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lunedì 21 dicembre 2020

The New Mutants: Nuovi mutanti... Anzi, vecchiotti

 


«L'ho visto ieri. E' davvero molto brutto. Indifendibile!»

Quando senti queste parola da una persona che ha fatto del cinema la sua professione, blogger e podcaster più che in gamba, e persona che hai imparato a stimare, le tue aspettative scendono veramente ai minimi storici. Certo, c'è quella vocina. Quella che dice che... Ok, lei è brava, è preparata, però... Ci sono state anche alcune volte in cui vi siete trovati in disaccordo. Qualcosa che a lei è piaciuto, mentre tu non riesci proprio a mandarlo giù. E poi qualcosa che invece tu adori, laddove lei trova e schiaccia pulci che tu non riesci a vedere neanche se ti sforzi. Quindi... insomma! Magari è una di quelle volte. Diamo un'occhiata a questo The New Mutants”. Non è detto che il film non ti possa se non altro intrattenere...

Beh, scordatelo. Aveva ragione lei. Da vendere. “Indifendibile” era la parola giusta.

Che qualcosa non andasse era nell'aria già da tempo. Il progetto su un film dedicato ai Nuovi Mutanti, le nuove leve del franchise X-Men, già a loro volta un piccolo classico nell'ambito della lunga e complessa epopea mutante di casa Marvel, era entrato in produzione nel 2017, ben tre anni fa. Si parlava addirittura di una trilogia. Come se fosse una sorpresa. Oggi se produci un film di intrattenimento devi puntare alla serialità, avere l'occhio lungo, e promettere narrazioni di grande respiro. Promettere, però, non significa mantenere. E l'occhio lungo dei proposito commerciali spesso inciampa nelle gambe corte di un modello ormai spremuto fino all'osso, nella giusta incertezza dettata dalla precarietà dei diritti sui personaggi e da una creatività ormai esaurita per quanto riguarda le storie di supereroi. Nelle intenzioni della Fox (oggi 20th Century Studios) e del regista Josh Boone (che firma la sceneggiatura insieme a Knate Lee) la trilogia sarebbe dovuta procedere sotto il titolo "Growing Pains" (Dolori di crescita). C'è di più, Boone voleva fare di "New Mutants" un film del terrore, dove i poteri mutanti potessero diventare metafora di paure adolescenziali e incertezza del domani. Qualcosa che più che ambizioso puzzava già di vecchio solo a parlarne, e forse anche un pochino arrogante.


"
Legion", pregevole serial televisivo iniziato nel 2017 e anch'esso ispirato alle serie mutanti Marvel, con le sue atmosfere da incubo e i suoi personaggi surreali, aveva già conquistato questa frontiera, e fare di meglio era una bella sfida. Inoltre, il film del 2019 "Freaks!" di Adam Stain e Zach Lipovsky, con la sua umiltà di mezzi e una scrittura non banale, aveva dimostrato di poter parlare degli stessi temi in modi alternativi e affascinanti. Più nuovi di questi “Nuovi Mutanti” sicuramente.

Tralasciando i ripetuti rinvii, le riprese aggiuntive e tutti quegli incidenti di percorso che gridavano a gran voce che in questo film ormai non ci credeva quasi più nessuno, il risultato finale è davvero imbarazzante. Non è neppure la povertà tecnica del film, considerato che un titolo indipendente come il già citato “Freaks!” riesce a essere grande con delle buone idee piazzate nel posto giusto. Il problema imperdonabile di “The New Mutants” è la scrittura. Particolarmente svogliata, con dialoghi che bucano i timpani. Stereotipati da far paura più di qualunqu ripresa aggiuntiva volta a rendere “più simile a un horror” l'ennesimo, frettoloso filmetto supereroistico. Sì, frettoloso, nonostante la lunghissima gestazione asinina. In definitiva, definire “televisivo” il film di Josh Boone sarebbe ancora un complimento. E' difficile trovare la parola giusta. E' come la compulsione a grattare un prurito insistente, che sta lì a tormentarti, e senti di doverlo eliminare a costo di strapparti la pelle e lasciare una ferita sanguinante. Pensare che tutto, per la non più esistente Fox (dopo l'acquisizione da parte della Disney), era iniziato nel 2000 con i primi due “X-Men” di Bryan Singer, oggi risulta sconfortante. E in fondo, si intuisce, produzione e regista lo sapevano pure. Dai, un accanimento terapeutico di anni, una fugace uscita e poi una velocissima distribuzione in home video, allegato a riviste popolari nelle edicole. Fa addirittua provare un po' di tenerezza, e rimorso all'idea di sparare sulla croce rossa.

Ma quei dialoghi, Dio buono! Quei dialoghi!

Le intenzioni sembrano essere quelle di confezionare un thriller da camera. Ma quegli scambi di battute (forse prese in prestito da una collezione di fotoromanzi degli anni 80) non solo presentano relazioni e dinamiche assolutamente telefonate, ma pongono la pietra tombale su uno script dove la fantasia è un cadavere che i vermi hanno già digerito da un pezzo. Il peccato più grande è che qualche (vaga) ideuzza che avrebbe potuto rendere il film almeno un pochino simpatico per i veri fans c'era. Alcuni inside joke intriganti, la riscrittura di un noto personaggio di secondo piano, il disvelamento graduale dei poteri dei giovani protagonisti. Tutto, però, è gestito talmente male da fare incazzare anche il più indulgente lettore delle saghe mutanti. Anzi, più sei preparato sui fumetti e meno potrai goderti il film. Non per sterili bizze da fan tradito, ma per l'assoluta piattezza della trasposizione, cosa che ti fa prevedere ogni singolo passo dei personaggi con il risultato di non aspettare nulla se non la fine delle tue sofferenze. Molto presto ci viene ricordato che in questa dimensione narrativa gli X-Men esistono e sono famosi. Ok, perfetto, i vip sono dietro i paraventi. Ma qualche sforzo di logica in più sembrava brutto? Ci si potrebbe chiedere com'è possibile che un gruppo di giovani mutanti inesperti dai poteri potenzialmente pericolosi siano affidati a una struttura dove sembra esserci un'unica scienziata-custode. Rinunciate, la risposta non esiste. Dobbiamo accontentarci del fatto che si chiami Cecilia Reyes, e che è una vecchia conoscenza di noi lettori. E purtroppo non è l'unico punto debole del film.


Basta, infatti, conoscere le caratteristiche di un certo personaggio e del suo background fumettistico perché l'intera dinamica del racconto sia scoperta nel giro di un minuto, bruciando il climax prima ancora che incominci e sprofondando tutto in una galleria del già visto. E sì, perché mentre “New Mutants” stava ancora cuocendo a fuoco lento, nei cinema usciva
“IT” di Andrès Muschietti, e qualcuno si faceva venire pessime idee.

Maisie Williams come Wolfsbane sarebbe andata pure bene. Parliamo di un personaggio che soffre il peso di un'opprimente morale religiosa e convive con una mutazione che la rende affine a una belva, una furia primitiva incatenata da una repressione culturale lacerante. Non mi crea nessun problema la scelta di renderla protagonista di un romance omosessuale. Ci mancherebbe. Quello che trovo contraddittoria è la sua sicurezza, fin troppo serena nel gestire il rapporto con l'amata considerate le premesse castranti. Il suo alter ego licantropico avrebbe dovuto essere espressione di pulsioni sentimentali e sessuali che lottano per liberarsi dai condizionamenti di una vita trascorsa all'insegna della repressione. Invece tutto risulta buttato a caso, senza un vero ordine. Il fatto, poi, che la regia scelga di suggerire il suo orientamento sessuale mostrandola mentre assiste rapita a una scena di bacio lesbo in un celebre show televisivo, è semplicemente irritante e nemico della buona scrittura. Anya Taylor-Joy come Illyana è forse quella che rende di più. Ma è tutto da attribuire al suo naturale carisma e non al modo in cui la sua parte è stata scritta. Non si capisce nemmeno come funzionano i suoi poteri. E in effetti, la sua storia non sarebbe stata facile da riassumere neppure per uno bravo.

Non una delusione, in verità. Solo un senso di spreco e di confusione. Ma soprattutto di tristezza. Tristezza per un film nato zoppo, e definitivamente stroncato da ripetuti rimandi che ne hanno solo prolungato l'agonia. Triste per il suo titolo, che contiene la parola “Nuovi”, posta sulla confezione di un prodotto scaduto e ormai, aimé, immangiabile.











giovedì 17 ottobre 2019

E Titans continua...


Titans...
Ok, voglio Krypto. Lo so, probabilmente mi friggerebbe il gatto. Ma posso sempre provare a farli andare d'accordo.
A parte questo: Wow! Wow! Wow! Il modo di presentare Conner mi è piaciuto molto. Ed è interessante come i poteri di Superman (o di qualcuno simile a Superman) possano risultare inquietanti a seconda di come vengono raccontati. La serie Titans sta proponendo una buona caratterizzazione di eroi non sovraesposti quanto altri, e finora questo è il suo pregio maggiore. Insomma, per come la vedo io, continua a funzionare. E non vedo l'ora di sapere cosa succederà adesso.


sabato 5 ottobre 2019

Martin Scorsese contro i cinecomics



A proposito della questione Scorsese vs cinecomics...

L'espressione "Non è vero cinema" andrebbe riportata con i piedi per terra. Non presa alla lettera, insomma. E soprattutto bisognerebbe imparare a non offendersi per questo genere di cose. Io non ne ho memoria, ma è stato mai detto che i cinepanettoni non sono vero cinema? In ogni caso qualcuno potrebbe dirlo. E anche in quel caso sarebbero solo parole. Perché persino i cinepanettoni sono cinema. Un brutto cinema. Un'espressione deteriore del cinema, che a lungo il botteghino ha premiato. Dire che qualcosa "non è cinema", ma anche "non è musica" o altro, è da intendere semplicemente come "non lo condivido. Non lo apprezzo. Non lo capisco. Non lo pratico. Per me la vera arte si esprime in modi diversi". E' tutto qui, e penso proprio fosse quello che Martin Scorsese intendesse dire, che lo si condivida o meno. Anche il paragone con i luna park è scontato. Quanti film kolossal, nel corso della storia, sono stati paragonati a baracconi? E' solo un modo di dire, per affermare che il proprio interesse e il proprio rispetto si focalizza su altri aspetti di quella forma d'arte. Ed è soprattutto legittimo, anche se può non piacere.
Prendete "Avengers: Endgame", film che ha emozionato molti spettatori e irritato altri. Io stesso sono un fruitore del Marvel Cinematic Universe, e per primo a mio modo apprezzo alcuni (non tutti) di questi film, compreso l'ultimo Avengers.
Eppure, se qualcuno, metodicamente, mi spiega che la sceneggiatura è piena di buchi logici e tante cose non funzionano, non posso fare a meno di dire a me stesso: «Minchia! E' vero!»
Ciò non toglie che il film possa essere apprezzato. Anche da me che ne vedo i limiti. Perché gli stessi limiti logici, le stesse pecche e contraddizioni, sono il pane quotidiano dei fumetti seriali (per loro natura caotici e pasticciati) che questi film traspongono al cinema. Richiedono la disponibilità ad accettare l'inaccettabile (parliamo di supereroi e di universo condiviso). Un tipo di sospensione dell'incredulità che non va bene per tutti. Un tipo di suggestione che ignora la logica narrativa a beneficio di altri tipi di suggestione, legati al carisma di personaggi e dinamiche che non tutti possono, e soprattutto sono tenuti, a gradire. Sentir dire pertanto che i cinecomics "non sono cinema" non è una bestemmia, non è un'offesa alle nostre madri. Ma solo una formula di chi cerca la suggestione cinematografica prevalentemente altrove. Prendiamo la frase come un classico “nun me piace 'o presepe". E ricordiamo che c'è gente, ancora oggi, che dice che certi tipi d'amore non sono vero amore. E certi tipi di famiglia non sono una vera famiglia. E questo, se permettete, è veramente grave e richiede la nostra attenzione. Cerchiamo di dare il giusto peso alle cose e a prendere i diversi modi di fruire il cinema con più leggerezza.

venerdì 4 ottobre 2019

JOKER di Todd Phillips




Non sono mai propenso a definire un film appena visto come un "capolavoro". Sottoscrivo l'adagio che i capolavori, i film epocali, sono quelli che si dimostrano tali nei tempi lunghi, e solo successivamente manifestano la loro immortalità. Inoltre la parola con la C mi suona troppo come un contemporaneo sinonimo di «Wow! Figata!». E questo lascia il tempo che trova. Senza girarci ulteriormente intorno, dirò che il film mi è piaciuto. Ancora non so se molto o abbastanza, ci sono cose che hanno bisogno di essere metabolizzate affinché le si possa comprendere a pieno. A visione ultimata, direi che è un bel film. Che resta dentro e spinge a ruminare quanto visto per decifrarlo meglio. La polemica cinecomics sì o no, oltre a essere inutile è totalmente campata in aria. Il film di Phillips non potrebbe esistere senza i twist che alludono alla sua origine fumettistica e ne reinventano determinati elementi, prospettandoli sotto una luce inedita. O almeno perderebbe buona parte della sua ragion d'essere, cioè la rilettura in chiave critica di un mito moderno. E' un film di forte impatto, non un film perfetto. E' un film che farà discutere, soprattutto per i suoi contenuti più audaci che si prestano a dibattiti anche discretamente accesi. Altro non si può aggiungere, perché andremmo a toccare snodi di trama che è meglio scoprire al cinema. Ma ci sarebbe tanto da dire. In tutto questo, la performance di Joaquin Phoenix è eccelsa. Da premiare con l'oscar? Non spetta a me dirlo. Bisognerebbe aver visto e valutato con attenzione tutte le interpretazioni candidabili di questa stagione. Diciamo solo che è un'ottima prova e che alla fine del film, Phoenix è senz'altro il Joker. Un Joker più complesso del solito, di cui abbiamo visto delle fragilità, ma non per questo meno sinistro. Nel doppiaggio, Adriano Giannini si è riscattato alla grande dai suoi recenti lavori meno ispirati. Nel complesso, un film da vedere e di cui parlare. E su questo non ci piove. Ne parleremo. Oh, se ne parleremo...

lunedì 15 luglio 2019

Gli altri cinecomics: "Hardware" di Richard Stanley



Hardware”, in italiano “Metallo Letale” è il primo film del regista sudafricano Richard Stanley, uscito nel 1990, che si ispira (molto liberamente) al racconto a fumetti britannico "Shock”, scritto da Steve McManus (accreditato come Ian Rogan) e disegnato da Kevin O'Neill, pubblicato per la prima volta su “Judge Dredd Annual” del 1981, e in seguito ristampato su “2000 AD”. Per quanto riguarda il film di Stanley, pare che inizialmente nessun accredito fosse stato riconosciuto agli autori del fumetto, e che soltanto dopo una controversia legale le due parti siano giunte a un accordo.

Quindi “Hardware – Metallo Letale” (oppure “Hardware – I robot non muoiono mai”, titolo con cui il film fu distribuito in home video in terra italica) sarebbe un cinecomic?


Beh, né più né meno delle tante pellicole che, ispirate a piece teatrali, romanzi e racconti, non sembrano avere necessità di un'etichetta così specifica. Se vogliamo, potremmo collocare “Hardware” (che prende solo lo spunto essenziale del fumetto di McManus e O'Neill) nella zona d'ombra degli “altri cinecomics”, quelli che sentono (e fanno sentire) meno il peso del loro retaggio cartaceo e vivono di vita propria, dando origine a una creatura cinematografica indipendente e dalla forte identità. Soprattutto se a firmare la regia è un talento (qui esordiente) come quello di Richard Stanley, che raccoglie l'ossatura di un racconto a fumetti breve e realizza, facendo virtù di un budget ridottissimo, uno spettacolo emotivamente coinvolgente, ricco di metafore esistenziali e politiche, che brucia gli occhi dello spettatore con immagini di rara potenza.


In un futuro non meglio specificato, una giovane scultrice abituata a servirsi di materiale meccanico in disuso, riceve come dono dal suo amante i resti di un robot reperiti da un losco rigattiere. L'artista realizza una delle sue installazioni, e la colloca nel proprio appartamento. Ma l'automa è in realtà un modello militare assassino programmato per autoripararsi e uccidere ogni essere vivente sulla sua strada. Presto il suo chip si riattiva, e nell'appartamento avveniristico della ragazza sarà l'inizio di un sanguinosissimo incubo...

Questa la trama del fumetto “Shock”, questo lo spunto traghettato su schermo in “Hardware”. Non fosse che nel film di Richard Stanley, oltre alla semplice trama, conta tantissimo l'ambientazione, con i suoi scenari fatti di distese riarse o di dedali claustrofobici. Suoni ossessivi, ombre e persino odori, suggeriti da una fotografia sporca e sublime nello stesso tempo. Quel che nelle poche tavole di “Shock” appare tutto sommato patinato, in “Hardware” è impolverato, lurido, e puzza di olio e ruggine. Il duello tra essere umano e macchina assassina si svolge in un'arena che è un mondo ormai morente, i cui ultimi sussulti sono accompagnati da spettacoli televisivi violenti e dalle battute di un cinico speaker radiofonico che nella versione originale ha la voce di Iggy Pop. Un conflitto nucleare ha ferito il pianeta al cuore, ormai popolato da un'umanità aberrata e da creature mutanti con aspettative di vita cortissime che consumano cupe esistenze stipati all'interno di tetri alveari tecnologici. Una legge appena promulgata livellerà le nascite, e là fuori c'è ancora una guerra, morte, rovine e rottami. Anche i resti di androidi dimenticati, tra i quali potrebbe nascondersi qualcosa di terribile, destinato in precedenza a ridurre drasticamente la vita organica sul pianeta. Non è casuale che il modello del robot protagonista sia identificato come M.A.R. K. - 13, dichiarato riferimento al passaggio del Vangelo secondo Marco in cui si leggono parole come “Quando vedrete l'abominio della desolazione” e “Nessun essere umano si salverà”.


E' facile riconoscere in “Hardware” tracce di molti classici del cinema di fantascienza, tra cui soprattutto “Mad Max”, “Terminator” e persino “Alien”. Il punto è che “Hardware” riesce però a conservare una sua identità fortissima, e mentre la fantascienza evolve nel vero e proprio horror, Richard Stanley ci colpisce al cuore con una parabola nerissima e pessimista sul futuro dell'uomo e il suo rapporto con il progresso. M.A.R. K. - 13, trasformato in una scultura postmoderna che non appena tornata in vita si riassembla con tutto ciò che trova pur di continuare a uccidere, è un mostro che non si dimentica facilmente. E l'appartamento di Jill, la scultrice protagonista interpretata da Stacey Travis, si dimostra una location ossessiva (praticamente già una trappola di per sé) che fa da perfetto palcoscenico al grand guignol tecnologico che non dà un attimo di tregua fino alla deflagrante conclusione. Nel ruolo di Moses, l'avventuriero riciclatore che dona a Jill i rottami dell'androide, abbiamo un giovane Dylan McDermott alle sue prime apparizioni, quando ancora non era odiato da tutti (a mio parere in modo esagerato) per le sue partecipazioni a più serie televisive. E il contrappunto tra i due amanti, più sognatore uno, più cinica e cauta l'altra, è carburante per un atmosfera intrisa di un romanticismo amaro, perfettamente calato nel clima apocalittico della vicenda. Un racconto (horror e fantascientifico, ma anche qualcosa di più) che dimostra un virtuosismo cinematografico prezioso. Rivelandosi un film fichissimo in ogni sua parte a dispetto dei pochi mezzi grazie a una fantasia e a un estro che hanno del miracoloso.
Hardware” è un film che va visto. Magari più di una volta, per apprezzarne meglio le mille metafore, nascoste in trovate visive e in dialoghi martellanti. Un gioiello cinematografico ispirato a un fumetto che gli appassionati di comics dovrebbero scoprire.
Gli appassionati di cinema, invece, dovrebbero conoscerlo già. O almeno rimediare quanto prima.

Se siete rimasti indietro, fatelo. E ricordate: “Nessuna carne sarà risparmiata”.

lunedì 29 aprile 2019

Ripensando a "Avengers: Endgame"



A distanza di un anno da “Avengers: Infinity War” torniamo a parlare di Marvel Cinematic Universe e del suo attesissimo atto conclusivo della prima importante saga. Un'operazione commerciale che porta sul grande schermo le logiche seriali del fumetto popolare supereroistico, suscitando entusiasmi e detrazioni. In ogni caso un grosso successo di pubblico. Solo un vlog, e qualche riflessione sul cinecomic del momento.SPOILER presenti. Quindi solo per chi ha già visto il film, Ok? Senza estremismi, senza tecnicismi... Solo voglia di parlarne.

mercoledì 3 aprile 2019

Shazam! (o il ritorno dei cinecomics)



Una parola per definire “Shazam”, il cinecomic di David F. Sandberg uscito oggi nelle sale italiane, potrebbe essere “imprevisto”. Ma anche “divergente”. Non “differente”, ma “divergente”. Cioè qualcosa che prende una strada diversa rispetto a una direzione comune. E' anche un film che probabilmente dividerà il pubblico. Anzi, in parte ha già cominciato a farlo, separando chi ha avuto l'occasione di vederlo in anteprima tra entusiasti e delusi che lo hanno etichettato come un prodotto nato vecchio, riconducibile a un modello ritenuto superato, stantio. Almeno per quanto riguarda il cinema fantastico e nella fattispecie i cinecomics supereroistici. Qualcuno (ho già dimenticato chi) lo ha classificato come un film dove si respira l'aria del cinema degli anni 90, concludendo che i soli spettatori che potranno apprezzarlo saranno forse i nostalgici di quel periodo.

E' vero? Beh, forse sì. E' vero.
E' un male?
No. Non necessariamente.

Cerchiamo di capirci. “Shazam” è un film prevedibile in ogni suo atto. E' un film che attinge a una tradizione avventurosa e fantasiosa che deve molto al marchio Disney (attualmente impegnato altrove, con un'etichetta concorrente). E sì, possibilmente rispolvera anche criteri e guizzi di un modo di fare cinema dei primi anni 90, per linguaggio ed estetica. Un film tratto da un fumetto di supereroi come si facevano una volta. Senza pensare a tessere tele in cui dovrebbero convergere altri progetti filmici, ma mirando unicamente a portare a casa un prodotto decente, che duri lo spazio di una serata, senza aspirare a essere ricordato per più di qualche ora.

Sì, diciamolo pure. Quello di Sandberg è un filmetto senza pretese.

Perché, allora, “Shazam” mi ha divertito come un bambino? La sua prevedibilità, per una volta, non mi ha annoiato, ma mi ha fatto conservare fino alla fine del film una sensazione piacevolissima, facendomi uscire dal cinema contento come non mi era successo con il recente “Captain Marvel” e ancora meno con l'acclamato “Aquaman”. Come mai?

In modo paradossale, la risposta potrebbe nascondersi proprio nel tema centrale del film. Vale a dire in quel bambino nascosto nel corpo di un adulto con superpoteri che non sa nascondere (né vuole farlo) la sua identità infantile. Forse tutto sta in quel concetto cardine, perché poche cose nella vita sono più puerili (e ridicole) di un bambino che gonfia il petto e fa smorfie per sembrare adulto. Mentre di un bambino vero si può magari apprezzare la simpatia, la spontaneità, la vivacità.

La chiave anni 90, che potremmo anche chiamare “disneyana”, fonde l'avventura fantastica con la commedia, e realizza un compito diligente in cui il cinefumetto parla finalmente la vera lingua delle tavole disegnate senza pretendere di mimetizzarsi per sembrare altro. E sia chiaro che il linguaggio del fumetto non è necessariamente sciocco o ingenuo. Nel caso di “Shazam”, parliamo di fantasia, di contenuti fiabeschi, di supereroi. Un terreno minato dove tentare di essere adulti a ogni costo può portare a derive perniciose. Per una volta, un cinecomic rinuncia ad aderire a quello che è un trend non dichiarato, ma ormai pesantemente codificato dal cinema degli ultimi anni. Quello di voler sembrare un prodotto che parla a tutti, a tutte le età, e facendolo realizza un pasticcio ibrido in cerca di un target indefinibile. “Shazam”, invece, se ne frega allegramente, e la butta in burla, ma conservando il tono dell'avventura di formazione. Per questo ogni twist, per quanto prevedibile, è accolto con affetto e la linea ironica che a tratti prevale su quella più seriosa (nel film non mancano momenti moderatamente horror) centra il bersagli. Ci fa sentire come se avessimo infine vinto a una gara un pupazzo che ci stava particolarmente a cuore e che finalmente possiamo abbracciare. Bentornati, anni 90. Bentornata, ingenuità felice. E bentornata confezione cinematografica diligente ma senza pretese.


La presenza dell'attore Zachary Levi è sicuramente uno dei punti vincenti del film, rodatissimo attore di commedia in grado di far trasparire il bambino dentro il titano per tutta la durata dello spettacolo. Favorito, nell'edizione italiana, dalla simpatica performance di Maurizio Merluzzo, qui perfettamente in parte. Non serve parlare della rivincita di un prodotto targato DC-Warner contro l'avanzata del Marvel Cinematic Universe. O almeno non dovrebbe importare. Chi non conosce il personaggio si troverà davanti a un film fantastico (per ragazzi? Ma sì, non è mica una parolaccia!) leggero e gradevole. Un film che ovviamente presenta dei cliché, e uno schematismo sentimentale che a qualcuno potrebbe risultare telefonato. Ma dopotutto, è davvero una cosa così negativa? Viviamo in un periodo storico in cui la semplificazione eccessiva di problemi complessi sembra pagare. Allora perché non affidarsi anche a valori positivi altrettanto schematici? Se il messaggio è quello della famiglia che si sceglie, e della solidarietà che rende forti, ben venga. Ne abbiamo bisogno come del pane fresco. E perché no, se l'odio semplificato vince nella comunicazione, forse può farlo anche uno schema semplice che parla al cuore. Per una volta gli appassionati dei fumetti ritroveranno una notevole fedeltà alle fonti, soprattutto alla riscrittura delle origini del personaggio firmata in anni recenti da Geoff Johns e Gary Frank (e se venite a trovarmi alla Biblioteca Salvatore RizzutoAdelfio, potrette leggerlo gratuitamente). Una sola vera, grossa ma indolore, variante. E stavolta ad applaudire in sala sono i bambini. E hanno ragione a farlo. Quasi dispiace non avere il coraggio di farlo con loro. Persino i titoli di coda risultano accattivanti e degni di essere visti fino alla fine. Una scena middle-credits che introduce un altro grande avversario che a quel punto nessuno si aspetta, e un'ultima scena post credits che ironizza sulla battuta finale di un altro cinecomic che attualmente va per la maggiore.


Tutto questo non sarà perfetto. Anzi, non lo è di certo. Ma funziona. Personalmente accolgo con piacere un film che non fa nulla per piacere a tutti. Cerca solo di essere quello che è. Tanto non piacerà a tutti lo stesso. E lo sa. Ne è magari fiero. Il cinecomic è servito. Anzi, il cinecomic è tornato. Tornato quello di una volta, e già mi sembra di sentire la trita cantilena di chi mi dice che dovrei mettermi al passo con i tempi. Ma non importa, l'ultima persona che mi ha detto qualcosa del genere aveva più di trent'anni, e non ha ancora imparato che giovani si diventa con fatica. Prima si è soltanto degli arroganti pischelli. E che la giovinezza che merita di essere conservata, anzi conquistata con l'esperienza, è uno stato d'animo, non un linguaggio o un trend cui omologarsi. Ci vogliono forza e tempo per guadagnare quella leggerezza.
Per questo, oggi, sono contento di aver visto “Shazam”.

P. S. Il solito post scriptum. Con tutto il rispetto e la solidarietà che ho per chi invita a frequentare le sale cinematografiche “perché è meglio”... io vi voglio bene, ma non capisco come facciate a sopportarlo. Io se pago il biglietto desidero vedere il film, non l'illuminatissima casella Gmail del giovanotto seduto davanti che la consulta per tutto il tempo. Lo spettacolo del suo osso sacro peloso quando si alzava o sedeva era già più interessante.



mercoledì 6 marzo 2019

Captain Marvel: il nome (e nel nome) del Capitano



“Captain Marvel” è l'ultimo tassello del grande gioco cinematografico che dovrebbe vedere il suo punto d'arrivo in “Avengers: Endgame” (nomen omen), prima di una nuova (e a questo punto, direi, incerta) nuova fase. La quarta, nella quale molti fans sperano e proiettano (soprattutto nel fatidico numero) il ritorno in live action di un brand fumettistico finora al centro di letture insoddisfacenti.

Il film dedicato a Carol Danvers (questo il nome civile della protagonista) è a mio parere fortemente imparentato con il predecessore Ant-Man (il primo), e come questo si presenta al pubblico con la forma di una grande sintesi narrativa. Un gioco di specchi e rimandi (forse anche troppi) che cerca da un lato di accontentare i conoscitori della materia, da un altro di confezionare un prodotto commerciale che possa piacere un po' a tutti.

Ci riesce? Ni.

Già a proposito di “Ant-Man” la Marvel-Disney aveva scelto di puntare sull'identità più contemporanea del personaggio, e cioè Scott Lang, il ladro dal cuore d'oro, piuttosto che riscaldare la storia del brillante scienziato che sperimenta la sua scoperta su se stesso (Henry Pym). L'introduzione sullo schermo dell'Ant-Man originale con il ruolo di maturo mentore ha funzionato discretamente, e la vicenda del frastornato avventuriero catapultato in un complotto da fantascienza risultava più vendibile facendo sì che la sceneggiatura del film si scrivesse praticamente da sola, sfornando un prodotto fantastico per famiglie senza particolari lodi, ma più che digeribile.

In “Captain Marvel” l'intento è simile, ma la materia è ancora più complessa. Anche in questo caso il personaggio storico (l'alieno Mar-Vell, inviato come spia dall'impero Kree sulla terra per operare in segreto) aveva vissuto un arco narrativo lunghissimo e glorioso. Le sue gesta erano connesse a parecchi snodi delle saghe cosmico marvelliane. Era stato (Udite! Udite!) uno dei principali avversari dell'oggi popolarissimo Thanos, e alla fine aveva concluso la sua corsa morendo, a sorpresa, non tanto da eroe... quanto da essere umano, stroncato da una malattia che affligge tante persone comuni. Un'eredità narrativa pesante, quindi, per Carol, già Miss Marvel (controparte femminile dello storico eroe maschio), poi evoluta in Warbird (il nome Miss era e resta ridicolo) e poi in Binary, la stella umana, sulle pagine degli X-Men. Se Scott Lang, come Ant-Man, s'era già guadagnato una discreta fama nei fumetti, la lunga e contorta carriera di Carol non aveva aiutato a farla emergere presso il pubblico più vasto. Troppe identità, troppe ripartenze, fino alla scelta di assumere (appena nel 2012) il nome di battaglia dell'eroe al cui fianco si era battuta, esordendo nei lontani anni 60. Un codice palinsesto di personaggi, di riscritture, di caratterizzazioni e di diverse origini che si sovrapponevano.

Ma il problema non è neppure questo. Il film diretto da Anna Boden e Ryan Fleck è un giocattolone che presenta un gioco di specchi, in qualche caso barando anche un po'. E per quanto si sforzi (a tratti riuscendoci pure) di essere simpatico, presenta ormai la pesantezza di un ingranaggio di cui conosciamo troppo bene il funzionamento per sorprenderci davvero. Inoltre, cerca di reinventare la storia di origini affidandosi a un sistema di flashback, ma soprattutto di falsi indizi che potrebbero essere il punto di forza del film, ma nello stesso tempo rischiano di essere il suo tallone d'Achille.

“Captain Marvel” è un film fatto di nomi. Nomi che non vengono pronunciati (o mi sono distratto io?) se non quando il racconto è avanzato. Di nomi di battaglia che non esistono se non nel titolo della pellicola (nessuno pronuncerà frasi come «Io sono...» ed è meglio così). E di trabocchetti narrativi nascosti in bella vista, che se chiamati per nome, appunto, sarebbero rivelatori sin dall'inizio per i “veri credenti” (espressione coniata da Stan Lee e nel film apertamente citata, in quello che è il primo dei camei postumi del grande architetto della Marvel). L'apparizione inattesa (io non sapevo neanche che sarebbe stata presente nel film) di Annette Bening in un doppio ruolo, fa parte di questo gioco di specchi ed è uno degli elementi che probabilmente farà più discutere i fans. Quasi sicuramente per le ragioni sbagliate.

Il problema vero di questo “Captain Marvel” è il tentativo di riassumere tanto lavorando sottotraccia, con il risultato che il film decolla davvero solo quando il racconto ha cominciato a scoprire le sue carte, dando una sensazione di cesura forse troppo netta. Come se si stesse assistendo a due film in uno. La prima parte risulta confusa e soffre di una schematicità che rischia di far sembrare il primo tempo l'episodio pilota di una serie televisiva arrivata fuori tempo massimo. La seconda parte si giova della spinta avuta dai vari twist, ma la ricetta Marvel è tiranna, e la formula matematica che ormai sappiamo a memoria non regalerà nessuna ulteriore sorpresa. La protagonista è carismatica, ma il suo carattere è più descritto che realmente mostrato, e vederla trasfigurarsi nelle sue varie incarnazioni fumettistiche non basta a soddisfare lo spettatore Marvel della primissima ora. Non quelli più stanchi, almeno, e ormai assetati di un linguaggio cinematografico che sia sempre più cinema e meno fumetto, a prescindere dai tributi alle letture passate. E i buchi di trama, le trovate cacciate dentro a forza (una su tutte bella ingombrante) si accettano più per compiacenza con la festa cartoonistica in corso che per suggestione.


Per questo, “Captain Marvel”, pur essendo nel complesso un film gradevole, risulta solo un trait d'union con l'imminente “Avengers: Endgame”, che completerà il puzzle già in parte composto da “Infinity War”. Un interludio, un riscaldamento, in attesa dell'atto finale dello spettacolo generale. Per questo i film Marvel (il termine cinecomic è troppo generico) vanno considerati film molto particolari, e non sono (non possono essere) omologabili con altro cinema. Non si tratta nemmeno di etichettare cinema vero e cinema finto. Si tratta di generi, di regole di gioco e di attitudine a un tipo di intrattenimento (assolutamente non obbligatorio) sotto certi aspetti inedito. Per questo, concluso il grande giocattolo composto da pezzi che si incastrano (più o meno) bene tra loro, e l'arazzo cinematografico che rilegge un media diverso, si potrà fare un passo indietro e contemplare l'opera nel suo insieme. E allora, a mente fredda, magari a distanza di anni e lontani da inutili tifoserie da stadio, dire in che misura lo spettacolo multiplo ha funzionato. I film della fase successiva avranno bisogno di parecchia inventiva e di una discreta capacità di osare, o essere benevoli con questo trend commerciale diventerà davvero difficile.

Se lo consiglio? Diciamo che non lo sconsiglio. E lo faccio per partito preso. Una blogger cinefila che stimo molto ha recensito positivamente “Aquaman” definendo il film di James Wan uno dei più stupidi che abbia mai visto, ma affermando che l'ha tanto divertita proprio grazie alla regia kitsch dello stesso Wan. Personalmente, non ho condivido il suo divertimento, ma riconosco che i motivi per apprezzare un film possono essere vari. E soprattutto nell'ambito dei film “sciocchi” non è neppure il caso di starci a pensare troppo. L'importante è non dimostrarsi più sciocchi dei film facendo partire inutili zuffe o gare di competenze che non esistono. E “Captain Marvel” nel suo marasma, nella sua prevedibilità, un paio di cosette le azzecca. Almeno per i fans Marvel di vecchia data. Per il pubblico generalista, onestamente, non saprei.

P. S. Stavolta nel cinema non è successo niente di insopportabile, in confronto ho affrontato visioni davvero apocalittiche. Rimane il fatto triste che il pubblico in sala si dimostra puntualmente di una maleducazione stratosferica. E il tormentone «Maledettiiiiiiii!» urlato, ha ormai rotto tre quarti di minchia.

venerdì 15 giugno 2018

LEGION: e due (in attesa del tre)



Si è conclusa anche la seconda stagione di LEGION, serie Tv ideata da Noah Hawley, di cui è già stata confermata la terza stagione. Una sorpresa, considerando quante serie cadono ogni giorno sotto la mannaia dell'audience ridotta, e pensando che LEGION tutto è tranne che uno spettacolo convenzionale che muove le masse. Certo, all'origine di tutto ci sono i fumetti, gli X-Men e i loro miti, e la Marvel. LEGION fa parte di quell'universo parallelo televisivo in cui si specchiano gli attualmente popolarissimi cinecomics (intendendo qui per “cinecomics” quanto prende spunto dal genere supereroistico, mai così trend nell'industria dello spettacolo in live action). Di LEGION sorprende questa sua resistenza alle logiche di mercato (non sempre sono gli ascolti a determinare la longevità di una serie TV) e il coraggio di una scelta estetica e narrativa sicuramente non abituale per il mondo degli eroi con poteri.


La chiave di lettura surreale scelta da Hawley è il vero punto di forza di LEGION. Una catena di elementi citazionisti (la storia potrebbe benissimo svolgersi ai margini del mondo narrativo degli X-Men cinematografici, e Charles Xavier esistere fuori scena) e di atmosfere psichedeliche che (impossibile non reiterare questo concetto) ricordano spesso lo stile di David Lynch. Ma ricorda anche esperienze televisive storiche, come la serie britannica “Il Prigioniero” della seconda metà degli anni sessanta del secolo scorso. Serie enigmatica e ricca di sottotesti simbolici, viaggio nella mente del protagonista che non forniva mai risposte intelligibili, e che all'epoca, soprattutto con la sua conclusione, anticipò gli shock di cult futuri come LOST.



Vedere LEGION come una qualsiasi altra serie dedicata ai supereroi sarebbe un errore. Anzi, non è neppure possibile, dal momento che scardina in fretta ogni aspettativa convenzionale. Non si tratta solo di fotografia, colori, trovate visive di notevole impatto, quanto della domanda su cui tutta la narrazione si fonda. E cioè: quanto vediamo, i personaggi che incontriamo, sono tutti reali? O sono parte del delirio di David Haller, manifestazioni della sua schizofrenia? E i poteri mutanti, i mutanti stessi, esistono? O sono anch'essi una rappresentazione allegorica della tante personalità di David, compreso il suo antagonista, il mefistofelico Re delle Ombre?



LEGION, quindi, si propone in apparenza coma una storia supereroistica, ma può essere letto come un viaggio sciamanico alla ricerca di sé e dei propri veri obiettivi. Uno spettacolo che travalica il genere e coraggiosamente osa rompere gli argini, aspirando a essere qualcosa d'altro, qualcosa di più. In che misura ci riesca può essere oggetto di conversazione. Tutt'ora, a seconda stagione conclusa e terza in preparazione, non ci sono risposte definitive. Non ce n'è bisogno. L'ambiguità e la simbologia di base sono il vero cuore dello show. Entrambe le realtà, quella vera e quella sognata (sempre che sia così) vanno comunque bene. Sono due modi diversi di narrare e intendere il medesimo concetto. La ricerca della propria identità, il bisogno ancestrale di trovare un avversario, anche costruendolo da una propria costola se necessario, pur di avere un diavolo da incolpare per le nostre disgrazie. LEGION riesce a essere una criptica metafora esistenziale, e per questo merita attenzione. Un esperimento dissidente nella contemporanea ubriacatura da supereroi in live action. Un cocktail visivo e concettuale che non ci aspettavamo, ma che a due stagioni dall'inizio continua a essere effervescente, spingendoci a volerne ancora.


Perché sì, perché forse, se i mutanti, se i supereroi esistessero, le cose andrebbero in modo molto diverso da come appaiono nei fumetti. L'esistenza sarebbe tutt'altro che semplice o schematica, i confini tra bene e male quanto mai sfumati. Magari diventerebbe un labirinto etico e allucinatorio in cui vaghiamo senza più un preciso punto di riferimento. O forse, supereroi a parte, è già così. E la fantasia di potere cui i fumetti ci hanno abituato non è più una fuga o una possibilità di riscatto.
Se mai lo è stata. Forse è piuttosto una prigione.



giovedì 11 settembre 2008

Profondo Dark...



"Why So Serious?"

Buon ultimo, da vero figliol prodigo, ho infine visto “Il Cavaliere Oscuro”, secondo film sull’Uomo Pipistrello diretto da Christopher Nolan, talentuoso regista che ci ha dato film memorabili come “Memento” e “The Prestige”. Finalmente, dopo settimane di bombardamento mediatico e di plauso trasversale, ho potuto toccare con mano il “miracolo” cinefumettistico dell’anno, mettere la mano nel suo costato, toccarne le piaghe sanguinanti. E ho constatato, alla resa dei conti, di trovarmi di fronte a una creatura davvero bizzarra quanto difficile da valutare.
Si è usata tanto (troppo!) la parola capolavoro. Non sono il tipo che si scandalizza se questo sigillo di qualità assoluta viene usato per materiale che affonda le radici in un prodotto di norma tra i più leggeri, come il fumetto di genere supereroistico. Per capolavoro s’intende di norma la massima espressione artistica di un autore o, in genere, di una corrente culturale. Quindi anche l’etichetta “capolavoro” può essere molto relativa. Se in un paese di ciechi un guercio è sovrano, potremmo dire che un capolavoro può apparire tale in base al suo contesto storico, al di là dei suoi meriti oggettivi. “Il Cavaliere Oscuro” è un film che gonfia i muscoli non tanto per apparire “fico”, ma per dimostrarsi a tutti i costi “adulto”. Per sorpassare i pop corn movie su sentieri dove questi non osano spingersi. Il punto, a mio avviso, è che questa intenzione finisce col diventare anche il punto più debole di un film che si prende talmente sul serio da risultare a tratti pedante e persino ridicolo.
Il Cavaliere Oscuro” non è certo un brutto film. Anzi, è potenzialmente uno degli esperimenti cinefumettistici più interessanti degli ultimi anni. Semplicemente non è un capolavoro, e questo a prescindere dall’argomento trattato. Non è il Batman definitivo, come tanti hanno amato credere. Ed è un prodotto che intreccia i tanti difetti con intuizioni visive e narrative azzeccate, finendo col risultare un ibrido sconcertante. Il concetto di “miglior cinefumetto mai fatto”, che tanto ha impazzato sui blog negli ultimi mesi, è da ricondurre al piglio tenebroso e forzatamente “maturo” del racconto. Del resto, a molti bambini piace sentirsi definire “ometti”. Il punto è che l’overdose di cupezza e trucidità finisce col rivelarsi una trappola estetica in cui non tutti gli elementi (alcuni dei quali fondamentali) trovano la loro giusta collocazione.
L’atmosfera è quella di un vecchio, bel noir di Hollywood con Humphrey Bogart. Uno di quelli che non fanno più, tipo “La Città è salva” (1951), dove il crimine organizzato era descritto come un male assoluto, inafferrabile e forse imbattibile. Nei quali si respirava a ogni scena aria da film horror, in un crescendo di ansia e di atmosfere insane. Dove i delitti erano shockanti a causa del crescendo e del senso di ineluttabilità, non per via del sangue versato a fiumi. “Il Cavaliere Oscuro” riesce a ricreare una suggestione simile, grazie anche a una felice reinterpretazione del Joker, che in questo film si affranca dal pagliaccio che conosciamo per ispirarsi di più a figure dell’horror contemporaneo. Il nuovo Joker è parente stretto di serial killers creativi e diabolici come il John Doe di “Seven”, il Jigsaw di “Saw” e l’Hannibal Lecter del “Silenzio degli Innocenti”. La performance di Heat Ledger buca lo schermo e sicuramente merita da sola la visione del film. Ma il vero punto nevralgico dell’operazione è proprio Batman, e non per colpa dell’attore Christian Bale. Tutta la serietà, la cupezza, l’orrore e l’angoscia, crollano come un castello di carte non appena l’Uomo Pipistrello fa il suo ingresso in scena. Un vigilante in tuta, che gira mascherato senza che sia carnevale in un contesto che fa di tutto per convincerti che “non si sta scherzando”, per me, ha l’effetto di un dito in un occhio. Avevo avuto la stessa sensazione col precedente “Batman Begins”, ma nel “Cavaliere Oscuro”, l’ulteriore, profondo dark in cui lo spettatore è tuffato fa aumentare esponenzialmente il senso di finto e posticcio del personaggio protagonista, ancora distante dalla lettura, davvero innovativa, di cui si giova invece la sua nemesi.
L’effetto, dunque, è straniante. I sapori non si mischiano come dovrebbero e le contraddizioni fioccano. Si noti l’episodio dei due battelli sequestrati dal Joker e costretti a risolvere un dilemma mortale. E’ come se Nolan avesse voluto inserire a forza uno degli ingredienti più indigesti della saga cinematografica di Spider-Man, che nei suoi due seguiti ha scelto la strada della melensaggine. Un intermezzo moraleggiante dove, nell’improbabile conclusione buonista, aleggia ingombrante il fantasma di Edmondo De Amicis (non esagero!), in un’esplosione di ottimismo, redenzione e fiducia nell’umanità che non c’entra nulla con il resto del film.
Peccato, inoltre, per Due Facce. Aaron Eckhart è a mio parere una vera rivelazione. Il personaggio di Harvey Dent è affascinante e il suo cammino per trasformarsi nel mostruoso Due Facce è una delle sottotrame più intriganti del film. Ma dobbiamo accontentarci di una breve parabola finale per un villain che sarebbe stato tanto più grande e carismatico proprio in forza dell’intenso background fornito al personaggio. Un vero spreco.
Dedichiamo due parole anche alla povera e bistrattata Maggie Gyllenhaal, subentrata alla pupattola Kathie Holmes nel ruolo di Rachel Dawes.
Altrove è stato scritto: “ Maggie Gyllenhaal è brutta e cagna”.
Ok, per una volta il ruolo femminile è stato affidato a una donna normale (la Gyllenhaal, appunto) e non alla strafiga di turno. Per quanto riguarda le qualità di attrice di Maggie, quel che balza agli occhi più dei suoi eventuali demeriti, è l’inconsistenza del personaggio, ridotto a mero pretesto per le reazioni degli interpreti maschili. Non mi sorprende, quindi, che la partecipazione della Gyllenhaal (a suo agio in film come “Secretary”) risulti qui meccanica e alimentare. La parola “cagna” mi sembra un tantino esagerata, ma quel che trovo poco professionale (e gratuitamente sciovinista) in una recensione è che la si insulti definendola “brutta”. Cosa che sembra suggerire che a una tettona, sia pure cagna, si sarebbe comunque potuto perdonare di più. Non è certo Maggie Gyllenhaal il vero neo de “Il Cavaliere Oscuro”, che si risolve in un esperimento riuscito solo in parte. Il fumetto cinematografico perfetto, penso, deve ancora arrivare. Oggi, qualcuno trova datati i due film di Tim Burton sull’Uomo Pipistrello. Qualcun altro arriccia il naso, giudicando l’aspetto grottesco di Burton debitore al Batman a fumetti di Carmine Infantino, autore di un periodo caratterizzato da una vena giocosa e pimpante. Eppure anche il Batman di Tim Burton era dark. Ma lo era in un’accezione di fiaba gotica, forse la chiave di lettura più plausibile per il personaggio.
Perché tanta ansia di essere... anzi, di apparire adulti? Siamo sicuri che questa frenesia non rischi di compromettere la nostra reale crescita? Io non lo so, temo possa essere così. Ho paura che le alchimie commerciali e i trend di cui siamo ostaggi ci stiano presentando un profilo dell’età matura fuorviante e un po’ ottuso. Forse sono un catastrofista, chissà. Ma non credo che certe risposte si celino sotto la maschera di Batman o dietro il sorriso sfregiato del Joker.