morte di sua figlia Sarah, uccisa dai militari nei primi giorni dell'emergenza. Chiuso allegoricamente come Bill, in una fortezza psicologica in cui nemmeno il rapporto con Tess era riuscito a fare breccia. Ma qualcosa sta cambiando. Il ritorno in scena di Tess in una scena ambientata nel passato non è casuale, ma rappresenta l'importanza dei ricordi e della persistenza degli affetti perduti.

The Last of Us, dopo questo episodio, potrebbe rivelarsi nel tempo una serie antologica sui diversi modi di sopravvivere in un mondo finito. Quando si sceglie la via dell'isolamento rinunciando alla propria umanità e quando la ritrovata empatia dà un verso senso al nostro respirare.

Long Long Time non sarà il capolavoro che tanti dicono. Possibilmente non è neppure un racconto perfetto. Ma le storie non hanno bisogno di essere perfette per essere belle, per emozionare e arricchire chi le ascolta. Non ne hanno bisogno neppure le persone. E se per mille ragioni non riusciamo a commuoverci... beh, non è un dramma. Purché a emozionarsi sia il cervello se non il cuore, e ci si apra a un mondo di possibilità che possono aiutarci tutti a vivere davvero.

Chissà, se siamo fortunati, per lungo, lungo tempo.

Bravi, Mazin e Druckman.



lunedì 10 ottobre 2022

Addio a Doug Langway


 

E' con dolore che apprendo della scomparsa di Doug Langway, regista indipendente, membro della comunità LGBTQ e autore della trilogia cinematografica "BearCity", in cui volle celebrare tutti gli aspetti, i feticci, le magagne, le contraddizioni, gli scherzi e i drammi della comunità degli Orsi. Visione autoironica di un modo diverso di intendere la bellezza, la sensualità e l'amore nella più genuina chiave body positive. Era un militante e filmaker coraggioso. Lo perdiamo a soli 52 anni per un cancro al fegato contro il quale si è battuto fino allo scorso 9 ottobre 2022.

Buon viaggio, Doug. E grazie di tutto. Un abbraccio da orso.



giovedì 16 settembre 2021

DUNE di Denis Villeneuve: impressioni a caldo



 Dune. Detto così com'è scritto D-U-N-E.

Allora, per cominciare, la domanda di rito. E cioè: ti è piaciuto?
In verità sì.
Magari non mi ha entusiasmato particolarmente (ma io sono un pezzo di ghiaccio, quindi questo non conta), con qualche piccola riserva. Nel complesso, però, l'ho apprezzato. E devo anche dire che ero discretamente prevenuto.
Prevenuto per via della monumentalità del testo che prova a trasporre (e che amo). Prevenuto perché la lettura di alcune recensioni di chi l'aveva visto in anteprima avevano iniziato a confermare i miei timori. Cioè di trovarmi davanti a un prodotto ben confezionato, ma pretenzioso e sterile.
Dopo averlo visto non penso sia così. "Dune" di Denis Villeneuve è sicuramente un film ambizioso. Così come è anche un film imperfetto, che punta in alto e non centra tutti i bersagli che si propone. E' un film d'autore, e preso nel modo giusto anche un bel film d'avventura. Inoltre, sono sicuro che sarà un film che dividerà il pubblico.
Non ho riscontrato le lentezze estreme e opprimenti rilevati da altri. Ho seguito il film in modo abbastanza agevole. Forse perché mi annoiano altre cose. Magari prodotti che pretendono di essere fin troppo leggeri e spumeggianti, e mi soffocano proprio per questo.
C'è da dire, comunque, che parlo da fan. Appassionato della saga letteraria, che conosce i personaggi, gli snodi della trama ed è pronto a colmare i buchi e i dettagli appena accennati. Non saprei dire come sarà accolto il film da chi dell'opera di Frank Herbert non sa nulla. Sarà interessante scoprirlo.
Per concludere, dopo essere uscito dalla sala, l'idea di spezzare i primo romanzo (il migliore della saga, anche perché fruibile a se stante) in più capitoli non mi sembra più una cosa tanto barbara. In fondo è stato fatto più volte con altre opere. Quello che conta è la resa. Quindi perché non Dune?
A questo punto, spero solo che Villeneuve abbia la possibilità di completare l'arazzo narrativo. L'ipotesi contraria sarebbe un vero peccato.

sabato 17 aprile 2021

Antebellum

 

Siete tra quelli cui piace il "politicamente scorretto"? Che pensano sia figo?

Ok. "Antebellum", allora, è il film che fa per voi. Dico questo perché il film, opera prima del duo di registi Gerard Bush e Christopher Renz, picchia durissimo ed è politically incorrect dall'inizio alla fine. Non solo. Lo è nel modo giusto. Quello che piace a me. Quando questa visione si applica alle categorie privilegiate, forti, e non a quelle diseredate e messe in un angolo dalla storia. E' scorretto anche nel portare in scena le dinamiche del contrappasso, nel rifiutare soluzioni concilianti e nel suggerire soltanto paura e rabbia. Le etichette di genere che accompagnano "Antebellum" sono tre. "Drammatico", "Thriller" e "Orrore". Credo di potere affermare che sono tutte e tre veritiere. Il film di Bush e Renz passa da un genere all'altro senza che quasi ce ne rendiamo conto, e lo fa assestando calci nello stomaco mica da ridere. Il punto è che "Antebellum" è uno di quei film di cui non è possibile parlare veramente senza sciupare tutto. Sarebbero sufficienti quattro parole in fila per guastare l'esperienza immersiva e ansiogena che si propone. Insomma, è uno di quei film che sarebbe meglio vedere senza sapere nulla della trama. Magari anche niente dello scenario, in modo da affrontarlo e lasciarsi travolgere dai suoi sottotesti nel modo più neutro possibile. Anche se l'esperienza, se siete sensibili, può essere dura. E' stato scritto anche che il film soffre, forse, di una cifra stilistica fin troppo estetizzante. Elemento che potrebbe impoverire la forza viscerale di alcune tra le scene più disturbanti. Può darsi. Di sicuro non ci troviamo di fronte a un film perfetto. Ma io penso che "Antebellum" svolga benissimo il suo sporco lavoro di horror politico. Fa stare male. Ti resta in testa. E ti spinge a chiederti se tra le righe non ci sia tanto, troppo di corrispondente alla nostra realtà contemporanea. Una realtà che spesso ti induce a pensare che il peggio sia passato, quando il passato (come recita la citazione di William Faulkner in apertura) non muore mai, si annida tra noi, e detta l'agenda al presente in modo spaventoso.

mercoledì 3 marzo 2021

Paranormal: dall'Egitto con... terrore


«Se la mente ti fa dei brutti scherzi... Faglieli anche tu!»

"Paranormal" è una serie Netflix egiziana a tema soprannaturale, tratta da una serie di romanzi, molto popolari in patria, scritti da Ahmed Khaled Tawfik. La serie è partita in sordina, ma grazie a un discreto passaparola sta pian piano conquistando una discreta fetta di pubblico. All'estero pare essere andata molto bene, e già si discute se confermarla per una seconda stagione. Nel panorama delle serie TV (o streaming che dir si voglia), dominato decisamente dalla cultura anglofona, "Paranormal" è una proposta davvero bizzarra. Innanzitutto per la sua ambientazione, discretamente diversa da quelle cui siamo abituati, e per il modo di intendere il soprannaturale, il misterioso e l'horror, qui rappresentato riferendosi, volta per volta, a leggende popolari in Egitto, spesso mutuate anche dalla cultura greca. Il plot di "Paranormal" si fonda molto sulla caratterizzazione del suo protagonista, il dottor Refaat Ismail. Personaggio che più antieroico non si può. Medico razionalista schivo, misantropo, nevrotico, il cui mal di vivere ha origine, però, in un trauma infantile legato a qualcosa di tuttora inspiegabile. Esperienza che farà da perno all'intera serie e alle avventure, apparentemente indipendenti, ma in realtà collegate da un sottile filo esoterico, che sconvolgeranno la vita del dottore e di tutta la sua famiglia.


"Paranormal" è quindi un racconto di fantasmi, di magia e di mitologia, con sprazzi horror e una curiosa alternanza tra i toni del dramma e quelli della commedia. L'attore Ahmed Amin, che interpreta Refaat, infatti, è noto in patria per essere soprattutto un comico. Ma il suo personaggio si arricchirà di più strati di episodio in episodio, così come l'avventura si farà sempre più nera e inquietante.
Una piccola, interessante sorpresa, quindi. E' probabile che molti storceranno il naso per la povertà degli effetti visivi (non se ne può più, gente. Seguite il cuore delle storie, è importante anche quello). Eppure "Paranormal" è una perla da scoprire tra le tante proposte, fatte con lo stampino, dal colosso dello streaming. Umorismo nero, paura, personaggi ben caratterizzati. E la costruzione di una mitologia interna che, se la serie sarà confermata per nuove stagioni, promette di crescere ulteriormente. Il mondo è grande. Le storie possono essere raccontate in molti modi diversi, in contesti molto variegati. E "Paranormal" è un ottimo biglietto da visita. Auguriamoci che a questo esperimento (a mio parere riuscito) ne seguano altri altrettanto interessanti.

sabato 6 febbraio 2021

Wandavision... ipotesi sul multiverso

Ok, un commento (pleonastico e non richiesto) sull'ultima puntata (la quinta) di Wandavision lo faccio anch'io. Innazitutto... SPOILER come se piovesse. Quindi evitate di leggere se non siete in pari con la serie. . . 

Io sono abbastanza convinto che Wandavision sia pensato per fare da prologo alla nuova fase dell'intero MCU. Che cioè abbia la funzione di introdurre nuovi spunti, nuovi personaggi, nuove minacce e forse anche un nuovo trend generale. La teoria che furoreggia in queste settimane è che Wanda non sia l'unica responsabile nella creazione dell'universo bolla, ma che sia stata in qualche modo indotta a fare ciò che fa. 

Una teoria validissima, che andrebbe bene in ogni caso. Sia che l'intenzione sia quella di fare di Wanda il nuovo villain della fase 4 che farne l'innesco per l'esordio di qualcun'altro. O qualcos'altro. Si fa un gran parlare di Mefisto (o Mephisto, fate voi!). Da un lato a me sembrerebbe un arrivo ingombrante. Nelle saghe a fumetti, Mefisto operava un ruolo di retrocontinuity, ed era funzionale alla cancellazione dei figli di Wanda dal cast degli Avengers (almeno finché non si è deciso di farli ritornare, in un modo ancora più contorto, come Wiccan e Speed). Introdurre Mefisto, considerato che questi è praticamente il diavolo dell'universo Marvel (proprio il diavolo della tradizione giudaico-cristiana, ma con un look da supercriminale), a mio parere sarebbe un eccesso e farebbe pensare ad altri piani. Una decisa virata mistica per il MCU e l'arrivo di quello che (in termini di potenza e pericolosità) dovrebbe essere il nuovo grande antagonista della macrotrama. Non che questo sia da escludere, ma non mi persuade del tutto. Non così presto, almeno. 

E' sempre possibile che tutto sia da ricondurre alla follia di Wanda (e per il momento lo accoglierei come un twist drammatico accettabilissimo), ma è pur vero che nei fumetti (successivamente) lo sbrocco della strega è stato ricondotto all'intervento di altri agenti negativi (nella fattispecie, il Dottor Destino). E' plausibile anche che (come già fatto in passato) la scrittura in live action ibridi e sintetizzi temi fumettistici. Per esempio riassumendo in un unico demone dimensionale i personaggi di Chthon e Mefisto, ricordando che il primo, nei fumetti, ha svolto un ruolo nello sviluppo dei poteri di Wanda, preparandola per essere il suo tramite terreno. Vedremo quindi Wanda posseduta? Non lo escluderei, ma secondo me non immediatamente. Piuttosto nei film seguenti, di cui Wandavision rappresenterà il trampolino di lancio. 

Un altro aspetto sul quale rifletto molto è l'introduzione del concetto di multiverso. E' praticamente dichiarato, lo stiamo aspettando. Anzi, è qui. Il mio sospetto è che la scelta di rappresentare la vita idilliaca immaginata da Wanda come varie sitcom della storia della televisione, sia qualcosa di più di un semplice gioco citazionistico. Penso che possa avere una maliziosa funzione metaforica. La presentazione di una componente metafilmica e metatelevisiva che diventa simbolo del multiverso. L'arrivo di Pietro con le sembianze di Evan Peters, il Quicksilver più longevo sullo schermo, più amato e più ricordato (dopo la toccata e fuga di Aaron Taylor-Johnson in "Age of Ultron") sembrerebbe suggerirlo. E' un po' come dire tra le righe "Tutto ciò che prima era della Fox adesso è nostro, possiamo usarlo. Lo abbiamo preso da un'altra dimensione, un'altra realtà mediatica, e adesso è qui. Esattamente come Wanda attinge a dinamiche e format da sitcom televisive per vivere una vita spensierata." La battuta di Darcy Lewis («Ha dato il ruolo di Pietro a un altro attore!») avrebbe dunque una valenza pirandelliana. Sì, Pietro è tornato, ma operando uno spostamento da una dimensione dell'immaginario (cinematografico) a un'altra. Eppure è sempre lui, perché il suo ruolo è comunque quello. Se l'intenzione è questa (una lettura pirandelliana del multiverso che attinge anche a precedenti letture filmiche) sarebbe divertentissimo. E anche coerente, se ricordiamo che nei fumetti, a volte è stato teorizzato che Wanda cerca i propri desideri tra tutte le realtà possibili, e una volta individuati li porta nella propria realtà. Detto così è un'astrazione, ma il multiverso e la capacità di direzionare i suoi contenuti potrebbe diventare un modo interessante per spiegare i poteri di Wanda nella versione live action. 

Se tanto fosse vero, il tema della fase 4 potrebbe riguardare qualcosa di simile alla storica Crisi della DC comics negli anni 80, ma anche la più recente Secret War marvelliana, che dopotutto sono la stessa cosa. Una ridefinizione della realtà che sintetizza storyline, personaggi e situazioni prendendole da più universi narrativi per pianificare un nuovo status quo editoriale (o, in questo caso, cinematografico). Questo potrebbe portare gli X-Men della Fox a fare parte in qualche modo del passato del MCU, a dare per scontate le loro avventure già viste (o parte di esse) e ad andare avanti con nuove formazioni mutanti, o nuove versioni dimensionali di alcuni personaggi amati. Nella fattispecie, mi aspetto che il prossimo Deadpool vada a nozze con questo gran casino, diventando addirittura un commentatore esterno al nuovo assetto. E' tutta una menata mentale nerd, ovvio. Eppure qualche traccia esiste. Spero che il Quicksilver di Evan Peters resti con noi in futuro. Almeno occasionalmente. Non avevo gradito la sparizione repentina della prima versione del personaggio. Scelta che ci ha privati di vedere approfondire il forte legame dei gemelli Maximoff, tema che ha un potenziale notevole. Per tutto il resto... Ok. Ricordiamo soprattutto che stiamo solo giocando.

mercoledì 23 dicembre 2020

The Leftovers

 


Non so ricostruire che cosa mi abbia fatto scoprire "The Leftovers" (serie TV prodotta da HBO iniziata nel 2014 e conclusa dopo tre stagioni) con tanto ritardo. Forse perché l'anno del suo debutto per me fu particolarmente duro, e la mia soglia di attenzione in fatto di spettacolo era molto bassa. Oppure perché la serie è stata oggettivamente sottovalutata dai più, e mentre la critica e quella fetta ridotta di pubblico che aveva avuto il piacere di scoprirla la elogiava, altri brand dal fandom agguerrito facevano molto più rumore rubandole la scena. Curioso, considerando che tra le tante serie che nel corso degli anni sono state paragonate alla leggendaria "Lost", "The Leftovers" è una delle poche, forse l'unica a meritare seriamente questo accostamento. Pur trattandosi di un prodotto per molti aspetti differente, e nonostante il fatto che la mano di chi scrive, in collaborazione con Tom Perrotta, l'autore del romanzo alla base di tutto, sia quella di Damon Lindelof, cocreatore di "Lost" e suo principale sceneggiatore.

The Leftovers (sottotitolato "Svaniti nel nulla", che poi sarebbe il titolo italiano del libro di Perrotta) è veramente una strana creatura. Tutto ha inizio con la simultanea sparizione di migliaia di persone nel mondo. Una sorta di rapimento mistico (alcuni, almeno, lo interpretano così) del tutto privo di spiegazione. Evento incomprensibile e traumatico, che lascia milioni di persone alle prese con un lutto difficile da elaborare. Figli, mogli, mariti, genitori, amici, sono svaniti senza una ragione apparente. Non si ha idea di quale sia stata la loro sorte, e quello che hanno lasciato è un mondo ferito, diverso, che a tre anni da quell'evento apparentemente soprannaturale è profondamente cambiato. Lo scenario è quello di una società dove tante certezze sono state ridotte in cenere (la sparizione è un evento isolato o potrebbe ripetersi da un momento all'altro?), e dove lo shock planetario ha prodotto una miriade di nuove forme di fanatismo. Per quanto le persone si sforzino di continuare a vivere normalmente, niente è più come prima. E ognuno reagisce come può, secondo la propria storia, il proprio carattere, le proprie ferite.

Damon Lindelof fa tesoro della narrazione frammentata sdoganata da "Lost", ma mettendola al servizio di una storia più compatta (solo tre stagioni, neanche troppo lunghe). Ancora una volta siamo di fronte a un mosaico le cui tessere sono state incasinate, e anche stavolta dovremo attendere che tutti i pezzi vadano pian piano al loro posto. Ma in "The Leftovers" c'è molto più di un accattivante trucchetto narrativo. La regia è sempre molto curata, il cast superbo, e alcuni frangenti hanno il sapore spiazzante di un'opera surrealista. Un po' alla Luis Buñuel, ma a tratti assume anche toni alla Lars von Trier, intinti in un misticismo che ha qualcosa di perverso. Un romanzo corale che presenta una galleria di personaggi dai destini intrecciati, e una serie di avventure singole che si incastrano significativamente nel disegno generale, risultando in qualche caso dei piccoli film preziosi in sé.

Al tono drammatico, si mischia in modo insinuante un vago elemento grottesco (in qualche caso si potrebbe parlare di vero e proprio humor nero), accompagnato dal commento di una colonna sonora spiazzante come la stessa narrazione, fatta di scelte eterogenee, canzoni folk, opera lirica e altro ancora, che contribuiscono a conferire alla serie un alone di intrigante follia.


Un peccato che (così pare) la serie abbia finito col diventare un prodotto d'essay, mancando la ribalta e sottraendo agli attori Justin Theroux e Carrie Coon (attrice teatrale pluripremiata, e prossimamente protagonista al cinema di “Ghostbusters: Legacy”), ma anche al sempre straordinario Christopher Eccleston e a un'imprevedibile Liv Tyler, l'attenzione che le loro performance avrebbero meritato.
Una serie, dunque, della quale mi sento di consigliare spassionatamente il recupero. Aspettatevi tanti pugni nello stomaco. Ma anche un coinvolgimento che vi toglierà il sonno imponendovi di andare avanti. E di innamorarvi di ogni singolo personaggio, anche quelli apparentemente odiosi. Forse soprattutto quelli.