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mercoledì 30 ottobre 2019

Titans: Chella Man è Jericho


Titans. Siamo oltre metà stagione, ormai, ed è sempre più evidente come l'obiettivo della serie DC Universe sia focalizzarsi sui personaggi, e fare prevalere la loro caratterizzazione sull'andamento della trama principale, che in ogni caso procede e si fa sempre più intricata. Abbiamo infine fatto la conoscenza di Jericho. Personaggio creato nei fumetti da Marv Wolfman e George Perez, qui interpretato da Chella Man alla sua prima prova attoriale. Sì, perché Chella è principalmente uno youtuber, un modello e un artista figurativo, ma credo si possa dire che, in una manciata di episodi, la sua prova di esordio sia tutt'altro che da disprezzare. Sordo nella vita, così come il personaggio che interpreta nella serie è muto, Chella Man è oggi uno dei primi attori transgender a interpretare un ruolo dal sesso definito, aprendo una buona volta la porta al fatto che i performers dall'identità sessuale fluida o in transizione, in genere condannati da Hollywood a recitare sempre e soltanto se stessi, possano rivestire qualunque parte esattamente come gli interpreti cisgender. 
Così come il suo corrispettivo a fumetti, Jericho è un personaggio tragico, figlio del principale avversario della squadra di cui si trova a far parte. Ma "Titans", la serie, segue una cronologia alternata, e presenta tanti aspetti ingannevoli (soprattutto per chi conosce i retroscena dei comic book) e tante cose sono ancora da chiarire. Con i suoi alti e bassi, ad ogni modo, "Titans" si sta confermando una serie molto interessante. Abbastanza diversa dalle letture live action dei fumetti supereroistici cui siamo stati abituati. E propone innovazioni che spingono a tenere d'occhio ogni sviluppo.


giovedì 17 ottobre 2019

E Titans continua...


Titans...
Ok, voglio Krypto. Lo so, probabilmente mi friggerebbe il gatto. Ma posso sempre provare a farli andare d'accordo.
A parte questo: Wow! Wow! Wow! Il modo di presentare Conner mi è piaciuto molto. Ed è interessante come i poteri di Superman (o di qualcuno simile a Superman) possano risultare inquietanti a seconda di come vengono raccontati. La serie Titans sta proponendo una buona caratterizzazione di eroi non sovraesposti quanto altri, e finora questo è il suo pregio maggiore. Insomma, per come la vedo io, continua a funzionare. E non vedo l'ora di sapere cosa succederà adesso.


giovedì 30 maggio 2019

Brightburn



In principio era “Il presagio”. Un bambino diabolico con un destino da compiere, e una serie di fatali incidenti che eliminavano quanti si mettevano sulla sua strada.
Oggi il male non è generato dal diavolo. Cade dal cielo, dalle stelle, sempre con le sembianze innocenti di un bambino. Non esita a sporcarsi le mani personalmente, e sovverte del tutto le aspettative messianiche che finora gli erano state attribuite. Non arriva per proteggere la terra, ma per conquistarla. Forse distruggerla.


Era nell'ordine naturale delle cose. Con lo sdoganamento definito dei supereroi sul grande schermo, che la loro versione al negativo volesse dire la sua, era soltanto questione di tempo. Ed ecco infatti arrivare “Brightburn”, film di David Yarovesky, prodotto da James Gunn e scritto dal fratello Brian in collaborazione con il cugine Mark (cose di famiglia, insomma). La rilettura al nero del mito di Superman non è una novità. Non lo è sicuramente nei fumetti, dove dimensioni alternative, storie immaginarie e variazioni sul tema hanno proliferato nel corso dei decenni. Su tutte, ricordiamo la serie “Irredimibile” (il titolo è tutto un programma) di Mark Waid, dove facciamo la conoscenza di un possibile Superman (qui chiamato il Plutoniano) che dopo essere stato per anni un eroe protettore della terra, perde la testa a causa dello stress e di una lunga catena di traumi, trasformandosi in un mostro onnipotente che dà inizio a una devastazione senza fine. E un Superman cattivo... ripetiamolo: Superman, l'Uomo d'Acciaio, più veloce di un proiettile, invulnerabile, fortissimo, che ti rintraccia ovunque solo sentendo il tuo battito cardiaco ed è in grado di ridurre tutto in cenere con uno sguardo... è un vero incubo. Dalla fantascienza avventurosa, quindi, si sconfina nell'horror, e l'eroe con superpoteri diventa il peggiore dei mostri possibili.


Se nel fumetto di Mark Waid tutto era già successo e una larga parte del racconto consisteva nello scoprire le ragioni della progressiva follia del protagonista, in “Brightburn” il discorso è più schematico. Il punto di partenza è quello canonico. Una coppia nel Kansas (ma qui la cittadina si chiama Brightburn invece che Smallville) fatica ad avere figli, finché una notte non cade dal cielo una navicella con dentro un bambino alieno.


Alieno. Una parola che nel caso di “Brightburn” andrebbe sottolineata più volte. Brandon Breyer (con l'allitterazione nel nome come Clark Kent) non ha bisogno di particolari traumi per sbroccare. I suoi genitori sono affettuosi, il contesto benevolo, e sporadici episodi di bullismo a scuola sono qualcosa di troppo blando per giustificare il suo veloce passaggio al lato oscuro. Una lezione di biologia all'inizio del film fornisce subito la chiave di lettura. Brandon è figlio di una stirpe che agisce come il cuculo, che mette il proprio uovo nel nido altrui affinché sia covato. E l'uccello intruso una volta rotto il guscio dimostra la sua vera natura di predatore.

Come già in passato (compresa la serie TV “Smallville”), un ruolo importante è svolto dalla navicella che ha portato il piccolo alieno sul nostro pianeta. Esiste un richiamo culturale che induce Brandon ad abbracciare il suo retaggio e a considerare, una volta raggiunta la pubertà, i terrestri come esseri fragili e prescindibili, che possono essere schiacciati come insetti non appena diventano inutili o appena molesti. L'assenza di empatia della natura di Brandon è il motore di tutto. Nel nuovo millennio, gli alieni non sono più buoni. Non sono E.T. E non sono nemmeno Superman. La scena post credito parla chiaro. Il superuomo qui è visto come l'avvento di una nuova generazione che probabilmente spazzerà via quanto rimasto del vecchio mondo, della sua storia e delle sue pretese di civiltà. In funzione di cosa non è dato sapere, ma l'orizzonte non è roseo e annuncia solo devastazione.

Il film di Yarovesky (irresponsabilmente intitolato dalla distribuzione italiana: “L'angelo del male”, come l'edizione nostrana di “La Bête humaine” di Jean Renoir del 1938 e come l'horror “The Prophecy II”, segno di grande originalità e rispetto per la storia del cinema) scorre bene e riesce a essere discretamente inquietante. Grazie anche al volto (di per sé già alieno) del giovanissimo attore Jackson A. Dunn. Il film ha qualche pecca sul piano logico e della costruzione di alcuni personaggi. La scoperta dei poteri di Brandon è forse troppo veloce, e risulta inverosimile che certi danni compiuti dal piccolo alieno non attirino l'attenzione dei genitori adottivi molto prima. La conduzione in stile slasher, però, funziona, e si giova di alcune sequenze gore realmente disturbanti. Il travestimento ideato da Brandon per le sue scorribande malefiche diventerà sicuramente un'icona. E chissà che non ci aspetti un sequel o un nuovo universo narrativo. Tutto dedicato, stavolta, a esplorare una versione distorta, negativa e malvagia di quelli che chiamiamo supereroi.

Adesso, però, sarebbe auspicabile una serie televisiva basata su “Irredimibile”. I tempi sono maturi e così il mezzo televisivo. Riscoprire un Superman che diventa lentamente malvagio in un'esplosione di follia e crudeltà, sarebbe una ghiotta occasione per un prodotto audiovisivo in linea con un mondo sempre più disincantato, in cui ormai si guarda con sospetto e paura anche chi un tempo immaginavamo come eroe.

mercoledì 6 marzo 2019

Captain Marvel: il nome (e nel nome) del Capitano



“Captain Marvel” è l'ultimo tassello del grande gioco cinematografico che dovrebbe vedere il suo punto d'arrivo in “Avengers: Endgame” (nomen omen), prima di una nuova (e a questo punto, direi, incerta) nuova fase. La quarta, nella quale molti fans sperano e proiettano (soprattutto nel fatidico numero) il ritorno in live action di un brand fumettistico finora al centro di letture insoddisfacenti.

Il film dedicato a Carol Danvers (questo il nome civile della protagonista) è a mio parere fortemente imparentato con il predecessore Ant-Man (il primo), e come questo si presenta al pubblico con la forma di una grande sintesi narrativa. Un gioco di specchi e rimandi (forse anche troppi) che cerca da un lato di accontentare i conoscitori della materia, da un altro di confezionare un prodotto commerciale che possa piacere un po' a tutti.

Ci riesce? Ni.

Già a proposito di “Ant-Man” la Marvel-Disney aveva scelto di puntare sull'identità più contemporanea del personaggio, e cioè Scott Lang, il ladro dal cuore d'oro, piuttosto che riscaldare la storia del brillante scienziato che sperimenta la sua scoperta su se stesso (Henry Pym). L'introduzione sullo schermo dell'Ant-Man originale con il ruolo di maturo mentore ha funzionato discretamente, e la vicenda del frastornato avventuriero catapultato in un complotto da fantascienza risultava più vendibile facendo sì che la sceneggiatura del film si scrivesse praticamente da sola, sfornando un prodotto fantastico per famiglie senza particolari lodi, ma più che digeribile.

In “Captain Marvel” l'intento è simile, ma la materia è ancora più complessa. Anche in questo caso il personaggio storico (l'alieno Mar-Vell, inviato come spia dall'impero Kree sulla terra per operare in segreto) aveva vissuto un arco narrativo lunghissimo e glorioso. Le sue gesta erano connesse a parecchi snodi delle saghe cosmico marvelliane. Era stato (Udite! Udite!) uno dei principali avversari dell'oggi popolarissimo Thanos, e alla fine aveva concluso la sua corsa morendo, a sorpresa, non tanto da eroe... quanto da essere umano, stroncato da una malattia che affligge tante persone comuni. Un'eredità narrativa pesante, quindi, per Carol, già Miss Marvel (controparte femminile dello storico eroe maschio), poi evoluta in Warbird (il nome Miss era e resta ridicolo) e poi in Binary, la stella umana, sulle pagine degli X-Men. Se Scott Lang, come Ant-Man, s'era già guadagnato una discreta fama nei fumetti, la lunga e contorta carriera di Carol non aveva aiutato a farla emergere presso il pubblico più vasto. Troppe identità, troppe ripartenze, fino alla scelta di assumere (appena nel 2012) il nome di battaglia dell'eroe al cui fianco si era battuta, esordendo nei lontani anni 60. Un codice palinsesto di personaggi, di riscritture, di caratterizzazioni e di diverse origini che si sovrapponevano.

Ma il problema non è neppure questo. Il film diretto da Anna Boden e Ryan Fleck è un giocattolone che presenta un gioco di specchi, in qualche caso barando anche un po'. E per quanto si sforzi (a tratti riuscendoci pure) di essere simpatico, presenta ormai la pesantezza di un ingranaggio di cui conosciamo troppo bene il funzionamento per sorprenderci davvero. Inoltre, cerca di reinventare la storia di origini affidandosi a un sistema di flashback, ma soprattutto di falsi indizi che potrebbero essere il punto di forza del film, ma nello stesso tempo rischiano di essere il suo tallone d'Achille.

“Captain Marvel” è un film fatto di nomi. Nomi che non vengono pronunciati (o mi sono distratto io?) se non quando il racconto è avanzato. Di nomi di battaglia che non esistono se non nel titolo della pellicola (nessuno pronuncerà frasi come «Io sono...» ed è meglio così). E di trabocchetti narrativi nascosti in bella vista, che se chiamati per nome, appunto, sarebbero rivelatori sin dall'inizio per i “veri credenti” (espressione coniata da Stan Lee e nel film apertamente citata, in quello che è il primo dei camei postumi del grande architetto della Marvel). L'apparizione inattesa (io non sapevo neanche che sarebbe stata presente nel film) di Annette Bening in un doppio ruolo, fa parte di questo gioco di specchi ed è uno degli elementi che probabilmente farà più discutere i fans. Quasi sicuramente per le ragioni sbagliate.

Il problema vero di questo “Captain Marvel” è il tentativo di riassumere tanto lavorando sottotraccia, con il risultato che il film decolla davvero solo quando il racconto ha cominciato a scoprire le sue carte, dando una sensazione di cesura forse troppo netta. Come se si stesse assistendo a due film in uno. La prima parte risulta confusa e soffre di una schematicità che rischia di far sembrare il primo tempo l'episodio pilota di una serie televisiva arrivata fuori tempo massimo. La seconda parte si giova della spinta avuta dai vari twist, ma la ricetta Marvel è tiranna, e la formula matematica che ormai sappiamo a memoria non regalerà nessuna ulteriore sorpresa. La protagonista è carismatica, ma il suo carattere è più descritto che realmente mostrato, e vederla trasfigurarsi nelle sue varie incarnazioni fumettistiche non basta a soddisfare lo spettatore Marvel della primissima ora. Non quelli più stanchi, almeno, e ormai assetati di un linguaggio cinematografico che sia sempre più cinema e meno fumetto, a prescindere dai tributi alle letture passate. E i buchi di trama, le trovate cacciate dentro a forza (una su tutte bella ingombrante) si accettano più per compiacenza con la festa cartoonistica in corso che per suggestione.


Per questo, “Captain Marvel”, pur essendo nel complesso un film gradevole, risulta solo un trait d'union con l'imminente “Avengers: Endgame”, che completerà il puzzle già in parte composto da “Infinity War”. Un interludio, un riscaldamento, in attesa dell'atto finale dello spettacolo generale. Per questo i film Marvel (il termine cinecomic è troppo generico) vanno considerati film molto particolari, e non sono (non possono essere) omologabili con altro cinema. Non si tratta nemmeno di etichettare cinema vero e cinema finto. Si tratta di generi, di regole di gioco e di attitudine a un tipo di intrattenimento (assolutamente non obbligatorio) sotto certi aspetti inedito. Per questo, concluso il grande giocattolo composto da pezzi che si incastrano (più o meno) bene tra loro, e l'arazzo cinematografico che rilegge un media diverso, si potrà fare un passo indietro e contemplare l'opera nel suo insieme. E allora, a mente fredda, magari a distanza di anni e lontani da inutili tifoserie da stadio, dire in che misura lo spettacolo multiplo ha funzionato. I film della fase successiva avranno bisogno di parecchia inventiva e di una discreta capacità di osare, o essere benevoli con questo trend commerciale diventerà davvero difficile.

Se lo consiglio? Diciamo che non lo sconsiglio. E lo faccio per partito preso. Una blogger cinefila che stimo molto ha recensito positivamente “Aquaman” definendo il film di James Wan uno dei più stupidi che abbia mai visto, ma affermando che l'ha tanto divertita proprio grazie alla regia kitsch dello stesso Wan. Personalmente, non ho condivido il suo divertimento, ma riconosco che i motivi per apprezzare un film possono essere vari. E soprattutto nell'ambito dei film “sciocchi” non è neppure il caso di starci a pensare troppo. L'importante è non dimostrarsi più sciocchi dei film facendo partire inutili zuffe o gare di competenze che non esistono. E “Captain Marvel” nel suo marasma, nella sua prevedibilità, un paio di cosette le azzecca. Almeno per i fans Marvel di vecchia data. Per il pubblico generalista, onestamente, non saprei.

P. S. Stavolta nel cinema non è successo niente di insopportabile, in confronto ho affrontato visioni davvero apocalittiche. Rimane il fatto triste che il pubblico in sala si dimostra puntualmente di una maleducazione stratosferica. E il tormentone «Maledettiiiiiiii!» urlato, ha ormai rotto tre quarti di minchia.

martedì 12 febbraio 2019

Umbrella Academy [di Gerard Way e Gabriel Ba']


C'era una volta una scuola, anzi: un accademia. C'erano una volta i mutanti. Anzi, no: dei bambini nati per virtù di... non si sa bene cosa. C'era uno scienziato telepate... no, era un alieno miliardario in incognito. “Umbrella Academy” è un fumetto di supereroi che non è un fumetto di supereroi. Cioè... lo è. Ma nello stesso tempo no. E... insomma... un casino. Un casino fottutamente divertente. Dalla mente del cantante dei My Chemical Romance e dalla matita di Gabriel Bà, il surreale fumetto (vincitore del premio Eisner) che ha ispirato l'omonima serie Netflix.

lunedì 24 dicembre 2018

Titans: tirando le somme della prima stagione


La prima stagione di "Titans" si conclude (o meglio, s'interrompe) con un cliffhanger tesissimo, lasciando aperte molte sottotrame. Il fatto bizzarro è che lo show era stato annunciato come una stagione di 12 episodi. Invece - sorpresa - si conclude con l'undicesimo episodio. Pare che gli show runner abbiano deciso che la puntata 12 (comunque già girata) fosse più adatta ad aprire la seconda run della nuova serie dedicata al gruppo di supereroi della DC Comics. Decisione inusuale, ma forse non sbagliata. I nodi da sciogliere rimasti, infatti, sono parecchi, e una puntata in più non avrebbe cambiato molto. La scena post credits della puntata 11, inoltre, si conclude con la sortita di un nuovo personaggio fondamentale che sicuramente giocherà un ruolo importante nel prosieguo dell'avventura.

Tirando le somme di questi undici episodi, in definitiva, mi sento di confermare l'interesse di questa serie. E anche una certa dose di coraggio nell'approcciare personaggi iconici con uno spirito rispettoso ma creativo, declinandoli secondo una visione cruda e adulta, nei limiti di una storia che presenta eroi con superpoteri. "Titans" è un discreto esperimento di rilettura, capace di giocare con le aspettative degli appassionati spiazzandoli, ma anche intrigandoli. Sicuramente farà discutere. Certi elementi trapelati negli ultimi trailer hanno già fatto storcere il naso a molti appassionati, sebbene gli spunti mostrati fossero ingannevoli e da osservare in una prospettiva che richiede la conoscenza dell'intera serie per essere compresi in modo corretto. Senza entusiasmi esagerati, ma senza nessuno scandalo per vilipendio, "Titans" porta a casa un buon risultato. E apre la strada all'arrivo di "Doom Patrol" dopo l'antipasto servito in questa prima stagione.


domenica 14 ottobre 2018

Titans: Un inizio sconcertante, ma...


Visto "Titans". Giusto l'episodio pilota del già controverso adattamento televisivo dei "Teen Titans" fruibile sul servizio streaming on demand DC Universe e presto anche su Netflix. "Controverso" già per primi trailer e rumors, "Titans" va a collocarsi in una dimensione DC Live Action quanto mai tumultuosa e divisa. Tra discutibili adattamenti cinematografici giunti troppo tardi a inseguire i fasti del rodato Marvel Cinematic Universe, e serie televisive (quelle targate CW) che raccolgono tanto consensi quanto critiche, contribuendo a confondere sempre più un immaginario distante dalla coerenza costruita dalla Marvel. Ancor di più confonderà e farà discutere questo "Titans", pare già confermato per una seconda stagione all'indomani della pubblicazione del pilota. Una cosa è sicura. Vedendolo, i puristi si incazzeranno come iene. La fanbase dei fumetti si straccerà le vesti, ululerà al sacrilegio, si rotolerà in preda alle convulsioni graffiandosi la faccia, urinerà e defecherà in pubblico salmodiando in aramaico, scalerà le pareti lisce e Cthulhu sa cos'altro. Inutile illudersi. Succederà, e Internet sanguinerà, assieme all'anima nerd delle schiere.

Nondimeno... al sottoscritto questo episodio iniziale... è piaciuto.



O forse sarebbe più corretto dire che non gli è dispiaciuto. Parliamo pur sempre di un episodio pilota, e sospendere il giudizio definitivo sarebbe cosa buona e giusta. Tanto più che la serie si presenta da subito con una trama decisamente orizzontale. Sono consapevole che la cosa mi porterà critiche e pernacchie. Mi rassegnerò. Non sono anticonformista per partito preso, ma sono possibilista quando si tratta di narrazioni.  Vediamo di capire perché.

Partiamo dai tasti dolenti.
Si è detto, esaminando il trailer: "E' troppo dark. E il dark ha rotto il cazzo!"
Ok. Precisiamo che questo commento si basa sull'esito non proprio felice del Superman di Zack Snyder e (ancora peggio) sul Batman v. Superman dello stesso regista, che tanto hanno fatto soffrire gli appassionati. Due pellicole nelle quali, probabilmente per una malintesa digestione della trilogia di Christopher Nolan sul Cavaliere Oscuro, si è optato per un tono cupo delle atmosfere.
Bene. "Dark", in fondo, è soltanto una parola. Come lo è "Comedy". Presa da sola non è né buona né cattiva. Tutto sta a vedere la resa del prodotto cui si applica. Nel caso di "Titans", poi, il dark non c'è. Esatto. "Titans" non si può definire una serie supereroistica dai toni dark. "Titans" è nero. Anzi, nerissimo (anche questa è un'etichetta). Nero come la pece, che non lesina una discreta componente splatter nelle sue frequenti esplosioni di violenza. Il concetto di base che si coglie dalla visione è che il progetto stia tentando di giocare un'altra carta, parzialmente inedita rispetto all'ormai familiare "dark" che ha stufato tanti. "Titans" si propone di avere un approccio ai supereroi che mescola toni da horror soprannaturale a elementi crime. Un mondo in cui i superpoteri fanno paura, se non hanno un'origine diabolica, sono di provenienza aliena e del tutto amorale, e sono usati in modo spietato. Il bene e il male si confondono e l'idea stessa di eroe in costume si sfoca.


Detto questo, possiamo mettere una pietra tombale su una questione. Chi cerca in questa serie i Teen Titans dei fumetti... beh, se li può scordare.
Prendiamo Robin, il Dick Grayson oggetto di polemiche già dalla sua prima apparizione nei trailer, da quel famigerato «Vaffanculo, Batman!» che segnalava di per sé una distanza dalla fonte cartacea. Anche qui c'è da rassegnarsi. Il Dick Grayson che vedrete non è quello cui siete abituati dalle pagine dei fumetti. Forse è un Punisher con pose da ninja e gadget raffinati. Non si può negare che la violenza di questo Robin lasci scossi, e se il trailer vi ha dato fastidio, la scena di combattimento nella prima parte dell'episodio pilota si farà venire un attacco di itterizia. Il perché e il per come di questo suo comportamento è ancora tutto da scoprire (ci è stato suggerito da alcuni rumors). Diciamo che Dick è alla ricerca di una sua identità e di un affrancamento da chi lo ha addestrato in un certo modo. Vorrebbe non essere più Robin, lo vediamo esitare a infilarsi nel costume da vigilante. Eppure non riesce a evitarlo. Un po' come Rachel-Raven, che sente emergere la sua natura demoniaca e a tratti è costretta a scatenarla.
Quindi siamo distanti dalle controparti cartacee. E' un fatto. Piaccia o non piaccia. Personalmente, la cosa non mi ha turbato più di tanto. Arrivando addirittura a pensare di dare una chance a questa serie, e scoprire come evolverà.

Perché? Perché, a mio modesto avviso, la fedeltà alla fonte fumettistica non è una virtù inviolabile. Tutto è subordinato all'interesse della narrazione, alla capacità di intrattenimento del prodotto. E se questo riesce in qualche modo ad agganciare la mia attenzione, riesco a infischiarmene se un personaggio non è identico alla sua controparte di carta. "Titans" sembra proporre in modo dichiarato quello che nei fumetti è definito un "elseworld", una realtà alternativa, dove i personaggi hanno fatto percorsi differenti da quelli canonici. La accettiamo nei fumetti, perché non farlo nelle trasposizioni live action, sempre che la narrazione funzioni. Il tradimento del personaggio di Robin (cosa che la maggioranza non perdonerà, ne sono sicuro) è da rapportare a un quadro generale. Tutti i protagonisti sono versioni totalmente rivisitate degli eroi che conosciamo. I loro caratteri, il loro look, la loro storia personale. Starfire, criticata e sbeffeggiata sin dall'apparire delle prime foto, è forse la più spiazzante. Non per il fatto che sia nera (questa resistenza ha rotto le palle ed è diventata stucchevole quanto e più della tendenza del cambio di etnia in uso a Hollywood). Ma per il suo look appariscente, kitsh, da battona. Quel che spiazza è l'introduzione del personaggio, ancora misterioso, in cui - senza fare spoiler - il look da prostituta potrebbe rivelarsi tematico e addirittura contestuale al racconto. Tutto sta ad accettare la riscrittura dell'origine e della natura di questa creatura aliena (quale cazzo è il suo vero aspetto non si sa), e soprattutto a comprendere che non si è tentato minimamente di renderla visivamente simile al suo omologo a fumetti. La Starfire vera è dentro un involucro, una maschera, e la giustificazione (o meno) dipenderà dal prosieguo della storia.



Il clima da racconto horror è inoltre l'altro elemento che (a dispetto di molti) rende per me curiosa questa lettura. Era prevedibile che la storia diabolica di Raven facesse da filo conduttore. La scena iniziale (un mix tra cronaca di origini e citazioni da L'Esorcista) in qualche modo è un biglietto da visita che dice tutto. La cattiveria da vigilante di Dick, la visione lontana di un Batman violento, si incastrano abbastanza bene in un'atmosfera del terrore, dove più che il bene si dovrà scegliere il minore dei mali, e dove essere supereroi è qualcosa di fottutamente inquietante.

Insomma, "Titans" sembra partire come un esperimento. Un esperimento ancora lontano dall'essere concluso e riuscito. Diciamo che questo inizio ha centrato l'obiettivo di interessarmi, proprio per la sua capacità di disattendere le aspettative. Cosa che potrebbe anche essere un pregio, perché vedere riprodurre pari pari i propri eroi sullo schermo solletica un tipo di piacere nerd. Vederli diventare materia per costruire una forma diversa, con tutti i rischi del caso, titilla altre forme di perversione ludica. Se "Cloack and Dagger" falliva, trasmettendo soprattutto noia, questo "Titans" se non altro, spiazza e incuriosisce. Incuriosisce me, proprio perché trasgredisce.

Vedremo che cosa ci riserveranno i prossimi episodi. Adesso, attendiamo i flame e facciamo: OMMMMMMMM....

giovedì 27 settembre 2018

Super Ergo Sum: Identità (più o meno) segrete


Un elemento fondamentale del supereroe è l'identità segreta. O almeno lo era per quelli più classici. E oggi? E' cambiato qualcosa? Perché alcuni eroi indossano una maschera e altri no? E se fosse solo un gioco delle parti tra eroi e lettori per comunicare qualcos'altro? Proviamo a mettere e poi togliere la maschera, e vediamo che cosa succede.

domenica 2 settembre 2018

Batgirl: del sessismo e altri demoni



La storia, i cambiamenti culturali, sono tanti e possono essere strani. E certi episodi di oggi richiamano alla memoria episodi di ieri. A volte simili, a volte diametralmente opposti. Può capitare, nell'ambito del fumetto americano, pensando al personaggio di Batgirl. Protagonista, qualche tempo fa, di una polemica sorta in rete a causa della cover (ritirata in seguito alle accuse di sessismo) disegnata da Rafael Albuquerque che raffigurava Barbara (Batgirl) in balìa del Joker, intento a disegnarle il suo iconico ghigno sulla faccia. La copertina intendeva essere un rimando al classico racconto “A killing Joke” di Alan Moore, in cui il Joker storpiava l'eroina condannandola a una sedia a rotelle sulla quale sarebbe rimasta per molti anni. Dopo la sua guarigione e il rilancio della sua serie, Batgirl si sarebbe di nuovo confrontata con il terribile criminale, e tutti i suoi traumi sarebbero (come è normale che sia) riemersi. 

La cover di Albuquerque non faceva che sintetizzare questo, oltre a collocarsi in una tradizione classica di copertine supereroistiche che vedono l'eroe (o l'eroina) in difficoltà, spesso alla mercé di un avversario che appare vincente per ragioni di climax.
Nello stesso periodo, analoghe polemiche sorsero per uno dei poster pubblicitari del film “X-Men: Apocalypse” che vedeva il personaggio di Mystica (interpretato da Jennifer Lawrence) strozzato dal villain del film. I significati erano i medesimi di sopra. Le copertine degli albi di supereroi tendono a mostrare il protagonista (o alcuni tra essi) in seria difficoltà, per sottolineare la drammaticità dello scontro e la loro possibilità di perdere. Anche nel caso del poster promozionale scoppiò la polemica, e si sentì dire che istigava alla violenza sulle donne. Ma torniamo a Batgirl.

E' buffo ricordare come nel 1968, su “Detective Comics 371 (episodio pubblicato anche in Italia nei primi anni 70), Batgirl sia stata protagonista di una scena davvero ferocemente sessista. Passata inosservata tanto nell'America degli anni sessanta che da noi, dove gag del genere (aimé) tendono pericolosamente a riemergere. La situazione era classica. Batman e Robin stanno lottando contro un gruppo di criminali. I malfattori sono tanti e i due giustizieri rischiano di avere la peggio. Sopraggiunge Batgirl, ma... la sua tuta attillata si scuce e la donzella sconvolta si sente persa. Sulla copertina originale, Batman chiede esplicitamente l'aiuto della ragazza dicendo «Qui abbiamo un problema!». La risposta di lei lascia di stucco: «Ne ho uno più grande. Mi si è scucita la tuta!»


Pertanto, anziché correre i aiuto dei colleghi, la ragazza pipistrello si china a contemplare preoccupata la lunga smagliatura sulla sua gamba, flettendola come solo una star del Crazy Horse saprebbe fare. Il risultato (altrettanto grottesco) è la reazione dei maschi criminali, subito distratti dalle grazie della femmina (e infatti gridano: «Che gambe!»), e per questo sopraffatti dal dinamico duo.

L'episodio, realizzato da Carmine Infantino e Gil Kane, è davvero imbarazzante. E dimostra il suo contenuto sessista con una circolarità a suo modo esemplare. La storia si apre con un flashforward fuorviante (all'epoca era una pratica diffusa), cioè un anticipazione della trama in cui però le cose non andranno esattamente così (un po' come in certe copertine). Nella prima, emblematica, vignetta vediamo già Batman e Robin combattere contro i criminali, e Batgirl, in disparte, passarsi serenamente il rossetto sulle labbra mentre si guarda civettuola in uno specchietto. La didascalia di apertura recita così: “Quando una donna è una donna? In ogni momento del giorno e della notte. Persino Batgirl. Anche quando combatte il crimine, si preoccupa del suo aspetto.”

Quando l'incidente del costume strappato (e della rissa con i criminali) si sarà concluso, la pietra tombale sulla parità dei sessi sarà messa dai commenti di Batman.
«Stavolta la tua femminilità si è risolta a nostro vantaggio e a discapito dei delinquenti. E' stata una fortuna che il tuo costume si sia strappato proprio in quel momento.»


La storia si conclude con Barbara in borghese che ripensa all'accaduto, e ci rivela di avere strappato deliberatamente la sua tuta per distrarre i criminali e dare ai suoi alleati la possibilità di sopraffarli. Non è che la sostanza cambi molto. Anzi, conferisce epicità e ragion d'essere a fumetti successivi, esplicitamente grotteschi e provocatori come la Kekko Kamen di Go Nagai, la guerriera che nasconde il volto, ma mostra il corpo, combattendo nuda. Il sessismo di base si taglia con il coltello. Ma erano altri tempi. O forse no?

Da un lato oggi potremmo scandalizzarci nel vedere la donna guerriera troppo presa dalla cura del suo aspetto, o usare le sue forme femminili per confondere dei criminali evidentemente guidati solo dagli ormoni (che succedeva se tra questi c'era un gay, magari armato di pistola?). Da un altro, assistiamo a un'alzata di scudi causata da una copertina come quella di Albuquerque, in cui l'eroina subisce un trattamento paritario (peraltro già visto) con quello suoi omologhi maschili. E' paradossale considerare come alla fine degli anni sessanta, una descrizione decisamente inopportuna del personaggio sia passata inosservata (del resto erano quegli anni lì) mentre oggi, una lettura contestualizzata e codificata dell'eroe in tuta (sia uomo che donna) sia stata vista da alcuni come qualcosa da condannare.

Questa specifica polemica risale già a qualche tempo fa, ma è rappresentativa di un sentire che ultimamente riguarda sempre più spesso i comics americani, e soprattutto quelli supereroistici. Recentemente, in una storia di Superman su Action Comics, lo sceneggiatore Brian Michael Bendis, dopo un'onda polemica, è stato costretto a modificare il termine “autistico” usato da un villain per insultare un sottoposto. Ripulire il linguaggio dei personaggi negativi lascia perplessi, in quanto condurrebbe a un impoverimento delle caratterizzazioni. Ma evidentemente sta succedendo qualcosa. L'industria che produce certo fumetto sta cambiando e si adatta a un sentimento popolare indifferenziato che ormai, nell'era di Internet, trova ovunque bersagli cui mirare. Non si parla di politicamente corretto, espressione abusata e spesso confusa con scelte di marketing volte a catturare nuove fette di lettori (e spettatori) presso etnie un tempo poco rappresentate. Non c'entra neppure la cura del linguaggio, ma una trasformazione dell'intrattenimento influenzata dal megafono (democratico?) della rete. C'è da chiedersi se la rete non abbia dato forma (anche) a forme isteriche, che insieme ad altre logiche di mercato stanno plasmando l'industria del comics popolare come un prodotto per famiglie, anestetizzato e purgato da tutto ciò che può suscitare discussione.
E' solo un interrogativo, non un elogio del politicamente scorretto. Altra questione e altra etichetta, spesso a sua volta mitizzata.

giovedì 23 agosto 2018

Fantastic Four: un nuovo numero #1


La prima famiglia Marvel ritorna dopo un periodo di letargo. Molte aspettative e un cast di autori collaudato. Siamo solo all'inizio, ma certe cose non cambiano mai. 
«Io ti osservo, Marvel! Io ti OSSERVO!»

martedì 31 luglio 2018

Capitani Meravigliosi - 5



E alla fine arriva... Carol. Il Capitan Marvel femminile attualmente detentore del titolo e destinata a essere protagonista del film in live action omonimo, cosa che lascia supporre una sua rinnovata iconicità e il perdurare del suo ruolo nel cosmo Marvel fumettistico. Abbiamo detto “alla fine”, ma non per ultima. Carol Danvers, al contrario, arrivò proprio in principio, nelle primissime storie del Capitano Marvelliano. Carol era un ufficiale dell'aeronautica americana e responsabile della sicurezza di un'importante base militare. Il suo ruolo la portò precocemente a incrociare la strada con Mar-Vell (che all'epoca era venuto sulla terra come spia) e a essere salvata da questi, innamorandosene senza speranza (l'amore della vita di Mar-Vell era la dottoressa Kree Una, al centro di un classico triangolo fanta-soap-operistico). Carol rimase comunque a lungo un comprimario importante del Capitano per buona parte della sua carriera, finché non fu coinvolta in una battaglia che la vide investire da un'onda energetica, e quindi sparire temporaneamente di scena. Qualche tempo dopo, si scoprì che l'esplosione del dispositivo alieno aveva alterato la sua struttura fondendola con quella di Mar-Vell, trasformandola di fatto in un ibrido terrestre-Kree e dotandola degli stessi poteri del Capitano. La Marvel (la casa editrice) stava pianificando una versione femminile di Mar-Vell (come già nel mondo Fawcett esisteva Mary Marvel, controparte di Marvel-Shazam) e la scelta cadde su Carol che diventò così Miss Marvel.


Era l'inizio di una gavetta supereroistica che sarebbe durata circa 35 anni, e avrebbe fatto passare Carol attraverso una lunga serie di trasfigurazioni. All'inizio delle sue avventure, il rapporto tra Carol e la sua nuova natura Kree aveva dello schizofrenico. Le due identità condividevano il corpo, ma agivano ognuna per proprio conto (come il personaggio DC della Spina). Presto le due nature di Carol si fusero e Miss Marvel iniziò una lunga militanza tra gli Avengers. Il personaggio, però, era irrequieto. Lo erano gli sceneggiatori, e i lettori anche. Una serie di intrighi incrinò il rapporto di Carol con i compagni di squadra, ma soprattutto, per intervento dello scrittore Chris Claremont, la scena le fu rubata (letteralmente) da un nuovo personaggio che i lettori avrebbero amato molto di più. Rogue, futura punta di diamante degli X-Men, ma inizialmente membro della Confraternita di Mystica, aggredì Carol e ne assorbì integralmente i poteri e la mente. Il risultato fu per Carol il coma, per Rogue l'acquisizione di tutti i poteri dell'altra e la presenza della sua identità dentro di sé, pronta a emergere senza preavviso, realizzando la convivenza in un solo corpo tra una ragazzina arrabbiata e un'esperta donna con addestramento militare (tornava il tema della schizofrenia).

Mentre Rogue intraprendeva il suo cammino di redenzione tra le fila degli X-Men, Carol fu in qualche modo curata dal telepate Charles Xavier, che tentò di ripristinarne i ricordi e la personalità. Il risultato fu una donna nuova che conservava i ricordi di Carol, ma non poteva condividerne del tutto le emozioni («Forse un giorno, Rogue proverà per voi quello che dovrei provare io» ...esattamente). Ad ogni modo, la appena risvegliata Carol Danvers condivise con gli X-Men l'avventura nello spazio contro la genia di alieni noti come la Covata. E siccome piove sempre sul bagnato, fu sottoposta a degli esperimenti che si innestarono sulle tracce rimaste della precedente influenza Kree. Carol attinge ai poteri di un'entità cosmica definita Buco Bianco e diventa Binary, un essere spaziale che andrà a cercare una nuova ragione di esistenza tra le stelle.
Ma come cantano gli After Hours: non c'è niente che sia per sempre (e soprattutto la Marvel è incostante da paura). Nel tempo, il potere di Binary si affievolirà lasciando riemergere le originali caratteristiche di Miss Marvel. Insomma, lo status quo di Carol Danvers viene praticamente ripristinato. Oddio, almeno in parte, visto che tutti glie eroi Marvel sono nati per soffrire.


Tornata a militare con gli Avengers, Carol (spinta dagli editor) decide che il nome Miss Marvel è stucchevole, soprattutto se attribuito a una virago forzuta e volante. Ed ecco cambiare il nome di battaglia in Warbird. Ma non tutto oro è quel quel riluce. I trascorsi di Carol (le esperienze nello spazio come Binary, le continue cicliche trasformazioni, i fallimenti editoriali, vorrei vedere voi...) le inducono una forma di depressione che la spingono sulla strada dell'alcolismo. Cosa che la farà nuovamente allontanare dagli Avengers. Seguono una serie di rimpasti, narrativi ed editoriali, con ritorni e ulteriori uscite dalla squadra ammiraglia di casa Marvel. Alla fine (per ora), dopo altre cento battaglia anche interiori, Carol decide di prendere il nome di Capitan Marvel in memoria dell'eroe Kree che tanta influenza ha avuto sulla sua vita, e indossa un'uniforme che ne recupera lo stemma (ma con un design più contemporaneo). Attualmente è anche a capo di una squadra di Avengers ed è ritenuta una delle personalità più influenti del cosmo Marvel. La sua lunga esperienza, militare e di super-eroina, le conferiscono autorità, e pare che per lungo tempo rimarrà l'unico Capitano Meraviglioso della Casa delle Idee. 

L'accento, oggi, è posto sul concetto di eredità, il cammino di Mar-Vell da spia a difensore della terra, i suoi legami con l'impero Kree, si specchiano nelle vicissitudini, nelle crisi e nelle rinascite di Carol, che per prima lo ha conosciuto. La meraviglia, attualmente, è la pertinacia di un personaggio che ha cambiato pelle molte volte, tuttora resiste e che oggi si prepara a conquistare il cinema.
Per concludere, come cantava Domenico Modugno: «Meraviglioso!»

lunedì 30 luglio 2018

Capitani Meravigliosi - 4



Dopo la morte del primo Capitan Marvel propriamente marvelliano (in senso editoriale), le cose si fanno confuse (e a tratti anche ridicola). Infatti, il nome di battaglia di quello che nelle intenzioni dell'azienda avrebbe dovuto essere l'eroe portabandiera inizia a rimbalzare tra più personaggi, nessuno dei quali eguaglia il carisma del capostipite. Prima erede del titolo di Capitan Marvel è la poliziotta afroamericana Monica Rambeau, personaggio che non aveva nessun legame con Mar-Vell se non la scelta del titolo. L'eroina militò tra gli Avengers e arrivò a diventarne anche il leader per qualche tempo, quando si vide “plagiato” il nome d'arte da Genis-Vell, il figlio del Capitan Marvel originale. 


Questi (inizialmente chiamato Legacy) era stato concepito in provetta partendo dalle cellule del soldato Kree, e ne condivideva l'aspetto e i poteri. A differenza del padre biologico, però, il terzo Capitan Marvel è parecchio instabile. E col tempo finisce col rivelarsi una minaccia per l'universo, morendo e resuscitando ben due volte tra perdite di controllo e temporanei ravvedimenti. La cosa buffa è che, dopo la sua prima resurrezione, il personaggio decise di cambiare nome in Photon. Stesso nome adottato dalla Rambeau dopo che le era stato soffiato l'appellativo di Capitan Marvel (povera stella!). Ad ogni modo, Genis-Vell a un certo punto si decise a morire per davvero e uscì di scena come si conveniva a un fallimentare succedaneo.


Ad assumere il manto di Capitan Marvel è allora Phyla-Vell. Una... ipotetica sorella di Genis-Vell. In realtà inesistente fino a qualche tempo prima, ma generata dai giochetti del fratello con l'universo che avevano finito con alterare la realtà (Aaaaarg! Che bordello!). Phyla-Vell è dunque la prima versione femminile di questo Capitan Marvel, del quale ereditava tutte le caratteristiche e il ruolo di paladino cosmico. Ma come Marvel ha vita breve, evolve assumendo il nome di secondo Quasar (Capitan Marvel non è l'unico a ispirare successori) e viene infine uccisa da Thanos durante una delle sue tante performance in cui fa terra bruciata in giro per l'universo.

La storia del quinto Capitan Marvel è, se possibile, ancora più incasinata. Creato dallo scrittore Grant Morrison con il nome di Marvel Boy, Noh-Varr era un alieno Kree, ma giunto sulla nostra terra da una dimensione alternativa e quindi digiuno di tutte le relazioni inerenti alla realtà condivisa fino a quel momento. Appena giunto sul pianeta è coinvolto in vari intrighi di potere e il suo carattere bellicoso lo porta inizialmente a sviluppare un discreto risentimento nei confronti dei terrestri (un po' come il Sub-Mariner dei primi tempi). Il personaggio è preso in mezzo a vari crossover marvelliani, quali Secret Invasion (l'invasione segreta degli alieni mutaforma Skrull) e Dark Reign, durante il quale entra a far parte dei Dark Avengers di Norman Osborn in cui ogni membro era una versione distorta e perversa dei veri eroi. Osborn affida così a lui il ruolo di Capitan Marvel (aridaje!). Ma nonostante la testa calda, Noh-Varr è fondamentalmente una brava persona, e compresi i malvagi piani di Osborn diserta per diventare un vero eroe. Non sarà tuttavia l'ultimo, né il definitivo Capitan Marvel a portare questo nome.

Nel frattempo, ha luogo l'evento editoriale “Marvel contro DC”, in cui gli eroi di entrambe le ditte concorrenti si incontrano e si scontrano... finendo a un certo punto per amalgamarsi temporaneamente. In quell'esperimento goliardico che è definito “Universo Amalgam”, tra le file della JLX (la fusione di Justice League e X-Men) incontriamo... Capitan Marvel. Sintesi tra il primo Marvel-Shazam e il soldato Kree marvelliano.
In qualche modo, il cerchio si stava chiudendo...




sabato 28 luglio 2018

Capitani Meravigliosi - 3


 

Nel 1967, la Marvel Comics si era ormai aggiudicata il diritto di usare quello che era diventato il proprio nome editoriale (la casa, nel tempo, si era chiamata prima Timely e poi Atlas) preceduto dall'appellativo di capitano. Era giunto dunque il momento di lanciare un personaggio che portasse il nome di famiglia e rimpiazzasse nella memoria dei lettori più maturi i vari “Marvel” delle defunte edizioni Fawcett (il primo Capitan Marvel-Shazam, aveva infatti uno stuolo di comprimari, tutti radunati sotto il nome di Marvel Family). Ecco nascere dunque il marvelliano (tautologico) Capitan Marvel, su testi di Stan Lee e disegni di Gene Colan. Stavolta si trattava di un alieno Kree, razza extraterrestre che si era già affacciata molte volta nella continuity condivisa dei supereroi del rampante colosso editoriale. Il suo vero nome era Mar-Vell, nome alieno che per un capriccio del caso faceva assonanza con la parola inglese “Marvel”, mentre la qualifica di capitano era il suo effettivo grado militare nella flotta Kree. Mar-vell, inizialmente, era una spia inviata dal suo governo per tenere d'occhio gli infidi terrestri e per eseguire ai danni del pianeta dei veri e propri sabotaggi. La natura nobile di Mar-Vell, però, insieme all'avversione per gli intrighi politici e personali dei suoi superiori, lo portò a tradire la propria razza e a usare le sue capacità per difendere i terrestri, diventando un rinnegato interplanetario. Qui la storia di Superman è sostanzialmente specchiata e riscritta. In origine abbiamo un bambino alieno superstite di un pianeta distrutto che allevato sulla Terra ne diviene il protettore essenzialmente per influenze culturali. Mar-Vell arriva sulla terra da adulto, indottrinato dal proprio sistema imperialista, e inizialmente non ha il ruolo di paladino, ma di agente infiltrato. In teoria, quindi, è una minaccia. Ma è la vicinanza con i terrestri, la fondamentale rettitudine e il senso critico nei confronti dell'autorità, che lo portano a cambiare bandiera e a rivestire il ruolo di campione terrestre.


La prima versione di Capitan Marvel vestiva un'uniforme verde e bianca, modello standard della flotta Kree, completo di elmetto che faceva da maschera. Poteva volare e nelle prime storie usava una pistola che sparava raggi energetici, presto sostituita da un dispositivo da polso con la stessa funzione (non sia mai che un supereroe impugni dichiaratamente un'arma, anche se il surrogato produce i medesimi effetti).
Dopo un primo ciclo di storie, il personaggio subì una trasfigurazione di look e status quo, a opera dello sceneggiatore Roy Thomas. Le entità cosmiche Suprema Intelligenza, e in seguito Eon, interferiscono con il suo abbigliamento e le sue attitudini. E' così che arriviamo al costume rosso-bluastro-giallo con il marchio stellare sul petto (prima era un pianeta Saturno stilizzato) che oggi conosciamo. La Marvel qui gioca sporco, e ricicla in modo malizioso una caratteristica fondamentale del primo Capitan Marvel-Shazam. La trasformazione fisica e il legame con un ragazzo normale. Mar-Vell, rimasto intrappolato nella Zona Negativa (celebre dimensione fittizia descritta per la prima volta nelle storie dei Fantastici Quattro) si collega al giovane Rick Jones (avventuroso adolescente che in passato era già stato comprimario di Hulk e Capitan America) mediante l'uso di due fantascientifici braccialetti. Facendo sbattere tra loro questi orpelli, il giovane Rick scambiava gli atomi del suo corpo con quelli dell'esiliato Mar-Vell, finendo diritto nella Zona Negativa al posto dell'eroe che si materializzava al suo posto. Una contorta variante di metamorfosi che echeggiava l'effetto della parola magica “Shazam” e la trasformazione di Billy Batson nell'omone mitologico. Uno sberleffo marvelliano a una pagina di storia del fumetto che fu, in verità già praticato sulle pagine di Thor, inizialmente legato al mortale Donald Blake che cambiava nel dio del tuono (con la trasformazione sottolineata da fulmine e boato) ogni volta che percuoteva il terreno con il suo bastone.

Il nuovo Capitan Marvel ebbe vita abbastanza lunga, venendo anche investito del vago e difficilmente comprensibile potere definito “coscienza cosmica”, e promosso a sorta di messia spaziale. Fu proprio Capitan Marvel a contrastare i primi piani malefici del titano pazzo Thanos (che aveva esordito in una storia di Iron Man) e a guidare l'alleanza di tutti i supereroi contro i progetti nichilisti del temibile villain. Dopo lunga e onorata carriera, Mar-Vell lasciò questa valle di lacrime non sul campo di battaglia, ma vittima del cancro, in una memorabile storia scritta da Jim Starlin.
Ma la Marvel non era pronta a rinunciare al proprio Capitano di rappresentanza. Si apriva un nuovo capitolo fumettistico, fatto di emulazione e di eredità. Senza dimenticare che, sin dalle primissime avventure di Mar-Vell, avevamo incontrato una certa Carol Danvers. Personaggio che avrebbe fatto mooolta strada...




venerdì 27 luglio 2018

Capitani Meravigliosi - 2



CAPITANI MERAVIGLIOSI – 2

Nel 1953, la sentenza in appello che riconosce alla DC Comics l'accusa di plagio di Superman intentata contro il personaggio Capitan Marvel (che per inciso aveva preso a vendere più albi del prototipo), condannò la casa editrice Fawcett a pagare alla concorrenza un risarcimento altissimo e a ritirare dal commercio le riviste che vedevano come protagonista l'eroe oggetto del contendere. Si concludeva così (temporaneamente) la vicenda editoriale del primo Capitan Marvel-Shazam, che solo molto tempo dopo sarebbe stato recuperato dalla stessa DC Comics e integrato nel proprio cosmo narrativo con un differente titolo di testata. Negli anni che seguirono la sentenza, però, si creò un vuoto riguardo al copyright. In sostanza il nome “Capitan Marvel” diventò di pubblico dominio, e ci sarebbe voluto ancora qualche tempo prima che la Marvel Comics piantasse la propria bandiera sul brand garantendosi i diritti su tutti i capitani meravigliosi che sarebbero venuti da lì a quel momento.

E' in questo intervallo giuridico che, nel 1966, appare nei fumetti americani... Capitan Marvel di Carl Burgos. Lo stesso Burgos che nel 1939 aveva creato la prima, storica Torcia Umana per la Timely Comics, etichetta che successivamente si sarebbe evoluta prima nella Atlas, e poi nella Marvel che conosciamo. Il suo Capitan Marvel, nato sotto il marchio editoriale Myron Fass Enterprise, non aveva niente a che vedere con il suo predecessore magico. Piuttosto, suggeriva che Burgos doveva avere una vera passione per gli androidi romantici. Infatti, come già la prima Torcia (umanoide più che umana) era un robot con poteri di fiamma, anche questo secondo Capitan Marvel era un automa senziente venuto da un altro pianeta. Un essere robotico dotata di emozioni umane che aveva la capacità di scomporre il suo corpo mandando le singole unità (mani, piedi, braccia, testa) a svolgere azioni indipendenti. A innescare la separazione degli arti era la parola (magica? In codice?) “Split!” (ma tu guarda!). E “Xam!” per poi reintegrarsi. La missione di questo Capitano robotico era, al pari di Superman, quella di mantenere l'armonia sulla terra. Si nascondeva dietro l'identità segreta di un archeologo, il professor Roger Winkle, e la sua vita di facciata era quella di un normale essere umano, con pulsioni e sentimenti del tutto normali. Nelle sue storie compariva un comprimario che in qualche modo rappresentava una citazione di Billy Batson, alter ego del primo capitano della Fawcett, chiamato però “Baxton”. La vita editoriale del secondo Capitan Marvel fu molto breve. Solo quattro albi nel 1966. Ma la dinastia dei Capitani Meravigliosi era lungi dal concludersi. La Marvel sarebbe presto arrivata a dire la sua. E avrebbe declinato la ricetta fino allo sfinimento. Non senza ammiccare al prototipo che era arrivato per primo...