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sabato 5 ottobre 2019

Martin Scorsese contro i cinecomics



A proposito della questione Scorsese vs cinecomics...

L'espressione "Non è vero cinema" andrebbe riportata con i piedi per terra. Non presa alla lettera, insomma. E soprattutto bisognerebbe imparare a non offendersi per questo genere di cose. Io non ne ho memoria, ma è stato mai detto che i cinepanettoni non sono vero cinema? In ogni caso qualcuno potrebbe dirlo. E anche in quel caso sarebbero solo parole. Perché persino i cinepanettoni sono cinema. Un brutto cinema. Un'espressione deteriore del cinema, che a lungo il botteghino ha premiato. Dire che qualcosa "non è cinema", ma anche "non è musica" o altro, è da intendere semplicemente come "non lo condivido. Non lo apprezzo. Non lo capisco. Non lo pratico. Per me la vera arte si esprime in modi diversi". E' tutto qui, e penso proprio fosse quello che Martin Scorsese intendesse dire, che lo si condivida o meno. Anche il paragone con i luna park è scontato. Quanti film kolossal, nel corso della storia, sono stati paragonati a baracconi? E' solo un modo di dire, per affermare che il proprio interesse e il proprio rispetto si focalizza su altri aspetti di quella forma d'arte. Ed è soprattutto legittimo, anche se può non piacere.
Prendete "Avengers: Endgame", film che ha emozionato molti spettatori e irritato altri. Io stesso sono un fruitore del Marvel Cinematic Universe, e per primo a mio modo apprezzo alcuni (non tutti) di questi film, compreso l'ultimo Avengers.
Eppure, se qualcuno, metodicamente, mi spiega che la sceneggiatura è piena di buchi logici e tante cose non funzionano, non posso fare a meno di dire a me stesso: «Minchia! E' vero!»
Ciò non toglie che il film possa essere apprezzato. Anche da me che ne vedo i limiti. Perché gli stessi limiti logici, le stesse pecche e contraddizioni, sono il pane quotidiano dei fumetti seriali (per loro natura caotici e pasticciati) che questi film traspongono al cinema. Richiedono la disponibilità ad accettare l'inaccettabile (parliamo di supereroi e di universo condiviso). Un tipo di sospensione dell'incredulità che non va bene per tutti. Un tipo di suggestione che ignora la logica narrativa a beneficio di altri tipi di suggestione, legati al carisma di personaggi e dinamiche che non tutti possono, e soprattutto sono tenuti, a gradire. Sentir dire pertanto che i cinecomics "non sono cinema" non è una bestemmia, non è un'offesa alle nostre madri. Ma solo una formula di chi cerca la suggestione cinematografica prevalentemente altrove. Prendiamo la frase come un classico “nun me piace 'o presepe". E ricordiamo che c'è gente, ancora oggi, che dice che certi tipi d'amore non sono vero amore. E certi tipi di famiglia non sono una vera famiglia. E questo, se permettete, è veramente grave e richiede la nostra attenzione. Cerchiamo di dare il giusto peso alle cose e a prendere i diversi modi di fruire il cinema con più leggerezza.

mercoledì 2 gennaio 2019

Aquaman (ma non è proprio acqua...)



Aquaman, di James Wan. 2018.
Forse la DC/Warner ha capito che doveva cambiare strada. Probabilmente ha pure scelto la direzione giusta. Dico “probabilmente”, nel senso che la direzione intrapresa non coincide necessariamente con una qualità elevata dei film, ma possibilmente con un prodotto vincente al botteghino e soprattutto nell'ambito del merchandising. I bambini entrati in sala con in mano i giocattoli raffiguranti i personaggi del film qualcosa devono significare. E del resto l'Aquaman di James Wan, inutile nascondersi dietro un dito, parla soprattutto se non esclusivamente a loro. Oltre ad avere la valenza di un lungo, interminabile spot pubblicitario.

Ma è davvero così brutto?
Mettiamola così. Il film dovrebbe parlare di mare, di oceano, di acqua, insomma. L'elemento acquoso è parte costituente della materia dell'avventura e del nome dell'eroe protagonista. Ma la sensazione che ho avuto per tutta la sua (tediosa) durata di circa due ore e mezza, è stata quella di nuotare faticosamente in un minestrone dove a ogni bracciata emergeva un ortaggio diverso. Stantio, per giunta, e trafugato da zuppe già cotte in passato. A volte anche molti anni fa, e recuperato per l'occasione. Un minestrone che cerca di fondere avanzi di film per ragazzi di più generazioni, forse nel disperato tentativo di azzeccare almeno un sapore che sia apprezzabile. E – orrore – i risultati al botteghino e il plauso degli sbarbati sembra premiare questo sforzo di riciclaggio.

Qualcosa non va. Qualcosa non va affatto, se un film di quasi 70 anni fa come il “20.000 leghe sotto i mari” di Richard Fleischer, con i suoi trucchi rudimentali, conserva più poesia e forza ipnotica di questa baracconata che definire kitsch è un complimento. James Wan, dopo essersi fatto un nome nell'ambito dell'horror, si era prestato a prove alimentari nell'action, e qui fallisce alla grande su tutta la linea. Va da sé che la componenete visiva del mondo sottomarino avrebbe dovuto farla da padrone, ma se questo luna park volgarissimo e carnevalesco piace al vasto pubblico, a questo punto mi chiedo che cosa ne avrebbe tirato fuori qualcuno come Baz Luhrman. Il barocco di Atlantide ferisce gli occhi e ricorda (in una versione povera, pessima e svilente) i giochi di estetica pop di Pierre et Gilles, al servizio di un'espressione artistica ben più nobile. Là era la cultura LGBT ammantata di preziosismi grafici. Qui abbiamo solo Jason Momoa che a ogni sequenza sembra stare pubblicizzando uno shampoo o un deordorante per maschi alfa. Questo quando non elargisce battute salaci che sembrano uscite da un film anni 70 di Terence Hill e Bud Spencer, che quello è il livello e molto probabilmente il redivivo target.

La pretesa da film epico naufraga sin dai primi minuti. Con l'ammorbante prologo servito con immancabile io narrante a corredo. Una storia di origini accennata, schematica, frettolosa, noiosa. I tempi e il modo di fare spettacolo cambiano, ok. Ma si auspica che si evolvano. Un tempo esisteva una cosa chiamata atmosfera e un'altra chiamata crescendo per costruire l'epicità. Semplicemente non puoi... NON PUOI in un film che dura DUE ORE E MEZZA, servirmi un prologo striminziti ed esangue con tanto di spiegone delegato alla voce fuori campo. Non puoi, CAZZO. E' semplicemente un insulto. All'estetica del cinema, alla narrazione, al fumetto, al pubblico...

Ah, sì. I giocattoli non si vendono da soli.

Sorvolando sul villain Black Manta, infilato nel film a forza senza ausilio di lubrificante alcuno. Personaggio cui è attribuita l'origine e le motivazioni più insensate che cinecomics abbia partorito, senza spoilerare, e consacrandole con una battuta del protagonista sotto finale che ti va venire voglia di prenderlo a sganassoni esattamente quanto e più della sua nemesi. Sì, a quel punto anch'io diventerei volentieri Black Manta e cercherei Aquaman per farne neonata fritta (che per di più neanche mi piace mangiare).

Il film distribuisce le sue carte in modo lento e soporifero saltando da un modello a un altro. In parte mi è sembrato di ritrovarmi a guardare gli orrendi Batman di Joel Scumacher, ma se non fosse abbastanza, andando avanti il film rivela parentele anche con il Flash Gordon di Mike Hodges del 1980. In molti punti arraffa pure da “Il viaggio fantastico di Sinbad”, bel film per ragazzi del 1973 con i trucchi di Ray Harryhausen (altro esempio di cinema “vecchio” da riscoprire a dispetto di questi strillanti neonati blockbusters). Attraversa tutto il franchising di Indiana Jones scomodando pure “La spada nella roccia”. E per concludere... Jason Momoa si dimentica di stare recitando Aquaman e si trasforma in Sandokan.

E qui ricordo la frase celebre di un mio amico negli anni 70, riferito ai propri figli davanti allo sceneggiato di Sergio Sollima: «Hai visto Sandokan? E' meraviglioso! Fa impazzire i bambini!»

Esatto. La frase più importante è proprio questa. Questo è il senso del minestrone. Questo è il senso del film. Questa è la virata, possibilmente vincente sul piano commerciale, della DC/Warner. I bambini gradiscono. I bambini applaudono. I bambini comprano i giocattoli.

E alla fine che cosa vuoi dirgli? Protestare perché il film ti annoia e ti fa sanguinare gli occhi?
Non è destinato a te, fattene una ragione. Noi lettori di fumetti dobbiamo rassegnarci. Questi prodotti non parlano con noi. Conclusa la fase pseudoadulta (in realtà solo depressa) dettata da una cattiva interpretazione della lettura nolaniana di Batman, la DC/Warner vince al botteghino scegliendo di parlare a una platea infantile. I nerd (e gli appassionati di comics) saranno anche stati sdoganati. La loro visione, un tempo di nicchia, è diventata cultura di massa. E così facendo è diventata oggetto di un mercato fuori controllo, inutile aspettarsi qualcosa di diverso. Giusto? Sbagliato? Come che sia è un dato di fatto. Inutile anche rammaricarsi. E' più triste intravedere la bellezza sfiorita di Nicole Kidman nascosta a stento da una chirurgia plastica che anziché aiutarla a restare giovane fa sembrare che nasconda le sue rughe sotto una plasticosa maschera trasparente. Vedere tanto dispendio di stars, di talento, di mezzi. E uscire dal cinema pensando che i problemi veri sono altri. E che questo film non è riuscito a farteli dimenticare neppure per dieci minuti.
Per quanto mi riguarda, questo è il vero fallimento.
E a fronte di questo, vedere padri di famiglia (non ragazzini, ma genitori ultratrentenni) che senza conoscerti trovano il tempo di venire a insultarti sul tuo profilo social, a dirti che non capisci un cazzo e sei ridicolo, perché hai osato criticare un film che loro hanno apprezzato, neppure gli avessi insultato la madre, è un fenomeno fottutamente inquietante.
Meditiamo.






mercoledì 16 maggio 2018

Deadpool... fa centro di nuovo

Visto "Deadpool 2". Delizioso connubio di demenzialità, fumettosità, metatestualità. Un film avventuroso-fantastico in cui la trama conta pochissimo e tantissimo la forma. E il pubblico del Metropolitan Multisala di Palermo conferma la sua (inquietante?) nuova consuetudine di applaudire alla fine del film. Ma per essere divertente... lo è un fracco. E Ryan Reynolds è nel ruolo della sua vita.

lunedì 30 aprile 2018

Logo Mono: Ripensando a Infinity War


Un vlog (non una recensione) a ruota (più o meno) libera sul cinecomic del momento: “Avengers – Infinity War”. La costruzione del Marvel Cinematic Universe ha raggiunto il suo apice. Se una fetta di pubblico applaude, l'altra sembra molto perplessa. Perché? Forse è il caso di tirare qualche somma e chiedersi che cosa si propone davvero un progetto di universo cinematografico condiviso.

venerdì 27 aprile 2018

Infinity War... mi ha avuto!



Ok, stavolta lo faccio anch'io. Insomma, mi omologo. Però almeno ho aspettato di finire di vedere il film e tornare a casa per condividere. Ho cercato di rimanere razionale. Ma ho lo stesso imprinting di tanti altri ed è inutile negarlo. Ammetto che ero un po' scettico. Ma alla fine “Infinity War” mi ha avuto. Mi ha preso, mi ha posseduto e mi ha spinto a dire «Sono tuo.» Probabilmente, è il film del MCU che meno piacerà al pubblico generalista. I crossover, gente! Le lunghe saghe, gente! I riferimenti al prima, al dopo e a quanto rimane ai margini. Tutta roba che con il cinema puro c'entra pochissimo, ma che rappresenta una delle più riuscite forme di trasposizione di un immaginario fumettistico su grande schermo, mettendo d'accordo tre generazioni di appassionati. Per questo l'età in sala era così variegata. E per questo c'era un religioso silenzio e persino un imbarazzante applauso alla scena dopo i titoli di coda. Non parliamo di capolavori, per favore, ma di una frontiera dell'intrattenimento che gioca sulla nostalgia dei più maturi, l'attenzione dei giovani in corsa e la curiosità innocente dei più piccoli. Una macchina macinasoldi il cui successo commerciale, se non altro, è comprensibile.

domenica 8 aprile 2018

Torna LEGION (la seconda stagione)



L'inizio della seconda stagione conferma tutte le premesse di "Legion". E cioè che ci troviamo davanti a un titolo di origine Marvel decisamente atipico per approccio ed estetica al modo di raccontare i supereroi (o a essere fiscali, i mutanti). Collocato fuori dal canone cinematografico degli X-Men (ma neppure tanto, perché alcuni riferimenti sarebbero perfettamente in linea, ma sono soltanto mantenuti ai margini del non detto), "Legion" è una serie TV che meriterebbe un'attenzione maggiore e che dimostra il vero potenziale che il genere supereroistico avrebbe se solo si mollassero gli ormeggi dell'intrattenimento più collaudato. 


L'annuncio del film sui "Nuovi Mutanti" suggerisce una chiave di lettura horror del mito fumettistico, ma la verità è che questa strada è già stata aperta da "Legion". Il tema della psicosi e della schizofrenia fornisce una chiave allucinatoria per parlare di poteri strani, di complotti labirintici e per portare in scena personaggi visivamente bizzarri, senza chiarire mai del tutto se quello cui assistiamo ha una valenza metaforica, se è reale o frutto di uno dei deliri della personalità frammentata del protagonista. Su tutto aleggia inoltre l'ombra di David Lynch (ma anche di Jodorowsky), premendo il pedale della surrealtà e del viaggio psichedelico più che su quello del superomismo. La memoria torna alla serie britannica degli anni 60 "Il Prigioniero", pur con le sue differenze, per il senso di enigma e di sogno disperato che riusciva a comunicare. Determinanti, in questo, gli ammiccamenti ai fans più attenti, con la rivisitazione delle nayadi di Stepford (personaggi inquietanti creati da Grant Morrison durante la sua run) e il filo conduttore del Re delle Ombre che getta una luce ambigua su ogni parte del racconto.
"Legion" è un prodotto coraggioso, che merita molto pubblico in più, e che ci auguriamo decolli e continui a crescere.




mercoledì 28 marzo 2018

Otouto No Otto - Il marito di mio fratello: la miniserie

"Otouto No Otto" ("Il marito di mio fratello") dal manga di Gengoroh Tagame a una deliziosa miniserie in live action. Per un lavoro a basso budget (ma non necessitava di niente di più), una delle opere ispirate a un fumetto che sto apprezzando di più, con buona pace di superpoteri e tute colorate.
Un solo problema. Mi sta facendo piangere come una fontana.





martedì 20 febbraio 2018

Purché siano pantere...


Ieri ho visto "Black Panther". Arrivo al cinema, scorgo da lontano una lunga fila che arriva fino all'esterno e mi sento gelare. Poi scopro che è tutta per "50 sfumature di rosso" e mi rassicuro un po' (per la mia fobia della folla in sala. Per l'umanità, meno). Noto che molte sono donne che hanno superato la mezza età, ma non ho voglia di perdermi in analisi sociologiche. In sala (guarda tu) mi trovo seduto accanto a una coppia di coniugi settantenni. Mi scopro a pensare "Non avranno sbagliato ingresso?". Lui attende il film giocando a solitario sullo smartphone. Poi partono i trailer. Soprattutto quello di "Avengers: Infinity War". Quando lo spot finisce lui commenta tra i denti "Minchia, fino ad Aprile dobbiamo aspettare". Alla fine inizia il film. Lui ripone lo smart e segue diligentemente. La moglie ogni tanto commenta qualcosa e lui "Sì, sì. Ma ora stai zitta.". Hanno seguito il film attentamente e con passione, ridacchiando tra loro e commentando qualche scena. Il film? Caruccio. Vagamente atipico. L'ambientazione africana e il contrasto tribale-tecnologico gli conferisce una curiosità in più. Ma la ricetta (ameno per me) mostra la corda, e risulta comunque fin troppo prevedibile. Presentazione dell'eroe. Inizio dell'avventura. Lo scontro centrale. La caduta. La rivincita. Il trionfo. Magari sto invecchiando. Ma accanto ho seduti due esempi di irriducibile nerdaggine. Quindi alla fine: Viva le pantere. Grigie.

domenica 19 novembre 2017

Marvel's The Punisher: Prime impressioni...

Devo ammettere che ero abbastanza prevenuto sulla serie Netflix dedicata a "The Punisher". Il debutto del personaggio, stavolta con il volto dell'attore John Bernthal, nella seconda stagione dedicata a "Daredevil" era stato molto convincente. Ma puntava tutto sulla scelta di affidargli un ruolo da antagonista e non, a differenza dei tre film precedenti, da protagonista assoluto. Questo permetteva un'introduzione graduale di Frank Castle e un crescendo che permetteva di empatizzare con il personaggio nonostante gli aspetti estremi. Dimostrazione che gli adattamenti seriali di stampo televisivo, quando parliamo di alcune trasposizioni dai fumetti al live action, funzionano meglio (almeno per gli appassionati delle controparti cartacee) se centellinate sul piccolo schermo che sintetizzate su quello grande. Ma the Punisher è un personaggio difficile da adattare. Troppe le parentele con icone cinematografiche abusate, tra cui troviamo i vari giustizieri della notte, Rambo e relativa progenie. Una cosa - pensavo - è vedere intrecciare la sua storia a quella del diavolo di Hell's Kitchen, con un parallelismo tra due differenti visioni di giustizia. Altro è narrarlo da solo, abbandonandolo alla consueta orgia di violenza. Beh, forse (dico forse) non è così. Almeno dalle prime tre puntate, la strada imboccata sembra prendere le distanze dal modello sparatutto che avevo paventato. Ed è possibile che proprio questo diventi l'elemento che deluderà alcuni fans di Frank Castle, che magari attendevano qualcosa di diverso. L'azione e la violenza (che non mancano, eh!) si fanno attendere e sono dosate nel corso di una narrazione noir dove ha molta importanza una battaglia mentale, fatta di sotterfugi, interazioni, rivelazioni, e dove gioca un grosso ruolo l'arrivo del personaggio fondamentale di Micro.
L'alternanza temporale e gli inserti onirici che rappresentano l'origine (più complessa di quello che sembrava) e l'ossessione di Frank Castle, permettono ancora una volta di calarsi nella mente di un personaggio sfaccettato, e non di un'ottusa macchina di morte (che in ogni caso esiste, e quando scatta fa veramente paura). Un Punisher, dunque, riflessivo e misurato, ma in senso buono, se la serie conserverà questa scelta ritmica (anche se è probabile che a un certo punto inizieranno le mitragliate e tutto bruci, bisogna vedere con quale conto alla rovescia). Un Punisher, oltretutto, più marvelliano di quelli visti finora. E non soltanto per la presenza di Karen Page o l'inserimento del già citato Micro. Una serie di inside joke e riferimenti potrebbero far sorridere i Marvel fans. Non sono indispensabili, ma siamo pur sempre di fronte a un prodotto di ispirazione fumettistica. E stavolta, più delle precedenti, si guarda parecchio alla fanbase. Vedremo come procederà. Per adesso lo sto apprezzando più delle ultime produzioni Marvel's Netflix. Magari sono in controtendenza, o i prossimi episodi mi faranno cambiare idea, considerato che ormai difficilmente mi entusiasmo per questo genere di prodotti.
Per il momento, mi sento solo di dire, come fa uno dei personaggi: «Bentornato, Frank!»

giovedì 24 agosto 2017

Dylan – Dream of the Living Dead


C'è poco da fare. Sembra che Dylan Dog sia destinato a vivere più nei sogni e negli sforzi dei fans, con tutti i limiti del caso, che in una grossa produzione televisiva e cinematografica. Inutile continuare ad accanirsi contro il pessimo film statunitense con Brandon Routh. Quello semplicemente... non era Dylan Dog. Ancora meno di quanto Ben Affleck fosse Daredevil nel film del 2003 e in seguito Batman nel controverso “Batman v. Superman”, diventato ormai un vero e proprio simbolo dello snaturamento possibile nel passaggio dalla carta allo schermo.

Ricordiamo anche che una trasposizione “ufficiale” risente di una serie di paletti legali. Le norme sul diritto d'autore variano da paese a paese, e in America la “maschera” di Groucho Marx non può essere riprodotta senza sborsare una cifra astronomica. Ragione per cui, il personaggio è stato rimosso dal film in cui Routh interpretava un “omonimo” del personaggio creato da Tiziano Sclavi.

Uno scoglio simile hanno dovuto affrontarlo (anzi, circumnavigarlo) la crew austriaca che ha prodotto “Dylan - Dream of the Living Dead”, un mediometraggio – anche questo senza scopo di lucro – che si propone come un possibile Pilot di una serie. E' stato infatti necessario modificare i nomi e alcune caratteristiche dei personaggi principali per non incorrere in spiacevoli incidenti legali. Ma le varianti non pesano (anzi, alcune sono pure divertenti e riescono a farsi accettare con simpatia), e l'atmosfera generale riesce a rendere con grande rispetto la “mitologia” dell'indagatore dell'incubo, anglosassone per scelta narrativa, ma di anima italianissima.



Dopo “La morte puttana” di Denis Frison, “Il trillo del diavolo” di Roberto D'Antona e “Vittima degli eventi” di Claudio Di Biagio e Luca Vecchi (cui si aggiungono tanti altri esempi amatoriali meno noti), ecco dunque questo ulteriore omaggio a un'icona fumettistica che, sebbene la sua vita editoriale stia patendo il fisiologico invecchiamento e gli immancabili lifting, resta e resterà stampato nell'immaginario di molti lettori di più generazioni. Dylan Dog, come recitava uno strillo pubblicitario della stessa casa Bonelli tempo fa, è ormai un mito moderno.

Il regista Kevin Kopacka e la sua squadra dimostrano una profonda conoscenza della materia che affrontano (Kopacka firma anche i divertenti dialoghi insieme con Alex Bakashev) e la scelta non si discosta (giustamente) da quella fatta dai fimaker italiani che si sono già immersi nel mondo di Dylan. E cioè dall'intento di creare una sintesi del suo universo, condensando in un tempo limitato personaggi, citazioni, scene iconiche, e il surrealismo che permette di rompere ogni logica e avventurarsi nel territorio della fantasia più sbrigliata. Insomma, il Dylan Dog più classico. Anche se qui è chiamato Dylan Dawn. Anche se Groucho (che non è Groucho) è un attore asiatico (ma in qualche modo riesce a essere Groucho lo stesso), Bloch è tutto sommato Bloch, e la Trelkovsky...

No, questo è meglio che lo scopriate da soli. Noi abbiamo trovato questa lettura fottutamente divertente e azzeccatissima.

I precedenti fanmovies avevano i loro pregi e difetti. Chi più chi meno. “La morte puttana” era un grosso sforzo produttivo per un'opera amatoriale, che riusciva a inanellare una quantità di citazioni, e sostanzialmente vedeva il suo neo più grande in una durata forse eccessiva. “Il Trillo del Diavolo” era un'opera più breve e diversa. Riuscita, ma che forse sacrificava troppo la componente ironica al gusto estetico. Un discorso a parte meriterebbe “Vittima degli eventi”, progetto che si proponeva (anche in quel caso) come pilota di una serie di cui, allo stato delle cose, non si ha notizia. Anche in quel caso il lavoro svolto puntava alla sintesi di icone e atmosfere, sebbene la trasferta romana di Dylan non riusciva a convincere del tutto.


“Dylan – Dream of the Living Dead” accentua la componente onirica e “meta” presente negli esperimenti precedenti. Potremmo anche dire che la esaspera (in senso positivo) e produce un piccolo incubo fumettistico di trenta minuti dove non conta quello che viene narrato, ma il modo in cui lo si narra. E' probabile che il trend contemporaneo dei cinecomics miliardari induca molti lettori di fumetti a storcere il naso davanti al budget contenuto e a certe soluzioni artigianali. Ma torniamo al punto di partenza. Il cinema, i professionisti, non hanno certo mostrato di saper fare di meglio. E per un vecchio lettore italiano calarsi, sia pure per poco, nelle classiche suggestioni ideate da Tiziano Sclavi, in un racconto composto da un intreccio di incubi, morti viventi e continue citazioni può essere molto piacevole. Gli attori se la cavano in modo più che diligente, i dialoghi sono ben confezionati. E... quel prologo? Pochi minuti che già contengono buona parte del mondo dylaniato. Dylan e Groucho, quelli “veri”, che non vediamo in faccia mentre si preparano a guardare questo inusuale prodotto austriaco che li riguarda, i loro commenti, le loro allusioni... colgono già tutto quel citare e la volontà di ibridare i codici che è stato alla base del successo del fumetto di Sclavi nell'ormai lontano 1986.

Forse qualche omaggio alla cultura italiana può risultare ingenua (ma neppure tanto, dopotutto). E non è affatto male sentirsi rappresentati dal ricorso a uno dei nostri massimi cantautori (ed evitiamo spoiler). Insomma, “Dylan – Dream of the Living Dead” è un mediometraggio amatoriale godibilissimo, visibile su Youtube con sottotitoli in italiano, che merita di vedere premiati i suoi sforzi. Se non altro con un sonoro applauso di incoraggiamento e l'augurio di fare sempre meglio. Non è detto che il destino di Dylan Dog sia in una serialità live action. Possibilmente è meglio accontentarsi di one shot che ne riassumono la poetica e le suggestioni. Parere personale, ovviamente. Poi è tutto da vedere.

Complimento, intanto, a Kevin Kopacka e ai suoi collaboratori per il gradevole lavoro svolto. Vedere appassionati così creativi con i loro poveri mezzi, scalda il cuore.
Vi pare poco, Giuda ballerino?!

venerdì 14 luglio 2017

Rocket Balloon 09: Sogno di una Notte di Mezza Estate


Finale di stagione di Rocket Balloon prima della pausa estiva. Si parla di Wonder Woman (storia fumettistica fino al recente film diretto da Patsy Jenkins). Spider-Man: Homecoming, l'Animal Man di Grant Morrison e i suoi esperimenti metafumettistici. E per concludere: quattro chiacchiere su Shin Godzilla di Hideaki Anno.
Per commenti, suggerimenti, domande: rocketballoonruntime@gmail.com

sabato 8 luglio 2017

Tornando a casa (dopo aver visto Spider-Man: Homecoming)


Allora... Tom Holland è sicuramente UN Peter Parker, e il suo UN Uomo Ragno (fatico ancora a chiamarlo Spider-Man) godibilissimo. Insensato sarebbe il confronto con le versioni precedenti. E questo a prescindere dal valore che si possa, voglia attribuire a ciascuno dei film in questione. Mi sembra inopportuno anche commentare come "questo è il vero Uomo Ragno" o "non è il vero Uomo Ragno". Anche questo da applicare a tutti i film del franchise. L'Uomo Ragno, come molti altri personaggi iconici, ha tanti aspetti e tante possibili letture. Le hanno avute personaggi come Robin Hood, Zorro, Sherlock Holmes. Non è diverso. Ogni lettura può scegliere di sottolineare un aspetto piuttosto che un altro. Pertanto è il caso di dire che si apprezza più l'uno o l'altro, non che uno sia "vero" a dispetto di altri "falsi". Non in questo caso almeno.
L'unico reale difetto di Spider-Man: Homecoming, di per sé un film simpatico e abbastanza riuscito, è la sua natura derivativa. Due versione ancora recenti alle spalle, e soprattutto la necessità, lo volontà progettuale di creare una nuova lettura del personaggio per inserirlo nell'universo condiviso del MCU. Ormai il protagonista può fare a meno di narrare la sua genesi, e anche di diversi comprimari importanti. La cosa rilevante è incastrarlo nel quadro generale. E questo forse è il tasto dolente (per alcuni, per me). E' un film divertente, ma che esiste in quanto tessera di un gioco del Domino che da sola non può stare in piedi. Non potrà mai essere il film definitivo sull'Uomo Ragno, in quanto non è fruibile senza aver visto le pellicole precedenti. Questo vale tanto per i fans che per (ancora peggio) lo spettatore occasionale. Accettiamo questa nuova logica televisiva traslata al cinema. Attualmente tiene commercialmente banco, e negarlo è inutile. Ormai è come seguire un serial TV su grande schermo, con vari spin off, e tempi molto più lunghi. Altro da aggiungere, nel bene o nel male, riguardo Spider-Man: Homecoming non è realmente necessario.

venerdì 2 giugno 2017

Wonder Woman: niente estremismi, please...


La visione di "Wonder Woman" di Patty Jenkins forse dovrebbe ricordarci che tutti i cinecomics hanno almeno un filamento di DNA in comune. Tutto sta a vedere con che cosa si intreccia. Se non sei troppo piccolo da meravigliarti davanti a tutto, se per te tutto non è nuovo e quindi sorprendente, è normale ridimensionarlo parecchio. A scanso di equivoci, il film della Jenkins risulta piacevolissimo se visto o con occhi di bambino o con occhi di maturo appassionato di miti, leggende, fiabe, fumetti, cinema. Con lo spirito di chi ama sentirsi raccontare mille volte una storia che già conosce, purché il narratore abbia una voce abbastanza musicale e un modo sufficientemente accattivante di raccontare. Senza sperticature, con qualche goffaggine (l'estetica del rallenty ha ormai stuccato gli zebedei), e cadute di ritmo di un film forse troppo lungo, "Wonder Woman" funziona quanto basta. Funziona nella sua profonda, fisiologica imperfezione. Funziona perché ti scopri in grado di anticipare persino le battute che i protagonisti pronunceranno alla fine, la sequenza finale stessa, già vista decine e decine di volte. Eppure il film ha un cuore, sebbene non diverso da molti altri. In qualche momento batte, persino.

Le origini mitologiche sono un mix dell'epoca post Crisis e del rilancio dei New 52 (con una rivelazione comunque prescindibile). Un film d'avventura fantastica a suo modo gradevole, e che può essere apprezzato da chi ha amato la principessa amazzone nella versione di George Perez. Gal Gadot, statuaria e neppure troppo inespressiva, a mio avviso, si è meritata di essere identificata con Diana. Insomma... non si danno voti a un film del genere. Probabilmente, alcuni dei bambini presenti in sala lo ricorderanno come uno dei film più intensi della loro infanzia. Gli adulti meno. Ma come scriveva Antoine de Saint-Exupery: non tutti i grandi ricordano di essere stati piccoli. Il trucco è tutto lì.

lunedì 22 maggio 2017

Rocket Balloon - Episodio 8: Io sono... Rocket!


Rocket Balloon Episodio 8: Giuseppe Saso e il sottoscritto stavolta vi parlano dei Guardiani della Galassia, delle loro origini fumettistiche e delle varianti nei loro due film di successo. Dell'evento Marvel "Secret Empire" che in America "incendia" letteralmente animi e albi. Sense8 giunto alle seconda stagione e le sue parentele con il romanzo di Theodore Sturgeon "Nascita del Superuomo", gli X-Men e il concetto di mutante. Si torna a parlare di Kazuo Umezu e del suo manga shonen horror finalmente arrivato in Italia. E per concludere, Hiroiko Haraki e le avventure generazionali di Joe-Joe. Con tanta musica nel mezzo. Un ringraziamento a Renato Scozzari che ci ha "regalato" in anteprima il suo brano per trasmissione e podcast.

giovedì 16 marzo 2017

Rocket Balloon - Episodio 6: Questione d'Image...


Dopo un'assenza dovuta a fattori di forza maggiore, ecco tornare Rocket Balloon con la sua sesta puntata della prima stagione. Già andata in onda su Runtimeradio.it  e ora disponibile in formato podcast su Spreaker. Gli argomenti sono densi: l'avventura della Image, dall'esodo di alcuni artisti Marvel e delle anatomie impossibili di Rob Liefeld, all'invasione dei Morti che Camminano passando per Invincible. Si bighellona un po' tra fumetto, cinema e TV, parlando anche di Lego Batman, Legion e naturalmente... Logan. Finalmente dialoghiamo con chi ci ha scritto, e si discute anche de L'attacco dei giganti e delle opere controverse di Miguel Angel Martin. Insomma, una puntata di ritorno abbastanza cicciosa.
Ricordo a tutti che potete scriverci, porci domande e fornire spunti scrivendo una mail all'indirizzo: rocketballoonruntime@gmail.com. 
Difendete sempre i vostri sogni e restate con noi. Perché c'è sempre un Altroquando.


giovedì 22 dicembre 2016

Rocket Balloon Speciale Natale

Ascolta Rocket Balloon Ep 4: SPECIALE NATALE" su Spreaker.

In occasione delle feste natalize, ecco il primo speciale di Rocket Balloon dedicato al Natale, qui in versione podcast su Spreaker (dove è possibile recuperare l'intera serie della trasmissione). Si parla ovviamente di fumetti a tema Natalizio, ma anche di cinema (natalizio), di incarnazioni più o meno trasgressive di Babbo Natale e persino del recente trailer di Spider-Man: Homecoming, che riporterà l'Uomo Ragno al cinema con il volto del giovane attore Tom Holland. Il tutto servito da Runtimeradio.it e sempre condotto dal sottoscritto e dallo spumeggiante Peppe Saso. 
Buon ascolto e buone feste.

mercoledì 14 dicembre 2016

Comicsintesi


La parola chiave è "sintesi" (o se preferite "comicsintesi"). Qui (tavole da "Doctor Strange: Il Giuramento" di Brian K. Vaugha e Marcos Martin) vediamo l'Infermiera di Notte curare Stephen Strange guidata dalla sua essenza astrale. Sequenza citata nel recente film di Scott Derrickson. La sintesi (o comicsintesi) non è nuova nella produzione Marvel cinematografica. Christine Palmer (nome del personaggio che ama Strange nel film) è stato uno dei nomi dell'Infermiera di Notte storica (che ne ha cambiati tanti dalla Golden Age a oggi). Serviva un'interazione umana, una relazione sentimentale e una scena forte. Hanno scelto questa e quel nome. Eppure vediamo l'Infermiera di Notte agire nell'universo parallelo, ma separato della Marvel Netflix, con un'altra interprete e un'altra identità. Ma si chiama Claire Temple, come il medico che è stata per un po' la compagna di Luke Cage, e non Linda Carter (sì, come la storica interprete di Wonder Woman, ma questa è un'altra storia) come è chiamata attualmente nei fumetti. In altre circostanze, il cinema ha creato comicsintesi (e va bene, questa parola l'ho inventata io) simili. Come la Rogue degli X-Men nell'universo Warner, che si presenta come un ibrido tra Rogue e Kitty Pryde (poteri, caratteri, relazioni) nonostante il personaggio di Kitty fosse presente ma con molta meno rilevanza. La stessa cosa si potrebbe dire del villain di Iron Man 2, dove Mickey Rourke impersona un avversario metà Colpo di frusta e metà Dinamo Cremisi. Sicuramente in questo momento me ne sfuggono altri, ma sono certo che prossimamente vedremo molte altre comicsintesi così.