Aquaman, di James Wan. 2018.
Forse la DC/Warner ha capito che doveva
cambiare strada. Probabilmente ha pure scelto la direzione giusta.
Dico “probabilmente”, nel senso che la direzione intrapresa non
coincide necessariamente con una qualità elevata dei film, ma
possibilmente con un prodotto vincente al botteghino e soprattutto
nell'ambito del merchandising. I bambini entrati in sala con in mano
i giocattoli raffiguranti i personaggi del film qualcosa devono
significare. E del resto l'Aquaman di James Wan, inutile nascondersi
dietro un dito, parla soprattutto se non esclusivamente a loro. Oltre
ad avere la valenza di un lungo, interminabile spot pubblicitario.
Ma è davvero così brutto?
Mettiamola così. Il film dovrebbe
parlare di mare, di oceano, di acqua, insomma. L'elemento acquoso è
parte costituente della materia dell'avventura e del nome dell'eroe
protagonista. Ma la sensazione che ho avuto per tutta la sua
(tediosa) durata di circa due ore e mezza, è stata quella di nuotare
faticosamente in un minestrone dove a ogni bracciata emergeva un
ortaggio diverso. Stantio, per giunta, e trafugato da zuppe già
cotte in passato. A volte anche molti anni fa, e recuperato per
l'occasione. Un minestrone che cerca di fondere avanzi di film per
ragazzi di più generazioni, forse nel disperato tentativo di
azzeccare almeno un sapore che sia apprezzabile. E – orrore – i
risultati al botteghino e il plauso degli sbarbati sembra premiare
questo sforzo di riciclaggio.
Qualcosa non va. Qualcosa non va
affatto, se un film di quasi 70 anni fa come il “20.000 leghe sotto
i mari” di Richard Fleischer, con i suoi trucchi rudimentali,
conserva più poesia e forza ipnotica di questa baracconata che
definire kitsch è un complimento. James Wan, dopo essersi fatto un
nome nell'ambito dell'horror, si era prestato a prove alimentari
nell'action, e qui fallisce alla grande su tutta la linea. Va da sé
che la componenete visiva del mondo sottomarino avrebbe dovuto farla
da padrone, ma se questo luna park volgarissimo e carnevalesco piace
al vasto pubblico, a questo punto mi chiedo che cosa ne avrebbe
tirato fuori qualcuno come Baz Luhrman. Il barocco di Atlantide
ferisce gli occhi e ricorda (in una versione povera, pessima e
svilente) i giochi di estetica pop di Pierre et Gilles, al servizio
di un'espressione artistica ben più nobile. Là era la cultura LGBT
ammantata di preziosismi grafici. Qui abbiamo solo Jason Momoa che a
ogni sequenza sembra stare pubblicizzando uno shampoo o un
deordorante per maschi alfa. Questo quando non elargisce battute
salaci che sembrano uscite da un film anni 70 di Terence Hill e Bud
Spencer, che quello è il livello e molto probabilmente il redivivo
target.
La pretesa da film epico naufraga
sin dai primi minuti. Con l'ammorbante prologo servito con
immancabile io narrante a corredo. Una storia di origini accennata,
schematica, frettolosa, noiosa. I tempi e il modo di fare spettacolo
cambiano, ok. Ma si auspica che si evolvano. Un tempo esisteva una
cosa chiamata atmosfera e un'altra chiamata crescendo per costruire
l'epicità. Semplicemente non puoi... NON PUOI in un film che dura
DUE ORE E MEZZA, servirmi un prologo striminziti ed esangue con tanto
di spiegone delegato alla voce fuori campo. Non puoi, CAZZO. E'
semplicemente un insulto. All'estetica del cinema, alla narrazione,
al fumetto, al pubblico...
Ah, sì. I giocattoli non si vendono da
soli.
Sorvolando sul villain Black Manta,
infilato nel film a forza senza ausilio di lubrificante alcuno.
Personaggio cui è attribuita l'origine e le motivazioni più
insensate che cinecomics abbia partorito, senza spoilerare, e
consacrandole con una battuta del protagonista sotto finale che ti va
venire voglia di prenderlo a sganassoni esattamente quanto e più
della sua nemesi. Sì, a quel punto anch'io diventerei volentieri
Black Manta e cercherei Aquaman per farne neonata fritta (che per di
più neanche mi piace mangiare).
Il film distribuisce le sue carte in
modo lento e soporifero saltando da un modello a un altro. In parte
mi è sembrato di ritrovarmi a guardare gli orrendi Batman di Joel
Scumacher, ma se non fosse abbastanza, andando avanti il film rivela
parentele anche con il Flash Gordon di Mike Hodges del 1980. In molti
punti arraffa pure da “Il viaggio fantastico di Sinbad”, bel film
per ragazzi del 1973 con i trucchi di Ray Harryhausen (altro esempio
di cinema “vecchio” da riscoprire a dispetto di questi strillanti
neonati blockbusters). Attraversa tutto il franchising di Indiana
Jones scomodando pure “La spada nella roccia”. E per
concludere... Jason Momoa si dimentica di stare recitando Aquaman e
si trasforma in Sandokan.
E qui ricordo la frase celebre di un
mio amico negli anni 70, riferito ai propri figli davanti allo
sceneggiato di Sergio Sollima: «Hai visto Sandokan? E' meraviglioso!
Fa impazzire i bambini!»
Esatto. La frase più importante è
proprio questa. Questo è il senso del minestrone. Questo è il senso
del film. Questa è la virata, possibilmente vincente sul piano
commerciale, della DC/Warner. I bambini gradiscono. I bambini
applaudono. I bambini comprano i giocattoli.
E alla fine che cosa vuoi dirgli?
Protestare perché il film ti annoia e ti fa sanguinare gli occhi?
Non è destinato a te, fattene una
ragione. Noi lettori di fumetti dobbiamo rassegnarci. Questi prodotti
non parlano con noi. Conclusa la fase pseudoadulta (in realtà solo
depressa) dettata da una cattiva interpretazione della lettura
nolaniana di Batman, la DC/Warner vince al botteghino scegliendo di
parlare a una platea infantile. I nerd (e gli appassionati di comics)
saranno anche stati sdoganati. La loro visione, un tempo di nicchia,
è diventata cultura di massa. E così facendo è diventata oggetto
di un mercato fuori controllo, inutile aspettarsi qualcosa di
diverso. Giusto? Sbagliato? Come che sia è un dato di fatto. Inutile
anche rammaricarsi. E' più triste intravedere la bellezza sfiorita
di Nicole Kidman nascosta a stento da una chirurgia plastica che
anziché aiutarla a restare giovane fa sembrare che nasconda le sue
rughe sotto una plasticosa maschera trasparente. Vedere tanto
dispendio di stars, di talento, di mezzi. E uscire dal cinema
pensando che i problemi veri sono altri. E che questo film non è
riuscito a farteli dimenticare neppure per dieci minuti.
Per quanto mi riguarda, questo è il
vero fallimento.
E a fronte di questo, vedere padri di famiglia (non ragazzini, ma genitori ultratrentenni) che senza conoscerti trovano il tempo di venire a insultarti sul tuo profilo social, a dirti che non capisci un cazzo e sei ridicolo, perché hai osato criticare un film che loro hanno apprezzato, neppure gli avessi insultato la madre, è un fenomeno fottutamente inquietante.
Meditiamo.