"Otouto No Otto" ("Il marito di mio fratello") dal manga di Gengoroh Tagame a una deliziosa miniserie in live action. Per un lavoro a basso budget (ma non necessitava di niente di più), una delle opere ispirate a un fumetto che sto apprezzando di più, con buona pace di superpoteri e tute colorate.
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mercoledì 28 marzo 2018
Otouto No Otto - Il marito di mio fratello: la miniserie
martedì 27 febbraio 2018
Uzumaki (Spirale) di Junji Ito
C'è una forma nascosta tra le pieghe della realtà. Quella forma è la spirale. Studiata nei secoli, è considerata da alcuni la prova di una geometria ragionata all'interno della natura. Ma è davvero benevola? E se fosse invece l'occhio di qualcosa che ci spia, che gioca con le vite e i fenomeni del mondo in modo cinico e mostruoso? Uzumaki di Junji Ito esprime una visione oscura dell'esistenza in uno dei manga più sconvolgenti e strani che siano mai stati scritti e disegnati.
giovedì 26 ottobre 2017
Il marito di mio fratello [di Gengoroh Tagame]
Planet Manga porta in Italia un Gengoroh Tagame inedito sotto tutti i punti di vista. Con "Il marito di mio fratello" (Otouto no otto) il maestro del bara manga sadomaso più estremo, stavolta dà vita a un tenerissimo racconto istruttivo sull'accoglienza dell'estraneo, sulla caduta dei pregiudizi e sul ruolo chiave che in questo possono (o dovrebbero) avere le nuove generazioni, soprattutto i bambini. Occhi innocenti in grado di vedere oltre le sovrastrutture, capaci di mostrare ai propri genitori la forma più spontanea di rispetto e amore. Forse un po' di miele che cola. Ma ci sporca tanto volentieri.
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venerdì 28 aprile 2017
Aula alla Deriva [di Kazuo Umezu]
Un misterioso fenomeno trasporta un'intera scuola giapponese in un futuro da incubo. Per sopravvivere, i ragazzi, tutti molto giovani, dovranno inventare una nuova società, darsi norme rigide, ma anche affrontare calamità imprevedibili, follia e mostruosità. Comprese le tenebre dell'animo umano. Una versione fanta-horror dello scenario base del “Signore delle Mosche” di William Golding, sfiorando H.P. Lovecraft e e altri classici. Finalmente arriva in Italia una delle opere più note di Kazuo (Umezz) Umezu. Una saga di formazione dalle tinte truci, ambientata alla fine del mondo...
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sabato 11 febbraio 2017
Jiro Taniguchi: Un omaggio (1947 - 2017)
In tanti lo avevano detto con sprezzante amarezza. La gente continuerà a morire anche dopo la fine del 2016, anno che sarà ricordato per il numero consistente di personaggi noti defunti nel corso dei suoi dodici mesi. Ma la morte fa parte della vita, e non conosce data di scadenza. Infatti anche questo 2017 ha già iniziato a fare sentire il suo peso. Il peso mediatico della morte di un personaggio noto nell'era in cui il villaggio globale ha definitivamente trionfato.
Jiro Taniguchi era relativamente giovane, aveva sessantanove anni, e pare fosse malato da tempo. E' sempre un peccato quando un artista ci lascia troppo presto, soprattutto quando ancora ha tanto da dire. Ed è scontato e stucchevole (anche perché inevitabilmente ripetitivo) il coccodrillo di rito. Salutiamo il maestro Tanigughi contemplando alcune delle sue evocative tavole, ricordando il suo tratto caratteristico e pulito.
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lunedì 9 gennaio 2017
Vedute: Junji Ito
Frankenstein di Mary Shelley ha avuto numerosissime letture a fumetti. Alcune hanno avuto forma di seguiti apocrifi, più o meno fedeli alle atmosfere orrorifiche e gotiche del romanzo o trasfigurate in chiavi del tutto differenti, fino alla serialità confinante con il genere che fa capo ai supereroi. Altre si sono cimentate nell'illustrazione del libro della Shelley o in veri e propri adattamenti dell'opera originale. Non si può non ricordare, a questo proposito, il lavoro di Bernie Wrightson, che sicuramente rimane tra le prove d'autore più degne di nota. A sua volta l'opera di sintesi svolta da Junji Ito, maestro dell'orrore giapponese contemporaneo, attraverso la lente della sensibilità tutta orientale per il macabro e la paura dell'ignoto, colpisce per la sua tenebrosa intensità. Il suo estro per “l'orrore del corpo” è a suo agio nel mito del moderno Prometeo. E tocca corde quanto mai inquietanti, dipingendo un mostro raramente così spaventoso e nello stesso tempo tragico.
sabato 7 gennaio 2017
Cat Eyed Boy di Kazuo (Umezz) Umezu
Se ci sono autori che fanno scuola, Kazuo (UMEZZ) Umezu è sicuramente tra questi. Patriarca dell'orrore nipponico e pioniere del perturbante a fumetti nelle sue successive declinazioni, è rimasto a lungo inedito nel nostro paese. Quel vuoto oggi è colmato dalle edizioni Latitudine 42 con Cat Eyed Boy (Nekome Kozo) con quattro volumi che raccolgono la saga del ragazzo per metà demone felino. Ma all'orizzonte c'è dell'altro. Il 2017, per l'Italia, potrebbe essere l'anno della rivincita di Umezu, visto che la Hikari ha già annunciato un'altra sua importante opera: Aula alla deriva. Yokai maligni, body horror, ansia e perturbante. Un manga che conserva ancora oggi più di un motivo di interesse.
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mercoledì 4 gennaio 2017
Umezz...
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lunedì 28 novembre 2016
Il Cartoonicidio di Claudio (Claps) Iemmola
Cartoonicidio... Come Regicidio... Tirannicidio... Potremmo pensare a scenari più quotidiani e drammatici se il "cartoonicidio" messo in atto da Claudio Iemmola non avesse, oltre che un'ondata di simpatia complice, suscitato anche le ire di qualcuno che ha visto oltraggiare (se non sopprimere in modo spesso imbarazzante) i suoi personaggi preferiti. Per lo più si tratta di protagonisti dei cartoni anni 80. Quelli che hanno accompagnato la crescita di molti tra noi, e che ricordiamo con affetto. Quando non sono vissuti come un tabù che ci rende più piccoli di quanto ci illudiamo di essere. Insomma, un gioco, uno scherzo... che potrebbe portare a riflessioni fin troppo serie.
«Miwa, lanciami in componenti!»
«Nei denti, però!»
lunedì 21 novembre 2011
Batman: Death Mask
Contrariamente a quanto potreste pensare dal titolo, quello di cui voglio parlarvi in questa occasione è un manga. Nella storia del fumetto, è successo molto raramente che personaggi dei comics americani venissero scelti come protagonisti di opere di autori giapponesi. Quello del fumetto orientale è stato sempre un mondo particolare, che per tradizione e qualità non ha nulla da invidiare al fumetto europeo o americano. Tuttavia il concetto del supereroe è sempre stato praticamente un’esclusiva delle produzioni americane. Negli ultimi anni, però, si è assistito ad un fenomeno di commistione tra questi due mondi così distinti. In alcune occasioni, protagonisti dei comics sono stati reinterpretati da autori giapponesi, e uno dei primi fu proprio Batman, con la miniserie Il figlio dei sogni ad opera di Kia Asamya. Questo stesso autore ha poi lavorato su alcuni supereroi della Marvel comics, in particolare gli X-Men, curandone per un certo periodo i disegni. E su questa scia, anche altri eroi Marvel hanno avuto una interpretazione in chiave orientale. Tuttavia, fino ad ora, si trattava solo di una impostazione grafica tipicamente giapponese di opere che per il resto restavano occidentali. Con l’opera di Yoshinori Natsume, invece, assistiamo alla creazione del primo vero manga con protagonista un eroe americano.
Contrariamente a quanto può sembrare, il manga non è solo un modo di disegnare, ma un vero e proprio stile concettuale del fumetto. Infatti, accanto ai tratti grafici tipicamente orientali (ragazze dai grandi occhi luccicanti, uomini dal fisico scultoreo, scene d’azione in pieno stile arti marziali, ecc.), possiamo trovare tutte le caratteristiche del fumetto del Sol levante. Intanto l’impaginazione e l’impostazione delle tavole è quella tipica del fumetto giapponese, da destra a sinistra. Inoltre, anche la densità del testo rispetto alle tavole ricorda in pieno altre opere manga. Essendo queste ultime prodotte principalmente, se non esclusivamente, da un singolo autore, la narrazione della storia è affidata molto alla componente grafica piuttosto che alle parole. Infine, mentre gli autori occidentali lavorano quasi sempre su protagonisti che sono proprietà delle case editrici, offrendone un’interpretazione più o meno personale, i mangaka lavorano su loro creature, caratterizzandole come vogliono e senza dover fare i conti con un passato di storie molto spesso ingombrante e limitante.
Proprio per questo, in Batman: Death Mask non troviamo nessuno dei nemici classici dell’uomo pipistrello, e la storia che leggiamo ha solo qualche lieve richiamo al passato del protagonista. Non di meno, Natsume riesce a cogliere e rappresentare alla perfezione tutti gli aspetti peculiari del personaggio, in particolare il suo rapporto con la maschera che indossa. Un rapporto molto spesso conflittuale e angosciante per Bruce Wayne, che molte volte si è soffermato a chiedersi se il suo vero io sia il miliardario playboy o il tenebroso giustiziere della notte. Proprio su queste basi si sviluppa il tema della maschera, con una interpretazione quasi pirandelliana del rapporto tra soggetto osservante e soggetto osservato. Chi è reale, Brice Wayne o Batman? Quanto di quello che fa scaturisce dalla sua volontà e quanto è dettato dal fatto stesso di indossare quel mantello e quella maschera? L’autore non manca di inserire in questa concezione del cavaliere oscuro anche elementi soprannaturali propri della tradizione del suo paese. Gli Oni (spiriti demoniaci) che si impossessano del corpo degli uomini controllandone le azioni sono un perfetto esempio della tradizione popolare giapponese. Infine, non manca una riflessione sulle motivazioni che spingono ad agire, e su cosa renda realmente diversi i ‘buoni’ dai ‘cattivi’, posto che ci sia spazio per queste distinzioni in un mondo come quello in cui si muove Batman, un mondo costantemente avvolto dalle ombre, un mondo in cui i confini netti perdono gran parte del loro reale significato per farsi labili e facilmente valicabili. Solo una ferma disciplina e una profonda sicurezza nelle proprie motivazioni possono impedire di sconfinare dalla parte sbagliata. Ma questo il cavaliere oscuro l’ha imparato a sue spese già da molto tempo.
Per concludere, Batman: Death Mask è un’opera perfetta per tutti gli appassionati di fumetti manga, per tutti i fan dell’uomo pipistrello, e per tutti quelli che vogliono leggere un fumetto senza il peso di settant’anni di storie precedenti ma che esprime perfettamente tutto quello che quelle storie hanno consolidato in tanto tempo.
[Articolo di Filippo Longo]
Questa recensione è stata pubblicata anche su Cose Preziose
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lunedì 31 ottobre 2011
Thermae Romae
Roma, sotto l’imperatore Adriano. Lucio Modesto è un architetto legato alla tradizione che fatica a tenere il passo con l’evoluzione stilistica della sua florida città. Infatti, perde il lavoro, e per combattere la depressione decide di concedersi un ristoratore bagno termale. Casualmente, scopre una buca sul fondo della vasca e finisce risucchiato da un vortice che lo farà riemergere in Giappone, ai giorni nostri. Superato lo sconcerto iniziale, e tornato al suo tempo, Lucio scoprirà che importare metodi e comfort dall’altra dimensione, potrebbe fare la sua fortuna nella Roma imperiale.
Thermae Romae è un curioso manga, che sta facendo discutere gli appassionati di arte sequenziale nipponica, in molti casi perplessi davanti alle sue particolari peculiarità. E' così almeno per i lettori italiani, dal momento che in patria l’opera di Mari Yamazaki ha incontrato un largo plauso, vincendo il premio Manga Taisho e successivamente l'Osamu Tezuka Cultural Prize, mentre attende di essere adattata anche per il grande schermo con un film live action prodotto dalla Fuji TV.
Di Thermae Romae può spiazzare l'inusuale piglio narrativo, nozionistico e didascalico come una lezione di storia antica, in cui il linguaggio del manga sembra essere utilizzato come mezzo divulgativo più che per mero intrattenimento. Un leggero strumento didattico, dove l’elemento fantastico (l’espediente classico della porta nel tempo) fornisce l’occasione per descrivere nei dettagli molti aspetti della vita nell’antica Roma, confrontandoli con le corrispettive soluzioni moderne di una società evoluta e organizzata come quella giapponese.
Un approccio alla storia romana descritta attraverso gli occhi di un uomo del passato che ha visioni della quotidianità del nostro presente. Intuizione didattica tutt’altro che spregevole, che riesce a rendere divertenti argomenti che in un altro contesto sarebbero potuti risultare routinari. Le schede informative che fanno da intermezzo tra un capitolo e l’altro (tutti incentrati sulle esperienze di Lucio nel futuro, e sulle sue applicazioni di quanto appreso una volta tornato nella Roma imperiale) non sarebbero indispensabili, ma si gradisce comunque la freschezza dell’operazione educativa nel suo insieme.
Thermae Romae rappresenta anche un'appassionata celebrazione della società giapponese, qui descritta nella sua efficienza, praticità e intraprendenza. Un modello di vita alieno non solo perché molto distante nel tempo, ma anche giacché profondamente diverso per bagaglio culturale, aspetto che lo rende a tratti indecifrabile per il sofisticato architetto romano. Il manga di Mari Yamazaki potrà anche avere intenti principalmente didattici, e questo causerà l’orticaria a non pochi lettori in cerca di ben altre emozioni. Ma gioca bene le carte che si è scelto, dando vita a un racconto lineare e intrigante, consigliabile soprattutto per i più giovani. Un manga inconsueto che merita una possibilità, e i cui ulteriori sviluppi potrebbero anche sorprendere.
[Articolo di Filippo Messina]
Questa recensione è stata pubblicata anche su FantasyMagazine.
lunedì 24 ottobre 2011
BLAME!
Tutti o quasi pensano si legga ‘Bleim’, che in inglese significa colpa. In realtà, nelle intenzioni dell’autore, il titolo si legge proprio ‘Blam’, come il suono di uno sparo. Criptico fin dal titolo, Tsutomu Nihei prosegue in un crescendo di enigmi, che credo nessuno, a parte lui stesso, sia riuscito a dipanare completamente.
Blame! parla di Killi, misterioso agente in missione nei livelli a rischio, alla ricerca della rete dei geni terminali. Se non avete capito niente di questa frase, non è perché siete stupidi. Potrebbe essere perché io non so scrivere, ma forse il motivo è un altro. In questo manga non ci viene spiegato niente. Non sappiamo chi sia Killi, né da dove venga. Non sappiamo se agisce da solo o se fa parte di una organizzazione di qualche tipo. Non sappiamo dove si svolga la vicenda, se sia una città, una colonia, una stazione spaziale, un insediamento sotterraneo. Non sappiamo se siamo sulla Terra o su un altro pianeta. Non sappiamo cosa sia la rete dei geni terminali. Insomma, non sappiamo proprio niente. Lo stesso sottotitolo è significativo in tal senso: “Maybe on earth. Maybe in the future”, cioè “Potrebbe essere sulla Terra. Potrebbe essere nel futuro”.
Quando prima ho scritto “Blame! parla di Killi” ecc., temo di aver sbagliato verbo. Sarebbe stato più giusto scrivere "Blame! tace di Killi”. È infatti una peculiarità di Nihei quella di realizzare fumetti con dialoghi ridotti al minimo e forse anche meno. Non ci sono didascalie, nessun pensiero viene comunicato in caratteri alfabetici. I personaggi si esprimono tra loro con frasi stringatissime, e spesso solo a gesti. Tutto questo sarebbe già sufficiente a creare disagio in chi legge, ma se ci aggiungiamo paesaggi desolati, edifici in rovina, strade tortuose che si snodano a perdita d’occhio nascondendo chissà quali pericoli, angoli bui che celano insidie micidiali, e misteriosi esseri biomeccanici programmati per uccidere qualunque forma di vita, ecco che quello che era un semplice disagio diventa pura angoscia. Sfogliando quelle pagine fitte di retini grigi, non si può non sentire il proprio cuore accelerare di colpo nel vedere una lancia trapassare improvvisamente un corpo, o un bambino che si trasforma in una macchina assassina. E quel silenzio micidiale che opprime e colpisce senza dare tregua è forse la cosa più angosciante di tutta l’opera.
Inutile dire che si potrebbero impiegare giorni interi a guardare le splendide tavole di Nihei, che in questo manga mette a frutto i suoi studi di architettura realizzando costruzioni straordinarie e ben oltre il limite delle utopie strutturali che già altri architetti in passato hanno teorizzato.
A conclusione vorrei citare anche un’altra opera dello stesso autore, realizzata per un personaggio con una sua storia alle spalle, vale a dire Wolverine. Tutto quello che si vede in Blame! può essere ritrovato in questa storia, che non a caso si intitola “Snikt!”. Così come Blame è il suono dello sparo della pistola di Killi, Snikt è il suono che fanno gli artigli di Wolverine quando li estrae. Si conferma quindi la tendenza onomatopeica nei titoli delle opere, in relazione alle armi usate dai protagonisti. Peccato non aver visto quasi nient’altro, qui in Italia, di questo giovane mangana giapponese. Un vero peccato.
Blame! parla di Killi, misterioso agente in missione nei livelli a rischio, alla ricerca della rete dei geni terminali. Se non avete capito niente di questa frase, non è perché siete stupidi. Potrebbe essere perché io non so scrivere, ma forse il motivo è un altro. In questo manga non ci viene spiegato niente. Non sappiamo chi sia Killi, né da dove venga. Non sappiamo se agisce da solo o se fa parte di una organizzazione di qualche tipo. Non sappiamo dove si svolga la vicenda, se sia una città, una colonia, una stazione spaziale, un insediamento sotterraneo. Non sappiamo se siamo sulla Terra o su un altro pianeta. Non sappiamo cosa sia la rete dei geni terminali. Insomma, non sappiamo proprio niente. Lo stesso sottotitolo è significativo in tal senso: “Maybe on earth. Maybe in the future”, cioè “Potrebbe essere sulla Terra. Potrebbe essere nel futuro”.
Quando prima ho scritto “Blame! parla di Killi” ecc., temo di aver sbagliato verbo. Sarebbe stato più giusto scrivere "Blame! tace di Killi”. È infatti una peculiarità di Nihei quella di realizzare fumetti con dialoghi ridotti al minimo e forse anche meno. Non ci sono didascalie, nessun pensiero viene comunicato in caratteri alfabetici. I personaggi si esprimono tra loro con frasi stringatissime, e spesso solo a gesti. Tutto questo sarebbe già sufficiente a creare disagio in chi legge, ma se ci aggiungiamo paesaggi desolati, edifici in rovina, strade tortuose che si snodano a perdita d’occhio nascondendo chissà quali pericoli, angoli bui che celano insidie micidiali, e misteriosi esseri biomeccanici programmati per uccidere qualunque forma di vita, ecco che quello che era un semplice disagio diventa pura angoscia. Sfogliando quelle pagine fitte di retini grigi, non si può non sentire il proprio cuore accelerare di colpo nel vedere una lancia trapassare improvvisamente un corpo, o un bambino che si trasforma in una macchina assassina. E quel silenzio micidiale che opprime e colpisce senza dare tregua è forse la cosa più angosciante di tutta l’opera.
Inutile dire che si potrebbero impiegare giorni interi a guardare le splendide tavole di Nihei, che in questo manga mette a frutto i suoi studi di architettura realizzando costruzioni straordinarie e ben oltre il limite delle utopie strutturali che già altri architetti in passato hanno teorizzato.
A conclusione vorrei citare anche un’altra opera dello stesso autore, realizzata per un personaggio con una sua storia alle spalle, vale a dire Wolverine. Tutto quello che si vede in Blame! può essere ritrovato in questa storia, che non a caso si intitola “Snikt!”. Così come Blame è il suono dello sparo della pistola di Killi, Snikt è il suono che fanno gli artigli di Wolverine quando li estrae. Si conferma quindi la tendenza onomatopeica nei titoli delle opere, in relazione alle armi usate dai protagonisti. Peccato non aver visto quasi nient’altro, qui in Italia, di questo giovane mangana giapponese. Un vero peccato.
[Articolo di Filippo Longo]
Questa recensione è stata pubblicata anche su Cose Preziose
martedì 18 ottobre 2011
Black Jack Neo
Mi sono sempre chiesto, facendo parte di questo mondo, come mai la medicina susciti tanto interesse. Molti pensano che sia perché il nostro è un lavoro che prevede un contatto con il lato umano molto profondo. In realtà non credo sia questo. In fondo, anche gli avvocati che gestiscono le liti ce l’hanno, o i nostri insegnanti a scuola, così come, anche se indirettamente, gli architetti che progettano le nostre case e i palazzi dove lavoriamo, o gli ingegneri delle autostrade su cui viaggiamo. Forse la risposta sta nel fatto che i medici si trovano a confrontarsi con una dimensione umana che raramente, e mai serenamente, viene condivisa: quella del dolore. Il dolore di una persona è il suo universo privato, e nessuno dovrebbe entrarci se non invitato. Credo quindi che sia la particolare relazione che deve instaurarsi tra i medici e tutti gli altri a suscitare l’interesse e la curiosità di chi legge o guarda, così come le situazioni particolari con cui i medici si confrontano.
Black Jack Neo è una miniserie manga in due volumi che si configura come rielaborazione e omaggio alla precedente e ben più corposa serie Black Jack di Osamu Tezuka. Purtroppo, pur avendone sentito parlare, non ho mai avuto il piacere di leggere quella serie, da tempo conclusa, anche se è una di quelle cose che andrebbero recuperate in quanto costituiscono un classico della letteratura a fumetti. Ma la miniserie da poco pubblicata (realizzata graficamente da quel Masayuki Taguchi già disegnatore di Battle Royale e autore della miniserie Lives!) risulta godibilissima e molto interessante anche nella sua brevità.
Il dottor Black Jack è un medico, ma un medico molto diverso dagli altri. Lo si potrebbe definire un dio della medicina, un chirurgo per cui quasi niente è impossibile. La sua non è solo una manualità fuori dall’ordinario, che gli consente operazioni ai limiti del sovrannaturale, ma una vera e propria arte. Ricercato in tutto il mondo per le sue prestazioni, chiede compensi esorbitanti per la sua opera, sebbene effettuata senza alcuna licenza, ma non è per nulla avido, visto che, quando lo ritiene opportuno, interviene anche gratuitamente. Il denaro gli serve per mantenere in efficienza il luogo dove lavora, una sala operatoria attrezzata con tutte le più moderne tecnologie nei sotterranei della sua casa. Ma c’è molto di più in questo personaggio taciturno ed enigmatico. Per lui, la conoscenza delle persone che ha di fronte, della loro storia personale e familiare, delle loro paure e delle loro speranze, è fondamentale tanto quanto e forse più di una diagnosi corretta o di una perfetta sutura. I due volumi contengono storie tutte molto belle e intense, ma quella che a mio parere è la migliore è “Una pepita d’oro”, in cui emergono con forza e passione tutte le sfaccettature del personaggio, dal contatto con i pazienti alle motivazioni che lo spingono, dalle sue tariffe milionarie al suo rifiuto per le autorità mediche ufficiali.
Nelle storie c’è spazio anche per qualche scena ironica, come la presenza della piccola Pinoko (sebbene la sua origine sia tutt’altro che comica), e per una quantità enorme di citazioni di opere storiche del fumetto giapponese, tutte dettagliatamente riportate in calce ai volumi. Infine, un cenno particolare meritano i sempre più curati disegni di Taguchi, che dalla qualità già molto alta di Battle Royale ha spiccato il volo in queste ultime miniserie (Lives! e Black Jack Neo, appunto) verso soluzioni grafiche di livello eccezionale. Una lettura che consiglio a tutti coloro che conoscono i manga e a tutti coloro che vorrebbero conoscerli e non sanno da cosa cominciare.
[Articolo di Filippo Longo]
Questa recensione è stata pubblicata anche su Cose Preziose
martedì 11 ottobre 2011
Battle Royale
La Planet Manga ha appena concluso la ristampa in quindici volumetti di Battle Royale, acclamata saga firmata Koushun Takami. Un’opera discussa che è già un classico e si distingue per la sua intensità e i curatissimi disegni iperrealisti di Masayuki Taguchi. Battle Royale è un prodotto dalla genesi molto particolare, con una storia travagliata e numerose facce mediatiche, ciascuna delle quali mostra una sua peculiare personalità. Oggetto di polemiche in patria, dove il racconto di Takami è stato riconosciuto come un’aspra metafora della società competitiva orientale, Battle Royale esordisce come opera letteraria nel 1999. Un romanzo antiutopistico che mescola echi orwelliani con elementi tipici dell’action splatter giapponese, ma anche con sottotesti romantici e una narrazione corale che deve molto al feuilleton.
Dalle pagine del romanzo (edito in Italia da Mondadori) al cinema, il passo è stato breve. Nel 2000 esce infatti sugli schermi giapponesi Battle Royale, film diretto da Kinji Fukasaku su sceneggiatura di Kenta Fukasaku e interpretato da Takeshi Kitano nella parte del coordinatore del Program. La serie a fumetti, sceneggiata dal suo autore originale, inizia a uscire nello stesso anno del film, e rappresenta dunque il terzo anello nell’evoluzione mediatica della saga immaginata da Koushun Takami. Perché è di evoluzione che si dovrebbe parlare a proposito di Battle Royale. Più che semplici adattamenti, la narrativa, il cinema e quindi il fumetto, hanno prodotto nuove versioni, estese o compresse, di una storia epica e atrocemente emblematica nella sua semplicità. Se il cinema è riuscito a proporre una convincente riduzione all’essenza della violenta saga, la sceneggiatura del manga, tornata nelle mani del suo demiurgo, recupera la coralità e la profondità del romanzo, ma apportando significative variazioni, efficaci cambi di prospettiva e proponendo scelte visive funzionali all’arte sequenziale che fanno di Battle Royale un vero pugno nello stomaco del lettore. Le spettacolari tavole di Masayuki Taguchi, che tanto spazio concedono ai dettagli gore del racconto, contribuiscono a costruire l’umanità dei personaggi, rendendo Battle Royale, il manga, forse il risultato più espressivo e popolare, se non il più riuscito, tra le declinazioni finora presentate dell’epopea truce e struggente ideata da Takami.
Il Program, un crudele reality show dove si uccide o si è uccisi. Un’affollata classe di scuola è sorteggiata ogni anno e destinata a un massacro che dovrà vedere sopravvivere un solo vincitore. Mai metafora della competitività disumanizzante è stata rappresentata in modo altrettanto esplicito. Nel film di Fukasaku, si motivava l’esistenza del Program come strumento repressivo delle ansie giovanili. Una metodica selezione degli elementi più conformisti e bellicosi. Nel manga, le motivazioni del crudele gioco restano vaghe, legate all’arbitrio sadico di un governo totalitario. Forse un calmiere alla sovrappopolazione di uno stato che ha scelto l’autarchia e l’assoluta chiusura a ogni scambio con l’esterno come regola di vita. Il manga, forse più del romanzo, riesce a conferire un’identità concreta a ogni singola vittima della mattanza. Battle Royale, con tutte le sue spettacolari efferatezze, non è un semplice racconto slasher. A cadere non sono manichini stereotipati, ma giovani donne e giovani uomini, che Takami ci fa conoscere da vicino, inducendoci persino ad amarli. La morte, dilatata nel tempo grazie a immagini di una bellezza crudele, falcia e interrompe per sempre romanzi di vita cui ci stavamo appassionando. E ogni morte dà un tuffo al cuore, lasciando una sensazione di tragico vuoto. Può sembrare un paradosso, ma a far vivere la vicenda di Battle Royale non è l’orrore (che pure gronda copioso dalle sue pagine), ma un sentimento di profonda pietà che pervade l’intera storia. La mitezza e il senso di giustizia, incarnati dal personaggio di Shuya, rappresentano l’indomabile ottimismo che ci ripete, uccisione dopo uccisione, che il mondo, pur nella sua mostruosità, può ancora essere salvato.
Il messaggio profondo di un manga sanguinoso come Battle Royale è che il concetto di ribellione non deve necessariamente coincidere con quello di violenza. La guerra è rappresentata da Masayuki Taguchi nei suoi particolari più raccapriccianti non per mero compiacimento, ma per esprimere un netto rifiuto a qualcosa che è indicato come la quintessenza della deriva umana. Una classe di scuola, per definizione un gruppo di giovani riuniti affinché crescano insieme, è qui obbligata a massacrarsi in nome del più elementare istinto di sopravvivenza. Non può esserci apprendimento, e quindi evoluzione, quando la natura umana è ridotta allo stato selvaggio. E questo si rivela essere il vero scopo liberticida del Program. Isolare gli individui e disperderli in un caos feroce, dove collaborazione e solidarietà non sono che fantasmi per pochi illusi. Battle Royale parla di amicizie che franano rovinosamente o che superano la più aspra delle avversità, portando in scena un esame di umanità che alla fine lascia il lettore con una scomoda domanda. Come ci saremmo comportati se intrappolati in una situazione come quella del Program? Potremmo chiederci se pugnaleremmo alle spalle chi ci è stato amico, ritenendo che questo possa salvarci, o se irriducibilmente cercheremmo una soluzione pacifica pur di proteggere chi in passato si è fidato di noi.
E la risposta non è così scontata.
Questa recensione è stata pubblicata anche su Fumettidicarta.
[Articolo di Filippo Messina]
mercoledì 8 luglio 2009
Naoki Urasawa - Pluto
Il fumetto, come già il cinema, non è nuovo alla pratica del remake. Possiamo chiamarla riscrittura, aggiornamento o versione definitiva. Gli esempi non mancano, soprattutto in terra americana. Ma è con Naoki Urasawa e il suo Pluto che questo genere di rielaborazione acquista una dignità che trascende qualsiasi etichetta e dimostra di avere la personalità necessaria per camminare sulle proprie gambe. Mangaka noto in Italia per i già apprezzati Monster e 20th Century Boys, Urasawa fa centro ancora una volta, dimostrandosi uno degli autori completi di maggior talento sulla scena del fumetto internazionale. E lo fa con una mossa nostalgica, a suo modo anche furba, che suscita interesse a più livelli.
All’origine di Pluto c’è la dichiarata volontà del suo autore di omaggiare Osamu Tezuka, artista conosciuto in tutto il mondo come il Walt Disney giapponese e alle volte chiamato persino il “dio dei manga”. Tezuka, in effetti, inventò il fumetto e l’animazione nel suo paese, definendo manierismi ormai storici e producendo una quantità di capolavori indimenticabili. La fonte illustre scelta da Naoki Urasawa per il suo omaggio è Tetsuwan Atomu, noto in Italia come Astro Boy, e capostipite di tutti i robot nipponici che seguiranno. Protagonista della serie era Atom (in Italia Astro) un piccolo robot costruito da un geniale scienziato a immagine del figlioletto defunto. Una creatura potente e mite che non avrà vita facile nel duro mondo degli esseri di carne e sangue. Abbandonato dal padre-creatore che ha finito col detestare il simulacro del figlio morto, Atom si esibisce come fenomeno in un circo finché non viene riscattato dal dottor Ochanomizu, che riconosce il potenziale “umano” della creatura meccanica e la prende sotto la sua protezione.
Da queste linee essenziali è evidente che anche il progetto cinematografico di A.I. – Intelligenza Artificiale, meditato da Stanley Kubrick e in seguito realizzato da Steven Spielberg, doveva molto al lavoro di Osamu Tezuka. Il tema profondo del manga era la ricerca della sensibilità umana in una macchina autosufficiente. Nel mondo dipinto da Tezuka i robot, per quanto forti, erano portatori di un candore e di un rispetto per la vita ormai raro negli esseri umani. Questo li portava a essere discriminati, spesso perseguitati, in un modo che oggi ci ricorderebbe le tribolazioni dei mutanti Marvel.
Astro Boy è dunque a tutti gli effetti un’opera fondamentale da cui sono germinati parecchi semi, e non solo nella cultura fumettistica giapponese. Naoki Urasawa sceglie un ciclo ben preciso nella sterminata saga raccontata da Tezuka, e rinarra a modo suo l’episodio intitolato Il più grande robot del mondo, lasciando sullo sfondo i combattimenti robotici per imboccare la strada del mistery.
Qualcuno (o qualcosa) sta eliminando i sette robot più forti del pianeta. Più che di distruzione si può parlare di veri e propri omicidi, in quanto gli automi si sono evoluti e integrati con gli umani al punto da rendere ardua la distinzione. Ormai i robot non solo possono avere un aspetto umanoide, ma pensano in termini umani e coltivano le stesse aspettative di vita. Sono in grado di simulare atti quotidiani come mangiare e bere, pratiche descritte come rituali necessari alle intelligenze artificiali per sviluppare sempre più la loro empatia con gli esseri umani. Sentono l’esigenza di sposarsi, di adottare bambini robot per soddisfare gli impulsi genitoriali. Si pongono domande etiche, rispettano l’ambiente e lo amano più delle creature organiche. Inoltre, leggi recenti tutelano i diritti dei cittadini meccanici. Progresso sociale che qualcuno non vede di buon occhio.
Seguendo il meccanismo tipico del giallo, Urasawa mette in scena la progressiva uccisione di queste intelligenze artificiali. Non prima di avere svelato al lettore l’intrinseca umanità di ciascuno, dimostrando che dal punto di vista morale ogni distinzione tra persona biologica e persona meccanica è venuta a cadere. L’assassino lascia anche una firma. Rottami sistemati come corna sulla testa delle vittime. L’emblema di Pluto, divinità degli inferi. Presto cominciano a morire nel medesimo modo anche esseri umani, individuati tra gli artefici delle leggi a favore dei cittadini robotici, e l’ispettore Gesicht, anch’egli un evolutissimo automa, inizia a indagare.
Dell’opera di Osamu Tezuka rimane innanzitutto l’ambientazione di fondo. Una società dove uomini e robot convivono in modo spesso precario, e dove i primi devono dimostrare ogni giorno di essere ormai qualcosa di più di un semplice guscio di metallo deambulante. Rimane inoltre lo spunto del capitolo scelto, cioè l’eliminazione sistematica dei robot più potenti, ma rivisitato in chiave di racconto di indagine in cui le risposte non sono affatto scontate. Urasawa introduce i personaggi celebri della serie poco per volta, rimodellandoli secondo una chiave dark che ricorda molto il bellissimo Monster. Né lesina citazioni e piccole comparsate, con icone del maestro Tezuka estranee al mondo di Atom, ma che fanno una fugace apparizione tra le pagine per salutare quanti tra i lettori sapranno riconoscerle.
Il concetto di automa come erede di una sensibilità perduta dalla maggior parte degli umani ha radici antiche e numerosi parenti illustri. Solo per citarne qualcuno, possiamo ricordare i pulp dedicati ad Adam Link di Earl e Otto Binder. Ma soprattutto Philip Dick (a parte il celeberrimo Anche gli androidi sognano le pecore elettriche) per il racconto breve I Difensori della Terra, dove i robot (come in Tezuka e oggi in Urasawa) hanno a cuore il destino dell’ecosistema terrestre a dispetto degli stessi umani. Naoki Urasawa riesce a recuperare questi archetipi, a intonare un elogio rispettoso dell’opera del maestro, e a mixare tutti questi elementi in un racconto del mistero con un retrogusto filosofico. Forse, a tratti, l’intento di umanizzare gli automi lo spinge a esagerare con la melassa. Ma la forza del racconto prevale su queste sbavature e la lettura corre spedita senza perdere mai di mordente. Dopo Monster, Urasawa dimostra ancora una volta di saper gestire la tensione in modo magistrale. Si vedano gli incontri di Gesicht con Brau 1589, l’unico automa ad avere mai ucciso un uomo. Contrappunto narrativo che ricorda le visite dell’agente Clarice Starling ad Hannibal Lecter nei sotterranei del manicomio criminale ne Il Silenzio degli Innocenti. Tutto procede secondo un meccasimo a orologeria. I dettagli del mistero sono svelati poco per volta, e le vicende private delle vittime si incastrano nel mosaico con tragica perfezione.
Il disegno di Naoki Urasawa (pare dietro richiesta degli eredi di Osamu Tezuka) non tenta neppure di imitare lo stile del maestro, e ci regala un Atom e un Gesicht totalmente rinnovati. Ulteriore motivo di divertimento è l’apparizione in Pluto di volti noti della storia recente, collocati in ambiti che dovrebbero suggerirne le reali generalità. Pluto è un fumetto intelligente, che sa raccogliere il meglio seminato da un pioniere della nona arte per farlo rifiorire in una chiave più matura e consona a una nuova generazione di lettori. Un racconto dai toni adulti, fascinosamente in bilico tra fantascienza e giallo, introspezione e thriller.
In un industria del fumetto che ricicla da anni i supereroi secondo trend commerciali discutibili, Pluto fornisce una diversa interpretazione del concetto di remake. E se non è un capolavoro, ci va sicuramente molto vicino.
Questa recensione è stata pubblicata anche su Fantasymagazine.
[Articolo di Filippo Messina]
lunedì 15 giugno 2009
Death Note
Quello di Death Note è un fenomeno davvero bizzarro. Fenomeno culturale e mediatico di cui si contano pochi precedenti di medesimo successo. Una serie a fumetti diventata in poco tempo un best seller planetario, una popolare serie animata, tre film live-action, e recentemente anche un videogame e un gioco di carte, per non parlare dell’industria dei gadget, come il famigerato "quaderno della morte". Mentre su MTV si conclude l’anime, la Planet Manga dopo quattro ristampe della prima edizione, sta per completare la collana in versione Gold, ed è legittimo pensare che conclusa quella ne vedremo presto un’altra.
All’origine di tutto c’è Death Note, un manga di genere fantastico creato dalla fantomatica sceneggiatrice Tsugumi Ohba (di lei non si sa nulla, e qualcuno dubita persino che sia una donna) e dal disegnatore Takeshi Obata, che ha riscosso un grande consenso di critica e di pubblico a livello internazionale. Al centro del racconto agisce Light Yagami, giovane e brillante studente giapponese che entra casualmente in possesso del quaderno della morte perso da uno Shinigami, una divinità preposta a mietere le vite dei mortali. Infatti nell’immaginario giapponese, la Morte non è vista come un’entità individuale, ma esistono tanti spiriti incaricati di amministrare il trapasso degli esseri umani. E’ sufficiente scrivere nel quaderno il nome di qualcuno conoscendone l’aspetto e il gioco è fatto. Il malcapitato muore nelle modalità esatte descritte dal possessore del quaderno.
Lo spunto non sarebbe esattamente nuovo. Un sorprendente precursore può essere individuato in La macchina ammazzacattivi, film del 1952 che Roberto Rossellini trasse da un racconto di Eduardo De Filippo. Una vicenda che ha in comune con Death Note i binari di partenza su cui la vicenda si svilupperà. In quel caso avevamo un’antica macchina fotografica che effettuando un secondo scatto a vecchie foto uccideva all’istante l’individuo che vi era ritratto, inducendolo ad assumere nella morte la posizione della foto originale. L’idea di un potere di vita e di morte, che trasforma inevitabilmente chi lo possiede in un giustiziere o in un mostro pluriomicida, quindi è un archetipo abbastanza rodato. Tuttavia, quando si tratta di raccontare, spesso quel che conta è la forma più che la sostanza. E Tsugumi Ohba, in Death Note, dimostra che l’iniziale spunto fantastico non esprime il vero potenziale della storia che aveva in mente.
Death Note parte dai medesimi presupposti del film di Rossellini, ma devia subito dagli sviluppi più prevedibili. Light non è interessato a compiere alcuna vendetta personale, ma vede nel quaderno uno strumento per consacrare definitivamente la propria superiorità intellettuale. Inizierà a uccidere i criminali impuniti in modo metodico con lo scopo di instaurare un controllo occulto della società, e plasmare così un mondo di pace e giustizia governato magicamente col terrore. Ma la vera storia raccontata dal manga è un’altra. Fulcro della vicenda è il duello psicologico tra Light e L, misterioso investigatore (che ha molto in comune con Sherlock Holmes per capacità deduttiva) incaricato di individuare Kira, come è stato chiamato dalla stampa il temibile assassino astrale.
Accostandosi alla lettura di Death Note e lasciandosi prendere dalla suspance che sprigiona, viene in mente un elemento base del metodo Stanislavskij, descritto nel suo celebre Il lavoro dell’attore. E cioè che ogni regista, ogni interprete, davanti a un testo drammatico, per comprenderlo e dargli vita sulla scena, dovrebbe porsi sempre la stessa domanda: qual è l’evento principale della storia senza il quale il dramma non si compirebbe? Nel caso di Death Note sarebbe facile rispondere che questo elemento consiste nel quaderno della morte e nel fatto che un essere umano ne sia entrato in possesso. Ma procedendo nella lettura ci si accorge che non è proprio così. Il vero spettacolo portato in scena da questo manga affonda le sue radici in altre forze narrative. Quel che fa battere il cuore del racconto non è tanto l’esistenza del quaderno incantato, quanto il fatto che questo sia finito nelle mani di una mente machiavellica come quella di Light Yagami.
Questo è il grande mistero del successo di Death Note. Un manga che sembra piacere a un pubblico eterogeneo e di età differenti, ma che presenta caratteristiche che normalmente lo avrebbero fatto classificare come un prodotto di nicchia. La qualità del racconto è innegabile, così come i disegni. La stranezza (dal punto di vista sociologico) consiste proprio nella progressione della trama, che potrebbe sembrare indigesta per il vasto pubblico dei lettori di fumetti. L’intera saga, infatti, è la cronaca dettagliata di una partita a scacchi tra due menti diaboliche. Ogni angolatura è osservata dal punto di vista dei due contendenti, ogni mossa studiata, la reazione e l’eventuale intuizione del nemico ponderata. L’avventura di Death Note si svolge, insomma, nelle menti dei due protagonisti, e seguire ogni loro ragionamento richiede una discreta dose di attenzione. Evidentemente, il racconto fantastico-investigativo riesce a comunicare emozioni a più livelli, affascinando sensibilità diverse.
Il discorso è simile per la serie animata. Tanto fedele al fumetto da assomigliare a una sorta di audiolibro che segue pedissequamente ogni ragionamento dei geniali duellanti. I tre film live, tutti inediti in Italia, hanno avuto un discreto successo in Giappone pur prendendosi qualche libertà rispetto all’intreccio del manga. I primi due, entrambi diretti da Shusuke Kaneko, sono un dittico che si propone con una discreta efficacia di portare in scena i personaggi del fumetto riproponendone le pose e i vezzi visti nelle pagine del manga. Particolarmente riuscita è la realizzazione degli spettrali Shinigami, molto vicini al look grafico ideato da Takeshi Obata. Il terzo titolo, L change the worLd, di Hideo Nakata, è invece un prequel dedicato all’investigatore L e alle sue precedenti avventure. Inoltre, Hollywood ha già in cantiere una versione americana della storia del quaderno mortale, e com’era prevedibile è iniziata tra i fans la caccia all’interprete ideale per Light. Insomma, il successo di Death Note non sembra destinato a estinguersi tanto presto. Tra ristampe, spin off, cinema e videogames, il mondo pacifico (ma totalitario) sognato da Light forse non si sarà avverato. Ma tutti, e non solo in Giappone, oggi conoscono il nome di Kira. E a loro modo, nella sua malvagità, sono in tanti ad amarlo.
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