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giovedì 28 settembre 2017

Il ritorno di Shaka Zulu (Grazie, Netflix)


Tra i valori aggiunti della piattaforma on demand Netflix ce n'è uno che forse non sarà riconosciuto dal vasto pubblico, ma che ha un suo peso, e di sicuro – oggi – ha reso felice me.
Parlo del recupero di serie televisive d'epoca. Non preistoriche, ma che difficilmente oggi potremmo rivedere sui canali convenzionali. Titoli di nicchia, ma di grande impatto che meritano di essere recuperati, e dei quali fino a ieri non esistevano versioni sottotitolate.

Oggi, su Netflix, torna finalmente “Shaka Zulu”, serie sudafricana prodotta nell'ormai lontano 1986, trasmessa da Rai Due in seconda serata e (almeno così mi risulta) successivamente replicata solo su reti locali.
La miniserie, che presenta un cast di tutto rispetto, integrando attori britannici allora in auge come Robert Powell, Edward Fox, Christopher Lee e Trevor Howard con esordienti neri di grande talento, narra la saga di re Shaka, noto anche come il Napoleone Nero. Condottiero che nella prima metà dell'ottocento unificò la popolazione Zulu rendendola un esercito dalla potenza temibile, riuscendo a tenere in scacco per decenni le forze colonizzatrici inglesi. Un racconto epico che attinge a una pagina di storia poco conosciuta, basandosi su un romanzo di Joshua Sinclair, ma senza dimenticare gli echi del poema che alla figura di Shaka dedicò il poeta surrealista (e presidente del Senegal) Leopold Sedar Senghor.

La serie TV si apre con quello che oggi definiremmo un flashforward, identificato sin da subito dalla didascalia “Epilogo” e ambientato circa sessant'anni dopo la conclusione dell'avventura militare di Shaka. Davanti alla regina Vittoria, gli eredi dell'impero Zulu assistono al crepuscolo del loro regno, ma per lo spettatore è solo l'inizio di una saga appassionante.

Nel 1986 stavo svolgendo il servizio sostitutivo alla leva (allora funzionava così, almeno se questa era la tua scelta) ed ero impegnato a far da supporto al corpo forestale per spegnere incendi sulle montagne calabresi (le circolari ministeriali del tempo prevedevano l'allontanamento degli obiettori dal comune di residenza tanto quanto i militari di naja). Contemporaneamente, in televisione andava in onda “Shaka Zulu”. Ebbi così occasione di vedere alcuni episodi a spizzico, recuperandoli qualche tempo più tardi in replica su un'emittente locale, trasmessi a orari impossibili.

Da allora, di Shaka avevo perso le tracce. Almeno della sua versione integrale e fruibile. L'avevo a lungo cercato in rete, trovando qualche frammento su Youtube, ma senza il supporto di alcun sottotitolo. Avevo accarezzato l'idea di crearli io stesso, ma la mancanza di fonti e di una base in lingua originale affidabile aveva finito con lo scoraggiarmi. Oggi “Shaka Zulu” torna grazie a Netflix anche in italiano. Non saprei dire con certezza se il doppiaggio sia lo stesso del 1986, ma sembrerebbe di sì. E' possibile che molti storcano il naso davanti a una produzione sudafricana degli anni 80, e sarebbe un vero peccato, data la qualità del prodotto e l'interesse della vicenda storica.

Ricordo e amo la narrazione del cammino iniziale del giovane Shaka, la sua trasformazione da soggetto diseredato a leader crudele e geniale stratega. Il rapporto con la madre Nandi, vera protagonista femminile della vicenda. E la colonna sonora di Margaret Singana, popolare folk singer sudafricana. La canzone che fa da intro a ogni episodio “We Are Growing” (Noi cresciamo), così etnica e potente con le sue sonorità tribali mi era rimasta impressa nella memoria. Ricordo la scena dal sapore quasi fantasy in cui Shaka progetta e fa forgiare quella che diventerà l'arma tradizionale degli Zulu, la lancia dalla lunga lama appuntita e dal manico cortissimo. Il discorso al suo esercito sulla vanità delle guerre tra le diverse tribù, quasi “un balletto” più che un vero scontro militare, in cui le fazioni, ben distanti tra loro, si scagliavano l'un l'altro lance lunghissime senza ferirsi, e restando di conseguenza sempre in una situazione di stallo.



«Noi,» dice Shaka «gettiamo via le nostre armi, nella speranza che il nemico sia abbastanza gentile da restituircele.»

La sua nuova arma diventa invece sinonimo di morte. Il destino per i prigionieri di guerra è l'impalamento, e la ferocia di Shaka è pari soltanto al suo carisma e alla sua genialità bellica. Sotto il suo comando gli Zulu diventarono un impero che l'Inghilterra imparò a temere, e la figura di Shaka un simbolo pericoloso anche dopo la sua scomparsa.

Una storia e una messa in scena anni 80 che a mio parere non è invecchiata di un giorno, e che consiglio di scoprire a chi non era nato o era troppo giovane per apprezzarla.
Oggi si può. E per questo sono grato all'esistenza di Netflix.