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lunedì 7 ottobre 2019

The Head Hunter [di Jordan Downey]

"The Head Hunter"(Il cacciatore di teste) è un bizzarro film (Fantasy? Horror?) diretto dal regista Jordan Downey nel 2018. Un film pressoché muto (i dialoghi ci sono, ma ridotti a un osso di pochi centimetri) che punta gran parte della sua durata (breve, dura poco più di un'ora) sull'atmosfera e la presenza, in sostanza, di un solo personaggio protagonista (l'attore norvegese Christopher Rygh). Un cavaliere vive isolato in una casupola in mezzo ai boschi dove, tempo prima, la figlioletta è stata uccisa da una creatura soprannaturale. La sua vita è scandita dall'attesa della vendetta e da una costante lotta contro i mostri che infestano quelle lande. Forse orchi, forse troll o altro (il film è molto avaro di spiegazioni). Qualcuno gli segnala la presenza dei mostri per mezzo di messaggi inviati su pergamena, quasi dei bollettini che segnalano la presenza di banditi ricercati, come i cartelli "wanted" del far west.
Il cavaliere, però, non è un cacciatore di taglie, ma di teste, che conserva come trofei, impalandole su pioli dentro la sua casa o su bastoni nel campo circostante. Le sue battaglie contro le creature mostruose sono tutte tenute rigorosamente fuori scena. Quella che ci viene narrata è la sua quotidianità, tra uno scontro sanguinoso e l'altro. Il cavaliere torna ogni volta con una nuova testa mostruosa da aggiungere alla sua macabra collezione. Cura le proprie ferite con erbe e pozioni magiche (veramente magiche!) e attende l'incontro finale con il suo antico nemico. Giorno dopo giorno, i suoi rituali diventano per noi familiari. Finché qualcosa non andrà storto. Tremendamente storto...


"The Head Hunter", con la sua narrazione minimalista, i suoi lunghi silenzi e lo sconcertante finale, potrebbe dare l'idea di un cortometraggio allungato oltre misura. Eppure sarebbe ingeneroso giudicarlo così. Il film di Jordan Downey, che si era fatto notare nel 2013 con l'horror comedy "Thankskilling", con protagonista un tacchino demoniaco, è un vero dipinto vivente. Un film dove i silenzi, la fotografia, i dettagli, il sangue e l'attesa dell'inevitabile, contribuiscono a plasmare un'esperienza cinematografica totalizzante, che non ha bisogno delle parole per essere completa. Un piccolo gioiello da ammirare con attenzione.

giovedì 11 agosto 2016

BAMF - Robotics


Robotics. Un mondo popolato esclusivamente da automi che un tempo erano umani. Un'incubo che somma diversi archetipi della fantascienza, ma anche del fantasy e del romanzo d'avventura in generale. Una serie a fumetti tutta italiana, ideata da Claudio (Claps) Iemmola, scritta in collaborazione con Paul Izzo e disegnata da Giacomo Pilato, Gaetano Matruglio, Lazzaro Lo Surdo e Sudario Brando. Saga tecnologica, ma declinata secondo uno stile mutevole. In evoluzione, come la razza umana, come i robot...

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giovedì 28 febbraio 2013

Sailor Twain o la Sirena dell'Hudson


Sul finire dell'ottocento, il vapore Lorelei attraversa il fiume Hudson con il suo carico di varia umanità. Una notte, il capitano Twain soccorre una creatura acquatica che sembra essere proprio una sirena ferita. La medica, la nasconde nella sua cabina, se ne prende cura, se ne innamora. Ma mentre il viaggio procede, qualcun'altro sulla nave persegue esoterici progetti, mentre l'enigmatico scrittore C. G. Beaverton, autore di libri di grande successo, mantiene un bizzarro carteggio con il francese Lafayette, il proprietario della Lorelei... 

 
Sailor Twain o la Sirena dell'Hudson è uno di quei fumetti che in Italia potrebbero faticare a trovare lettori. E certo non per la qualità del lavoro di Mark Siegel, capace di tessere un racconto allegorico con le cadenze di un thriller, gli ingredienti della fiaba e la grazia di un tratto grafico universale.
Proprio la sua universalità, nel senso di capacità di sintesi mitologica e poetica, rischierà di cozzare contro un muro i cui mattoni, da decenni nel nostro paese, sono fatti di supereroi americani, illustrazioni falsamente iperrealiste e vistosità grafiche prive di costrutto. Troppo spesso, nelle fumetterie nostrane, abbiamo visto avventori chiudere un libro mormorando che il disegno non li attrae. E' toccato in sorte a molti autori di grande caratura, come Art Spiegelman e il suo Maus, a Marjane Satrapi e Persepolis, liquidati con le parole «Le storie saranno pure interessanti, ma i disegni fanno proprio pena.»


Iniziamo, proprio per questo, parlando delle matite di Mark Siegel e del suo lavoro su Sailor Twain. Un disegno pensato in modo da ridurre il racconto per immagini all'essenziale, senza rubare la scena a una narrazione magica e dal dirompente valore metaforico. Un tratto asciutto, raffinatamente stilizzato, capace di esprimere forti emozioni e caratterizzare i propri personaggi con pochi, abili tocchi. Un bianco e nero incantevole, un ordito di ombre che rapisce e avvolge come in una calda visione onirica, in grado di suggestionare e tenere incollati fino all'ultima pagina. Insomma, un tratto d'autore, sfrondato da pacchiani effetti speciali e ridotto all'osso al fine di raccontare una storia. Stile che nel nostro paese fatica a imporsi, un po' come tutto ciò che lascia da canto i dettami del commercio per avventurarsi nel territorio dell'arte pura. Emozioni disegnate in grado di proferire parole e idee.


Sarebbe, insomma, un peccato non leggere Sailor Twain solo perché a prima vista non si comprende il tratto sognante e a suo modo maturo di Siegel. L'ambientazione ottocentesca, non casuale, suggerisce ulteriori sottotesti, e il mito della sirena, da sempre affascinante e ambiguo, accompagna il lettore per mano alla scoperta di un universo, di un linguaggio e di un secolo tutto da scoprire.
Sailor Twain è una riflessione poetica sull'eterno femminino e sulle sue trasformazioni attraverso il tempo. Donna fatale. Donna oggetto. Donna amata. Preda. Predatore...
Lo stesso misterioso scrittore Beaverton, in uno dei suoi criptici messaggi, parla dell'identità sfuggente di queste creature mitologiche. Ma con il progredire della narrazione sembra che Siegel abbia le idee abbastanza chiare al riguardo della metafora che porta in scena con le sue splendide matite. Se al timone del racconto troviamo per lo più personaggi maschili, è altrettanto vero che Sailor Twain parla in realtà di donne, e del modo di guardarle. O del modo, se vogliamo, in cui un uomo vorrebbe guardarsi da loro. Un secolo è prossimo al termine (l'ottocento) e una trasformazione di cui pochi sono consapevoli è già in atto. Lo annuncia il canto di una sirena, le cui intenzioni restano indecifrabili fino alla fine. Creatura benigna o maligna? Simbolo di bellezza o di perdizione? Non è detto che la risposta sia la medesima per chiunque.


Sailor Twain o la Sirena dell'Hudson è un meraviglioso romanzo grafico da leggere lentamente, meditando sulle sue allegorie e stupendosi delle sue sorprese. Una storia che parla delle storie e del ruolo che in esse hanno le figure femminili, da sempre denigrate, temute o relegate a ruoli marginali dal potere maschile. Un potere fragile come la consistenza di un sogno. E che, suggerisce Mark Siegel, potrebbe dissolversi come la spuma di un'onda.


Questa recensione è stata pubblicata anche su Fantasymagazine.


[Articolo di Filippo Messina]


giovedì 7 giugno 2012

Addio a Ray Bradbury, ultimo marziano


In questo 2012, anche Ray Bradbury, all'età di novantun anni, ci lascia per sempre. Eppure la sua impronta sulla narrativa fantastica (in realtà in un senso ancora più ampio di quello che può essere catalogato semplicemente come science fiction) è vasta e frastagliata. Autore di classici moderni come Fahrenheit 451 e Cronache marziane, Bradbury era in verità un autore di grande duttilità, in grado di spaziare dall'apologo antiutopistico (proprio con Fahrenheit 451) al racconto sovrannaturale di formazione (Il popolo dell'autunno), inaugurando un modello di narrativa fantastica e gotica che avrebbe influenzato molti autori successivi, primo tra tutti Stephen King

Ray Bradbury apparteneva a una generazione per la quale la fantascienza non era stata ancora vincolata da rigidi codici e poteva permettersi la deliziosa libertà di flirtare con la fantasia in modo totale. Bradbury era, letterariamente parlando, un vero marziano nel territorio della fantasia, fuoriclasse per temi e stili, mutevoli e seducenti. Numerose le escursioni di Bradbury nei territori dell'horror, spesso, appunto, travestito da fantascienza, secondo una consuetudine editoriale in voga qualche decennio fa. Indimenticabile l'agghiacciante racconto The Veldt, presente nella raccolta L'uomo illustrato, e che rappresenta uno degli incubi ricorrenti di Bradbury: il controverso rapporto con il mondo dell'infanzia, sospeso tra malvagità e innocenza. Quasi l'autore convivesse con l'intima contraddizione di non voler crescere e di detestare profondamente il bambino dentro di lui, rendendolo - nei suoi racconti - spesso spietato carnefice (Il piccolo assassino) e altrettanto di frequente vittima di crimini raccapriccianti (Gioco di Ottobre). 

Per salutarlo, recuperiamo dai nostri archivi questa recensione di Cronache Marziane scritta più di dieci anni fa. Lo stile di Bradbury, i suoi sogni (e incubi) continueranno ad accompagnarci come pietre angolari del nostro immaginario. Ricordandoci che là dove i libri bruciano a 451 gradi è opportuno conservarli dentro di sé. Perché... qualcosa di sinistro sta per accadere, una pioggia senza fine potrebbe cancellarli dalla nostra memoria, e prima che un idiota accenda la luce, spezzando l'incanto e rivelando l'orrore, faremo meglio a collaudare la nostra personale macchina della felicità... prima dell'ora zero.

Signori, Ray Bradbury.



Cronache marziane

La casa degli Usher crolla due volte, e in entrambi casi, il frastuono è assordante.
Il primo crollo avviene a metà del XIX secolo. Architetto della dimora e suo distruttore è Edgar Allan Poe, autore di una vicenda angosciosa che impose il nome Usher come prototipo di tutte le abitazioni maledette sorte successivamente in tante storie del terrore. La seconda è nel 1950, anno della pubblicazione di Cronache marziane. A edificarla, stavolta, è lo scrittore Ray Bradbury e teatro dello spaventoso crollo non è una brumosa regione statunitense, ma il pianeta Marte.
Bradbury è quel che comunemente viene definito un autore di genere. Nella sua produzione spiccano racconti che si ascrivono alla fantascienza e alla narrativa di spavento. E' cresciuto durante la Grande Depressione americana, nutrendosi di letteratura fantastica e collaborando con riviste specializzate in Science Fiction. Ne ha fondato una, "Futuria Fantasia", e pubblicato racconti sulla celebre Weird Tales. Il suo romanzo Fahrenheit 451, grazie anche alla fortunata lettura cinematografica di Fraçoise Truffaut, fa il giro del mondo e diventa un piccolo classico. Ma il suo incubo privato, cioè il terrore che la lettura dei libri e quindi la fantasia, venga perseguitata come un reato, lo rappresenta per la prima volta in Usher II, un capitolo di quello strano e straordinario libro che è Cronache marziane


Il racconto parte da un'ipotesi estrema: non si deve parlare di ciò che non esiste. I libri non devono contenere altro che riferimenti a fatti storici, scientificamente documentati. Tutto ciò che è fantasia è messo al bando. I libri fantastici bruciati, i miti disconosciuti. Persino le fiabe dell'infanzia finiscono sul rogo. Su Marte, però, un uomo chiamato William Stendahl sta usando le sue risorse personali per erigere un monumento ai sogni esiliati dalla terra. Una nuova casa Usher, rifugio dei fantasmi letterari di Poe e di tutte le altre creature di fantasia divenute fuorilegge. Si tratta di sofisticati robot, la casa è un labirinto di citazioni letterarie, e la rivincita dell'immaginario sull'ottuso raziocinio delle autorità sarà terribile.

Negli ultimi anni si è andata facendo strada una diversa concezione del racconto di fantascienza. Sempre più spesso si sente parlare di "fantascienza razionale", cioè di storie basate su solide fondamenta scientifiche, ispirate dalla cibernetica o dalla biochimica. Ne è un esempio Michael Crichton, l'autore di Andromeda, che scrive i suoi romanzi senza mai dimenticare d'essersi laureato in medicina. Sembra non esserci più posto nel nostro immaginario per viaggi spaziali e omini verdi. Tanto più che oggi sappiamo che il pianeta rosso è disabitato. E' curioso come Ray Bradbury avesse previsto questa tendenza già negli anni cinquanta, contrapponendole il trionfo della fantasia assoluta. Si direbbe che Bradbury tema d'essere giudicato un sognatore. Per questo contrattacca, descrivendo un realismo aberrato che si traduce nel liberticidio. Il suo è anche un atto d'amore nei confronti di un genere narrativo, quello fantastico, spesso bistrattato dalla letteratura ufficiale. Ma è proprio con Cronache marziane che Bradbury varca il confine e infonde al racconto di Science Fiction la nobiltà della narrativa utopistica. 

Che razza di libro è questo? Forse una sola risposta non basta. E' un libro di fantascienza, giacché descrive astronavi, altri mondi, alieni, macchine avveniristiche, automi e paesaggi distorti. E' un romanzo sociale, che dà voce a svariati campioni di un'umanità posta dinanzi all'ennesima grande scoperta: un altro mondo abitabile. Al popolo dei neri, che vedono nel pianeta colonizzato una sorta di terra promessa dando inizio a un esodo dalle alte conseguenze morali. All'uomo medio, impegnato nella ricerca di un ambiente favorevole alle proprie aspirazioni. Al religioso, alle prese con un dilemma mistico che potrebbe sopraffare la sua fede. E' un libro ricco di spunti, che sfiora la commedia e nell'amaro finale diventa un'allegoria politica sulla guerra, sull'ecologia, sulle utopie spezzate. "La guerra ti passa accanto, vede il suo alimento, si contrae su se stessa; e un attimo dopo... la Terra non c'è più" dice il padre che guida la sua famiglia su Marte per "una gita d'un milione di anni". 


Cronache marziane è un grande libro. L'atmosfera fantascientifica dell'inizio sfuma a mano a mano che la narrazione va avanti. Per il lettore è come assistere a una curiosa alchimia letteraria. Pagina dopo pagina, i numerosi cliché della fantascienza si trasfigurano, mutano e si trasformano in fantasia pura, libera dagli schemi di una facile classificazione. Calcando la mano sulle caratteristiche del genere, Bradbury è riuscito ad azzerarlo. Ha acciuffato per i capelli un gruppo di personaggi emblematici, li ha sradicati dal loro habitat tradizionale e li ha scagliati su un pianeta remoto. Dapprima ostile, poi a loro completa disposizione. Da abile burattinaio, ha riscritto la storia dei padri pellegrini e ha prodotto una grande metafora sul modo di vivere degli esseri umani.  

Cronache marziane è una parabola sulle molte conquiste dell'uomo. Un essere capace di creare e subito dopo distruggere. Come Casa Usher sorge solo per crollare, sembra dirci Bradbury, così i mille sogni di uomini e donne emigrati su Marte vengono spazzati via dall'insensata guerra terrestre. Si potrà sempre ricominciare, ma per farlo saranno necessari altri sogni. Per questo i libri, anche quelli che possono sembrare i più sciocchi, vanno gelosamente custoditi. L'apocalisse culturale immaginata da Bradbury s'è purtroppo avverata più volte. Là dove forze politiche deviate hanno assunto con la forza il controllo d'un paese, molte pubblicazioni sono state realmente sequestrate e arse. Esistono molti tipi di sogni. Non quanti i generi letterari. Molti di più. Quando questi si condensano in parole possono essere condivisi tra più uomini. A seconda della loro natura, pertanto, possono suscitare clamore e, per alcuni, diventare pericolosi. Cronache marziane ci spiega che la fantasia va comunque rispettata. Quando tutto sarà crollato, essa ci conforterà fornendoci gli strumenti per ricominciare daccapo. Perché a volte sono i sogni, e soltanto loro, a modellare la realtà. 


 [Articolo di Filippo Messina]
 

lunedì 22 novembre 2010

Planetary: Archeologia Spaziotemporale


Per l’organizzazione Planetary e i Quattro si avvicina la resa dei conti. All’umanità sono state negate conoscenze meravigliose che avrebbero potuto rendere il mondo un posto migliore. Molti superumani considerati di ostacolo sono stati metodicamente eliminati, e il pianeta langue sotto il tacco di una tirannia invisibile che limita lo sviluppo della scienza e la diffusione delle verità più scomode. Ma Elijah Snow ha recuperato finalmente i suoi ricordi perduti, e sa che per sconfiggere i quattro predoni sarà necessario cambiare le regole. Dovrà diventare imprevedibile, e superare in crudeltà i suoi nemici, in modo da chiudere la partita una volta per tutte...

Dopo una lunga pausa, durata qualche anno, si conclude anche in Italia Planetary, celebrata serie creata da Warren Ellis per l’etichetta Wildstorm che si giova delle illustrazioni raffinate e psichedeliche di un John Cassaday al meglio della sua arte. Quattro volumi (tutti editi dalla Magic Press) e una raccolta di speciali. Circa un decennio per completare un’epopea labirintica e ambiziosa. Il rondò finale orchestrato da Ellis non delude. Riesce, anzi, a recuperare tutti i fili narrativi lasciati in sospeso e a intrecciarli in un ultimo arazzo risolutore. Planetary è una serie a fumetti difficile da classificare. In essa, infatti, troviamo svariati elementi narrativi che spaziano dalla fantascienza al noir e alla cultura pop, tenuti insieme da un denso tessuto connettivo metafumettistico e metacinematografico. Planetary ha per protagonisti degli individui con superpoteri, ma si tratta di supereroi dalle caratteristiche abbastanza inconsuete. Non sono vigilanti, né agenti militari, ma archeologi. Il loro compito è raccogliere, classificare e proteggere le meraviglie nascoste nel corso della storia umana, tesaurizzandole e condividendole con la comunità scientifica. Le avventure di Elijah, Jakita e Drummer esplorano molti moderni miti della cultura popolare, fornendo intriganti rivisitazioni e angolazioni narrative insospettabili. Questo spunto di partenza serve a Warren Ellis per sbizzarrirsi in una serie di affascinanti riletture che fanno sfilare sotto gli occhi dello spettatore una schiera di personaggi e situazioni apparentemente sconosciuti, ma in realtà ben radicati nell’immaginario collettivo non soltanto statunitense. In Planetary è possibile, dunque, ascoltare la vera storia di qualcuno che avrebbe potuto chiamarsi Doc Savage, come l’eroe pulp degli anni trenta. Fare la conoscenza di figure speculari a icone come Tarzan, Sherlock Holmes e Lone Ranger. Scoprire avvincenti controfigure di John Constantine, il mago fumatore della Vertigo, dei supereroi della JLA, e di creature mostruose come Hulk e Godzilla.

Planetary può essere considerata come una saga sui retroscena delle storie più note. Un amaro, disincantato “dietro le quinte”, che omaggia affettuosamente numerosi archetipi della cultura popolare, riverniciandoli secondo un’ottica dark, spesso decisamente satirica. Ma uno degli aspetti più affascinanti di Planetary consiste proprio nei villains della saga. I Quattro. Un piccolo gruppo di moderni pirati senza scrupoli che, guidati da un ambizioso e brillante scienziato, acquista straordinari poteri durante un viaggio sperimentale in un’altra dimensione. Le loro imprese hanno fruttato loro una conoscenza senza pari cui corrispondono ricchezza e potere. Una sapienza insospettabile, in grado di cambiare la faccia della terra. Un privilegio che i Quattro custodiscono gelosamente, falciando senza pietà chiunque gli attraversi la strada. E i loro poteri, che sembrano ispirati dai quattro elementi: fuoco, aria, terra e acqua, sono sinonimo di terrore tra i pochi che sanno della loro esistenza e ancora vivono. Questa versione malvagia dei Fantastici Quattro, la famiglia di eroi più amata di casa Marvel, è il vero perno e il cuore della saga metafumettistica firmata da Warren Ellis. Pur comparendo di rado, tramando nell’ombra, i Quattro permeano con la loro presenza l’intera trama e costituiscono forse la visione più pessimista sul mito del superuomo nell’età contemporanea.


Il tema principale di Planetary è la possibilità di conoscere l’elemento meraviglioso presente nel nostro mondo per poterne far parte e crescere collettivamente. I Quattro possono essere considerati una metafora del capitalismo, visti come un’oligarchia che nega la conoscenza alle masse, tenute proditoriamente nell’ignoranza e sfruttate come bestiame. Ogni scoperta potenzialmente sovversiva viene distrutta o accuratamente occultata. Stessa sorte tocca agli esseri con poteri che potrebbero rivelarsi ossi troppo duri, o portatori di culture aliene troppo progressiste su un pianeta la cui sorte è nelle mani di soli quattro individui. I protagonisti di Planetary, misteriosi all’inizio, sempre più umani strada facendo, sono stati tutti toccati dalla spietata mano dei Quattro. Adesso, però, il gelido Elijah Snow ha deciso di reagire. La sua vendetta sarà terribile, e susciterà nuovi, pesanti quesiti etici.

Prodotto sotto l’etichetta Wildstorm, Planetary ha il pregio di appartenere allo stesso universo di Authority e Gen¹³ (in certi casi espressamente citati) ma di riuscire a conservare un’identità indipendente, che ne allarga i confini di lettura. I disegni di John Cassaday sono espressione ideale delle trame surreali create da Ellis, e con queste si amalgamano in modo pressoché perfetto, regalando al lettore un’esperienza totalizzante e onirica. Planetary è un fumetto sui supereroi, più che un fumetto di supereroi. In grado di guardare oltre il genere, e a volte anche oltre il semplice intrattenimento, forgiando una saga con più livelli di lettura che si eleva al di sopra della media attuale. Una lettura sulle letture, sui sogni e sulle possibilità derivanti dalla conoscenza. Un inno alla fantasia e alla capacità dell’immaginazione come strumento volto alla conquista della vera libertà.


Questa recensione è stata pubblicata anche su Fantasymagazine.


[Articolo di Filippo Messina]

martedì 30 giugno 2009

Il Cammino dei Sette Millenni

Sorprendente.

E’ la prima parola che viene in mente sfogliando Il Cammino dei Sette Millenni, fumetto fantasy tutto italiano già arrivato alla sua quarta uscita mensile.

Sorprendente per la sua italianità, che riesce a lasciare tra le righe, dimostrandosi un prodotto valido che guarda a suggestioni internazionali più che a certa tradizione del fumetto popolare nostrano, spesso intrappolato in griglie editoriali che gli conferiscono un gusto artificiale. Sorpredente per lo sforzo produttivo svolto dal suo ideatore, Francesco Vivona, che ne è sceneggiatore, disegnatore (in collaborazione con Diana Mercolini, Nicola Zanni e Matteo Simonacci) e anche l’editore, avendo fondato a Catania la Omniars Edizioni. Non dimentichiamo un sito internet esauriente (www.settemillenni.com/) e una confezione spillata a colori per 2,90 euro di prezzo, che non invidia nulla a edizioni più blasonate. E’ sorprendente anche la radice meridionale di questo fumetto e le potenzialità che riesce a esprimere in un panorama fumettistico come quello siciliano, oscillante senza mezzi termini tra guizzi d’autore e la peggiore omologazione commerciale. Il Cammino dei Sette Millenni non racconterà magari nulla di nuovo, ma quel che conta di più è la forma. Fresca, garbata, rispettosa della lingua come della parte figurativa. E di questi tempi non è affatto poco.

Il Cammino dei Sette Millenni è la storia di un viaggio iniziatico, spunto caro alla tradizione fantasy letteraria, e la cronaca della maturazione di un gruppo di personaggi sullo sfondo di un mondo fantastico dove si mischiano elementi mitologici e fiabeschi. Il giovane protagonista, Liam, appartenente al clan dei Lumienh, è presentato come il simbolo del fatalismo (non a caso il primo capitolo è intitolato Destinato a Niente). Cupo, pessimista ai limiti della villania, e cresciuto all’ombra di un padre controverso. Lear, eroe caduto in disgrazia dopo imprese mirabili, forse colpevole di aver fatto strage della propria famiglia come accadde al mitico Eracle. Liam sarà strappato alla propria immobilità quando Akerone, malvagio monarca del popolo dei centauri, deciderà di impadronirsi delle Sette Essenze, talismani che gli conferirebbero un potere temibile per l’intero regno di Dagradia. Ricevuta dal saggio Nefesto la spada Animah-Argenti, antica arma il cui potere dovrà essere ripristinato, il giovane intraprende così un riluttante cammino che lo cambierà per sempre. Sulla sua strada incontrerà personaggi come Abadir, il mezzosangue figlio di una fata e del sovrano del popolo degli Umbrox, un giovane guerriero che ha dovuto battersi a lungo per vincere sul pregiudizio derivato dalla sua origine ibrida. La ribella e affascinante principessa dei centauri, il fauno cantore e molti altri, tra creature gentili e mostri spaventosi. Il racconto presenta tutti gli elementi più tradizionali del fantasy, ma il linguaggio e il ritmo scelti sembrano dovere molto alla migliore tradizione degli anime giapponesi. Il disegno, finora abbastanza omogeneo dei diversi illustratori, sembra collocarsi in una linea di confine tra l’ispirazione manga e il tratto europeo (soprattutto per quanto riguarda la colorazione). Ma quel che colpisce è la notevole carica espressiva dei personaggi, i cui lineamenti, occhi e bocca, raramente così vitali, conferiscono passione a un dialogo agile e diretto.

A differenza dell’oggettiva qualità de Il Cammino dei Sette Millenni, non sorprende invece l’ondata di snobismo che ha investito il fumetto di Francesco Vivona su alcuni forum e blog. Un fumetto veramente giovane, che mostra il potenziale per crescere e sdoganare - forse - un approccio più coraggioso a questa forma artistica, difficilmente sarà accettato da un mercato così tradizionalista come quello italiano. Infatti il fumetto, benché distribuito in edicola, è un prodotto anomalo che potremmo considerare un perfetto ibrido tra l’autoproduzione e la proposta di una piccola linea editoriale indipendente. Un mezzosangue orgoglioso come l’impavido Abadir, verrebbe da dire. E con gli occhi puliti e dolci della principessa con gli zoccoli. Auguriamo a questo fumetto di ritagliarsi la sua strada nonostanze le prevedibili resistenze, e di contribuire a variare le proposte nostrane in un mercato sempre meno differenziato.


Questa recensione è stata pubblicata anche su Fantasymagazine.


[Articolo di Filippo Messina]