Stavolta Peppe Saso e io ci siamo proprio lasciati andare. Si salta di palo in frasca e si parla di tutto. Di Preacher (fumetto e serie TV), di Batman: The Telltale Series e del finale di Sherlock. Ma anche di erotismo, conversando della stagione del fumetto erotico tascabile italiano e del crowfunding dell'associazione Annexia per il progetto VintageErotika. A proposito, è ancora valido fino al 31 Gennaio. Potete supportarlo a questo link: Vintage Etortika - Evilsex.
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giovedì 26 gennaio 2017
giovedì 22 settembre 2016
Fumetti in soffitta: «Jesus! Koko... ma sei un Coyote!»
Correva il 1976, e chi era adolescente
in quel periodo (come il sottoscritto) attraversava una
trasformazione che andava oltre la pubertà. Stiamo parlando di una
trasformazione “fumettistica”, che metteva in atto una
metamorfosi del gusto dell'intrattenimento (anche se si rivelò
essere una transizione solo temporanea), facendo “evolvere” i
bambocci affascinati dai supereroi (erano i primi, floridissimi anni
della Marvel in Italia grazie all'editoriale Corno) in appassionati
di più tradizionali (si fa per dire) avventure western. Insomma,
dalla Corno si passava alla Bonelli (che ancora si chiamava
editoriale Cepim). Il personaggio di Zagor risultava un
ottimo spartiacque. Offriva praticamente un effetto metadone, in
quanto era un eroe che agiva nel west, interagendo con pellerrossa e
pistoleri, ma era di fatto un supereroe. Un ibrido di Tarzan e
Phantom (ma noi lo conoscevamo ancora come “L'Uomo
Mascherato”) cui era stata shakerata altra roba. Aveva persino
un costume, e come tutti gli eroi super girava così conciato per le
strade senza che nessuno gli fischiasse dietro (anche perché se no
erano cazzottoni alla Bud Spencer... che però suonavano in modo
imbarazzante, con l'onomatopea SMACK). Poi arrivava l'immarcescibile
Tex, più canonico (e troppo serio già allora). La Collana
Rodeo, albo antologico che conteneva una vera cornucopia di
serie: Storia del West, La Pattuglia dei Bufali, I Tre Bill. I
recuperi d'annata per la stessa casa editrice, come Un ragazzo nel
Far West (una delle prime opere del giovane Bonelli-Nolitta), e il
Piccolo Ranger, il Comandante Mark... Mister No era arrivato
da pochissimo, non era un western e l'ambientazione amazzonica faceva
ancora strano. Non parliamo dei personaggi con l'allitterazione nel
nome (Martin Mystere, Dylan Dog, Nathan Never) che erano
ancora lontanissimi.
Be', noi ragazzetti di quel periodo
eravamo affamati di west e di avventura tradizionale. Per qualche
motivo (probabilmente legato agli ormoni) le calzamaglie dei
supereroi ci apparivano troppo infantili, e il nostro immaginario si
rifugiava in qualcosa di (apparentemente) serio e cazzuto come le
storie di frontiera dove fumavano le canne delle colt. Ancora meglio,
però, quando in queste sconfinavano elementi neogotici e fantastici
(si veda la saga di Zagor contro il vampiro o le escursioni di Tex nella stregonerie con Mefisto e tutta la sua progenie).
A parte i Bonelli (che, ricordiamo, non
si chiamavano così. Dal momento che la casa editrice cambiò nome
più volte. Daim, Cepim... ma tanto eravamo piccoli e all'epoca
nessuno ci faceva caso), iniziavano a sbucare nelle edicole tutta una
serie di prodotti epigoni di quelli che ai tempi erano considerati
pezzi da novanta. Titoli che oggi chiamiamo (pensa un po')
“bonellidi”. Giusto per dire che il formato (più del contenuto)
della casa editrice di Tex Willer aveva proprio fatto scuola
nell'industria di quella che all'epoca, nel nostro paese, non era
contata neppure nona tra le arti. Alcuni tra questi furono pubblicati
dal gruppo editoriale Geis, dove aveva le mani in pasta Renzo
Barbieri, il signore che ha legato il suo nome alla lunga stagione
del fumetto erotico italiano (ops! Ai tempi, noi sbarbati li
chiamavano “giornaletti di donne nude”), ma che ha dato molto
anche alle avventure di frontiera. Tra questi, un ricordo molto forte
lo ha sicuramente lasciato il Coyote, un oscuro personaggio
western, disegnato da Pietro Gamba. Oscuro perché (per i tempi, eh!)
le sue avventure erano toste assai e politicamente scorrettissime.
Mettiamola così. Il protagonista, chiamato con il nome di battaglia
(preso in prestito da un collega di oltreoceano) di Coyote e una
maschera ricavata da una pelle di lupo (come il marvelliano Red
Wolf prima di lui) era stato scotennato dagli indiani ed era
sopravvissuto.
Come? Non aveva importanza. La sua leggenda raccontava
che durante un assalto di pellerrossa lui si era finto morto, e aveva
continuato a farlo anche mentre gli strappavano il cuoio capelluto...
come si diceva facesse il vero coyote (e io mi sono sempre chiesto
chi si era preso la briga di scuoiare un canide selvatico per
verificare se in quell'occasione si fingeva morto). Ad ogni modo...
il signore ne esce vivo, ma calvo e affascinante come un giovane Yul
Brinner nei Magnifici Sette (non deturpato come avrebbe dovuto
essere, ma liscio e lucido come una palla di biliardo) e anche un
tantino incazzato. Insomma, da quel momento i nativi americani
(pardon, gli indiani, che ancora si chiamavano così) gli stanno sul
culo (sai, gli hanno rovinato la pettinatura!) e quindi ha giurato
che ne scotennerà almeno mille, perché tanto valeva il suo scalpo.
Insomma, un folle maniaco. Tra l'altro pistolero imbattibile. Un
serial killer di pellerrossa che casualmente si trova coinvolto anche
in intrighi di fuorilegge che poco c'entrano con la sua maniacale
vendetta. C'è anche una procace e tostissima donna bionda,
imparentata con gente che lui ha fatto fuori, che lo odia e fa di
tutto per ucciderlo. Insomma, dovrebbe essere la villain della
storia, ma i due si sbaciucchiano e ne viene fuori un rapporto simile
a quello tra Batman e Catwoman. Balordo, violento, e sotto molti
aspetti (non sono il primo a dirlo) antesignano di antieroi
psicopatici come The Punisher (ma il Punisher E' un
personaggio western, in fondo! Vogliamo capirlo?!), la serie del
Coyote durò una manciata di numeri (8 in tutto), ma rimasero
impressi nella memoria dei bimbetti del tempo. Ragazzotti che
cercavano di sfuggire alle spire dell'idea supereroistica, ma che ne
erano in realtà completamente soggiogati.
Un'altra creatura della Geis che
riprendeva il formato bonelliano e i temi di frontiera che fecero la
fortuna della casa editrice milanese, fu il personaggio creato da Ennio
e Vladimiro Missaglia (fratelli, sceneggiatore e disegnatore
nell'ordine) chiamato Jesus. Sì, avete capito bene. In
teoria, suppongo, che il nome andrebbe pronunciato alla spagnola e
quindi Heeesùs... (che poi è un nome maschile
di uso comune in Messico, solo che il personaggio era più biondo di
Ursula Andress) o all'inglese Giiiiisus. Ma noi pischelli dei
70 lo chiamavamo semplicemente “Ièsus”. La caratteristica
di questo avventuriero molto bravo con le pistole era un look che
c'entrava con il vecchio west (Pirandello insegna) come Pilato nel
Credo. Infatti portava una fluente capigliatura biondo oro sciolta
sulle spalle, indossava un gilet a frange sul torso nudo, collane,
bracciali e persino pantaloni a zampa di elefante (sic!). Insomma,
era un freakettone che girava per il west, aveva un rapporto di
vecchia amicizia con gli indiani Arrapaho (che ancora non avevano
subito lo sputtanamento mediatica degli Squallor) e flirtava
con una bella squaw chiamata Occhio d'Anitra (nome normalissimo per
una donna nativa americana, ma che all'epoca a noi faceva un po'
ridere). Questo Jesus (che in una successiva ristampa fu
ribattezzato con un più laico Colt, forse per paura di un
boicottaggio da parte dell'autorità cattolica non proprio incline a
porgere l'altra guancia, o forse solo per una perdita della capacità
di osare) iniziava la sua storia come una sorta di Conte di
Montecristo di frontiera. Era stato condannato ingiustamente al
carcere duro a seguito di un complotto, e una volta evaso inizia la
sua regolare vendetta. Jesus era un western per certi versi
canonico, per altri spiazzante dal punto di vista estetico,
soprattutto per lo strampalato protagonista, che comunque aveva
carisma da vendere. Anche la sua corsa durò poco. Oddio (e qui ci
sta) volendo più di altri, visto che riuscì a superare la ventina
di uscite. Un vero record per i suoi tempi. E il suo effimero ritorno
negli anni 90 (un'apparizione molto più breve dell'edizione
originale) fu sotto il più scontato dei nomi che un fumetto western
potesse avere.
Che dire al riguardo? Un pistolero
vestito come un hippy che si chiama Jesus? Be', erano gli anni
settanta, in fondo, e si potevano fare cose oggi impensabili.
Compreso vivere il kitsch come innovazione. Se nel film fotocopia (ma
in realtà visivamente molto più trasgressivo) de L'Esorcista
di William Friedkin, intitolato L'Anticristo (diretto da
Alberto De Martino) veniva mostrata un'allucinazione della posseduta
Carla Gravina che vede un santino raffigurante un Cristo che le
mostra un'enorme erezione senza che la cosa scatenasse neanche la
metà del finimondo innescato da L'ultima tentazione di Cristo
di Martin Scorsese... i fumetti popolari godevano di una parallela,
relativa libertà trash. Pellicole come Soldato Blu di Ralph
Nelson erano vietate ai minori, e avevano per i più giovani la
stessa aura maledetta di certi horror interdetti ai piccoli
spettatori. Tempo per capire che i nativi americani erano un popolo
vessato e violato dall'uomo bianco, ne sarebbe dovuto passare ancora
parecchio. E il Coyote, con la sua zucca pelata ma fascinosa,
poteva sventrare (e scotennare) i “musi rossi” come se fossero
stati un mucchio di anonimi vaganti in The Walking Dead senza
che la cosa suscitasse nel lettore nessun dubbio di natura etica,
storica e politica. Eravamo ingenui, ma anche più disponibili al
divertimento e alla meraviglia.
Nello stesso periodo, sempre dalle
edizioni Geis, esce Koko (ebbene sì, faceva ridere anche
allora. Provate oggi ad andare dall'edicolante e chiedere “E'
uscito Koko?”). Stavolta non si trattava di un western, ma di un
avventuroso esotico. Gli stilemi di casa Bonelli (che... uff... non
si chiamava ancora così) la facevano anche qui da padroni. Stesso
formato, stessa foliazione, stesso bianco e nero. La matrice,
stavolta, era in parte zagoriana. Koko era ambientato nel continente
nero, e il personaggio era una sorta di protettore del patrimonio
ecologico (l'eroe era rigorosamente di razza bianca, eh!). Ai testi
c'era Rubino Ventura (che si era fatto le ossa sui fumetti
sporcaccioni accanto a Leone Frollo) e ai disegni nientemeno che
Stelio Fenzo, vecchio leone del Vittorioso, collaboratore e
continuatore di opere di Hugo Pratt e anche lui a bordo della
corazzata di Renzo Barbieri come creatore assoluto di Jungla
(e si parlava sempre di donnine e donnone nudine). Koko era un
eroe ecologista con una patina alla Zagor, ma l'atteggiamento
paternalistico nei confronti dei nativi del luogo era molto smorzato
rispetto a quello del più celebre Spirito con la Scure. Inoltre non
si fingeva una divinità. Era più buffo (anche fisicamente), più
cialtrone, e aveva come compagna di avventure una buonissima leonessa
di nome Ly, ovviamente ingelosita dalla fidanzatina esploratrice di
turno. Un punto debole delle avventure, comunque godibili di Koko,
era l'invereconda ripetitività di certi meccanismi narrativi.
Per
ben due episodi di seguito, il protagonista si sottrae a una trappola
mortale che sotto alcuni aspetti anticipa quella di Indiana Jones ne
I Predatori dell'Arca Perduta. La prima volta è una fossa
piena di scolopendre velenose, la seconda è una caverna gremita
proprio di aspidi. In entrambi i casi, l'espediente di fuga era lo
stesso. Nel primo, si cosparge di una lozione contro le punture delle
zanzare che puzza come cento diavoli (gliel'aveva donata la sua
amorosa Vanessa... che evidentemente non ne aveva mai fatto uso) per
allontanare le bestiacce. Nel secondo, scopre da solo una pozza di
guano di pipistrello e ci si fa letteralmente il bagno (così noi
pischelli imparammo che per non farsi mordere dai serpenti bisognava
fare un bagno nella merda). Insomma, l'arma principale di Koko era la
puzza (ditemi voi se un fumetto simile non è indimenticabile!). Koko
durò circa una decina di albi (il decorso di queste influenze
fumettistiche anni 70 era più o meno questo) e oggi è finito nel
dimenticatoio come tutti gli altri, salvo che per il settore dei
collezionisti.
Ricordare oggi questi piccoli passi
editoriali, che hanno lasciato un'impronta nei ricordi di alcuni di
noi, ci fa riflettere anche sul cinema di genere italiano, allora in
auge e oggi completamente scomparso a beneficio di cinepanettoni e
affini. Come al cinema, nel fumetto, esisteva una cultura bis, una
tradizione dell'imitazione che in qualche modo poteva generare anche
piccole gemme. Certo, erano altri tempi, e le esigenze erano diverse.
E suonerà pure come una bestemmia per molti... Ma io ricordo con
tanta nostalgia Jesus, tanto strampalato da essere ipnotico,
molto più dell'inossidabile Tex.
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