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mercoledì 11 marzo 2020

The Color Out of Space [di Richard Stanley]


"The Color Out of Space" rappresenta il ritorno di Richard Stanley alla regia di un lungometraggio dopo un periodo piuttosto lungo. Infatti, dopo le ottime prove di "Hardware" e "Dust Devil" (noto anche come "Demoniaca"), nella prima metà degli anni 90, il regista sudafricano aveva firmato soltanto corti, documentari e brevi episodi in film antologici. Nel 1996 avrebbe dovuto dirigere "L'isola perduta", ma la sua visione personale e l'ingombrante presenza della star Marlon Brando, causarono il suo allontanamento dal progetto che fu portato a termine da John Frankenheimer. Un peccato, considerato il valore dei suoi primi film. Opere di genere horror baciate da una sensibilità autoriale e una capacità evocativa visionaria, in cui scenografie, fotografia e colore danno vita a sogni lucidi inquietanti e di grande impatto sulla memoria. "The Color Out of Space", del 2019, è quindi un film di una certa importanza. Che somma il ritorno in scena di un regista che ha tanto da dire (e che lo dice in modo personalissimo) con un nuovo approccio alla narrativa di H. P. Lovecraft, ritenuto (e non a torto) uno degli scrittori horror meno filmabili per via della sua particolare poetica, fatta di orrori suggeriti e sempre collocati oltre l'immaginazione umana. "Il Colore venuto dallo Spazio" è peraltro uno dei racconti più noti e adattati di Lovecraft. La sua prima versione cinematografica risale al 1965 e al film "Die, Monster, Die!" di Daniel Haller, che in italiano diventa "La morte dall'occhio di cristallo" e vede come protagonista il mitico Boris Karloff. Da allora, la vicenda dell'entità extraterrestre che giunge in una zona boscosa della terra all'interno di un meteorite e che si manifesta come un colore inesistente nel nostro piano di realtà, dotato di una volontà maligna che ridefinisce il mondo intorno a sé secondo uno schema alieno e incomprensibile, mutando cose e corpi, è stata più volte ridotta per lo schermo. Raramente in modo efficace. E già, parliamo sempre del non adattabile Lovecraft. Diciamo anche che il titolo italiano del racconto forse non rende giustizia all'idea del suo autore. "The Color Out the Space" è un "colore fuori dello spazio" più che "venuto dallo spazio". Qualcosa di indefinibile e inqualificabile. Un elemento portatore di caos che azzera le norme e stravolge spazio e tempo, infettando ambiente, menti e corpi. Nel racconto il colore non appartiene a nessuna tavolozza, non è descrivibile nella sua alienità, e ovviamente questo non può essere reso al di fuori della rappresentazione letteraria. Richard Stanley, che aveva già dato prova di notevoli suggestioni oniriche con "Dust Devil" (di cui consiglio il recupero della versione Director's Cut con il titolo originale), sceglie per questa tinta aliena una sfumatura di fucsia iridescente (neanche a farlo apposta, un colore che io detesto). Caldo, ma nello stesso tempo morboso. E lo rende centrale e malevolo con la sua crescente onnipresenza a mano a mano che il film va avanti. Non c'è molto da raccontare, in quanto l'opera di Lovecraft, come abbiamo detto, è ampiamente nota e sfruttata. Quello da considerare, dunque, non è tanto il racconto e il suo progredire (che oggi chiunque può facilmente prevedere) quanto la personale visione scenica di Stanley, che la racconta con un ritmo dapprima rilassato e poi sempre più convulso, mentre le sue invenzioni cromatiche divampano e il body horror che si è già fatto interprete degli orrori lovecraftiani su schermo nelle opere di Stuart Gordon e Brian Yuzna si manifesta in tutto il suo disgustoso splendore. E poi... già! Poi c'è Nicolas Cage. In realtà non c'è solo lui. C'è Joely Richardson, protagonista di almeno due scene che mi hanno fatto saltare i nervi. E Madeleine Arthur, veramente brava e intensa. Ma ci si aspetta di sentir parlare di Cage. Nicolas Cage è praticamente diventato il caprio espiatorio di una quantità di film di genere. Per osmosi, sembra che il povero Nicolas sia ormai identificato con il marchio di infamia che definirà un film come pessimo. Quasi come se le sue scelte, la sua stessa presenza, abbiano la stessa caratteristica nefasta del "colore fuori dello spazio". Quella di guastare e trasformare tutto ciò che tocca in qualcosa di indescrivibile nel suo orrore. Beh, non è vero, dai. Nel film di Stanley, Cage è del tutto funzionale al racconto. Ci sarà, nell'ultima parte del film, un momento in cui lo vedremo andare fuori di testa (ma vorrei vedere chiunque in quella situazione) e fare le sue smorfie. Ma mi domando se il regista non lo ha scelto proprio per questo. Per rappresentare la progressiva marcescenza mentale e la trasformazione di un individuo posato e mite in qualcosa di grottesco e privo di senso. Come molti oggi vedono Nicola Cage, dopotutto. Insomma, "The Color Out of Space" è un felice ritorno per Richard Stanley. Potrà non colpire particolarmente, in quanto narra una storia già vista ormai mille volte (anche in numerose varianti del tema), ma dimostra che la poetica visiva del regista è ancora viva e vitale. E il suo progetto di realizzare una trilogia basata sull'immaginario di H.P. Lovecraft non può che ispirarmi un'interessata attesa.

mercoledì 26 febbraio 2020

L'impero delle ombre [di Kim Jee-woon]


E' allucinante che io mi debba sentire inibito a parlare di cose che apprezzo solo perché l'Oscar a Bong Joon-Ho ha scatenato due fazioni, tra cui alcuni soggetti pronti a disturbarti con toni che posso definire solo maleducati. Chi sta scoprendo il cinema sud-coreano (o asiatico in generale) soltanto adesso (non sarebbe il mio caso, ma in verità la trovo una cosa legittima) e cinefili integralisti che ti accusano di seguire un trend in modo acritico (perché naturalmente leggono solo quello che vogliono leggere e il loro unico fine è sentirsi migliori di qualcun'altro). Invece no, torno alle mie abitudini di condividere i miei pensieri sull'arte parlando de "L'impero delle ombre" di Kim Jee-Woon (regista di "Two Sisters", "Il buono, il matto, il cattivo", "I Saw the Devil" e tanto altro). Anche qui parliamo di un film arrivato da noi solo per l'home video, e anche in questo caso ingiustamente ignorato dal vasto pubblico (e non perché dovremmo imparare qualcosa dai cineasti orientali... ma perché è un cinema molto valido che è cibo per l'anima, e vale la pena di conoscerlo). Quando l'ho visto mi sono scoperto a interrogarmi sul titolo, sia italiano che internazionale. Ritengo che "L'impero delle ombre" sia un po' fuorviante. Il titolo in inglese è "The Age of the Shadows", quindi l'Era delle ombre... o meglio "delle tenebre". Penso che potremmo tradurlo più fedelmente dicendo "Gli anni bui". Il titolo originale "Mil-jeong", credo significhi "Agente segreto", ma non ne sono sicuro. Perché tutto questo girare intorno al titolo? Perché in molti siti ho trovato il film di Kim Jee-Woon definito come una "spy story", quando in realtà è qualcosa di molto diverso. E' un film drammatico, un film di guerra, storico, un racconto di scelte, di onore e tradimenti, di doppi giochi... e sì, è anche un thriller politico, confezionato con una notevole potenza visiva ed emotiva. Ambientato nella Corea degli anni venti durante l'occupazione giapponese, è una storia di resistenza e di riscoperta di un'identità, da parte di soggetti che l'hanno in parte persa e devono (forse, chissà) ricostruirla insieme al senso di appartenenza a un paese sotto il tacco di una potenza autoritaria. "L'impero delle ombre" può essere letto su molti livelli, una cronaca, per l'appunto, della resistenza coreana di quegli anni bui, un racconto di suspense in cui tutti fingono e non sai mai se credere a ciò che senti. Qualcuno ha accostato certe sequenze del film al cinema di Brian De Palma (la famosa, lunga scena del treno). Mi astengo dal dare conferme o smentite che (onestamente) non mi competono. Dirò solo che il film di Kim Jee-woon riesce a coniugare benissimo l'aspetto del thriller con quello della ricostruzione storica, del messaggio politico, dell'inno alla resistenza, dell'esortazione alla dignità e alla lotta contro tutti i totalitarismi. E non si può non sottolineare la presenza di Song Khang-ho, un viso che ormai è noto anche dalle nostre parti, e un attore camaleontico come pochi. Insomma, moda o non moda, ossessioni esterofile o meno, se non lo avete ancora visto, "L'impero delle ombre" di Kim Jee-woon è un film che vi consiglio spassionatamente di recuperare. Perché c'è solo da imparare. Dalle cose belle, intendo. Ed è un peccato che debba specificarlo.

martedì 18 febbraio 2020

Memorie di un assassino [di Bong Joon Ho]


"Memorie di un assassino", film del 2003 di Bong Joon Ho, era arrivato da noi direttamente in home video, e soltanto adesso, sulla scia del successo planetario di "Parasite", si sta giovando di una (più che tardiva) distribuzione nei cinema. Quel che si può dire... anzi, che posso dire a livello personale, è che negli ultimi anni il cinema orientale, e quello sudcoreano in particolare, mi suscita emozioni che i film occidentali neppure arrivano a sfiorare. Intendo dire che restano dentro, a fermentare nella memoria, dopo avere incantato con immagini di grande impatto, interpretazioni magistrali e temi non scontati. Già "The Host", da alcuni bistrattato come fosse un banale monster movie, era un grande film, con molteplici livelli di lettura e sfumature a perdita d'occhio e di cervello. "Memorie di un assassino" è un'opera per certi versi spiazzante. Si regge su quella linea grottesca che caratterizza la maggior parte dei film di Bong Joon Ho (compreso "Snowpiercer"), e disorienta con i suoi frequenti twist tra noir, con frequenti esplosioni di violenza, e situazioni che sconfinano nel comico. Un altro di quei film dei quali è meglio parlare poco per scoprirli sullo schermo, giacché ogni segmento è una sorpresa, e il film muta di tono ogni quarto d'ora spingendoci a chiederci che cosa ci sta venendo mostrato e perché. La componente sociopolitica è chiara qui sin dall'inizio, ma diventa sempre più delineata a mano a mano che ci si avvicina al finale. Bong Joon Ho non rassicura nessuno, al contrario disturba. Fa ridere e un attimo dopo colpisce allo stomaco. Duramente. E Song Kang Ho, attore feticcio del regista e punta di diamante di tutto il cinema sudcoreano, è un camaleonte inarrivabile. Si stenta a riconoscerlo nelle sue trasformazioni tra "The Host", "Snowpiercer" e "Parasite". In "Memorie di un assassino" recita un ruolo sfaccettato e difficile da inquadrare. Proprio perché umano nelle sue imperfezioni, reale nei suoi sconfinati difetti. Buffo e tragico nello stesso tempo. Insomma, un altro gioiello del cinema sudcoreano da scoprire. Una filmografia e un'estetica della settima arte da cui abbiamo tutti da imparare.

domenica 9 febbraio 2020

Vedendo JoJo Rabbit



Breve storia di vita vissuta. Al cinema, vedendo "JoJo Rabbit". Dietro di me, nel buio della sala, sento le voci di una coppia. Lui sembra un po' annoiato. Lei, invece, molto interessata.
Intanto arriva l'intervallo.
Lui: E' un po' lento, però.
Lei: No, non è vero. E poi che ne sai. Hai dormito tutto il tempo. Ahahaha!
Il film riprende. Ci si avvicina al finale. Ora... se ritenete questo uno spoiler, vuol dire che siete potenzialmente il concorrente medio de "L'Eredità" o "La pupa e il secchione", di quelli che scambiano Stalin per Mussolini.
Arriva la notizia che Hitler è morto e si è sparato in testa (falso storico! La notizia della morte di Hitler fu tenuta segreta a lungo. Ma non importa, il film ha molto di fiabesco). Ad ogni modo... dietro di me...
Lui: Chi? Chi è che è morto? Chi si è sparato?
Lei: (sospirando) Hitler! Hitler si è sparato.
Lui: Aaaah! E' lento, però.
Il film finisce. Iniziano a scorrere i titoli di coda. Dietro di me.
Lui: Eh, che succede?!
Lei: Dai, sveglia. Il film è finito. Possiamo andare via.
Anch'io mi alzo per andare via. Le luci ora sono accese. Realizzo che non mi sono voltato neanche per un momento, neppure durante l'intervallo. Ora lo faccio e scopro una realtà che non mi aspettavo.
Nella mia testa, avevo visto una coppia, con un lui accompagnatore recalcitrante e annoiato, e una ragazza che alzava gli occhi al cielo. Oddio, quasi. Ma non proprio come me l'ero immaginata.
"Lei", dalla voce bianca, era un bambino di circa tredici o quattordici anni.
Lui, era il nonno (non credo fosse il padre, per l'età) cui il ragazzo spiegava il film che faticava a seguire. Mi sembrava un'usuale, antipatica dinamica di coppia, invece, forse, era una cosa carina.
Comunque "JoJo Rabbit" è questo. Un film pedagogico per bambini. Nel senso che parla all'infanzia e la educa. Anche un'infanzia anagraficamente cresciuta, magari. Può non essere perfetto. Anzi, non lo è. Ma di questi film, e di questi bambini (intendo come quello seduto dietro di me, che aveva evidentemente scelto il film da vedere) oggi ne abbiamo un gran bisogno.

martedì 17 dicembre 2019

Watchmen, finale...



Fine del viaggio.
Si spera definitivamente.
Sì, perché forzare un seguito a un lavoro così ben scritto potrebbe, con grande probabilità, dimostrarsi un vero delitto. Watchmen, la serie TV firmata da Damon Lindelof si è conclusa, svelando nel suo ultimo atto un'architettura narrativa in cui gli ingegneri hanno lavorato di fino. Un'epopea suggestiva come non se ne vedevano da tempo. Una bellissima sorpresa, e un superamento (verrebbe da dire) del concetto di cinecomics, dal momento che ci troviamo davanti non a una trasposizione, ma al seguito ideale di una celebrata opera a fumetti, che conquista un'identità del tutto autonoma rispetto alla versione cinematografica che ne era stata data qualche anno fa. Un risultato pazzesco che, come mi è già capitato di dire, non mi aspettavo. Bravi tutti, ma bravo soprattutto Lindelof, che giustamente si tira preventivamente fuori da qualsiasi eventuale (e non necessaria) stiracchiatura. Affascinante riconoscere anche certi elementi dell'amatissimo LOST, qui recuperati dal suo autore in modo diverso, ma altrettanto efficace. La scrittura. La scrittura è tutto. Senza la scrittura non si va da nessuna parte. Watchmen, la serie TV, esiste grazie a questo, signori miei. Un esempio di ottima scrittura portata su schermo in modo egregio. E ora, se non l'avete ancora fatto, godetevi il gran finale. Sipario.

mercoledì 30 ottobre 2019

Watchmen - La serie TV: prime sensazioni...


Watchmen 1x02. Non sono ancora sicuro di aver capito dove Damon Lindelof abbia intenzione di andare a parare. Ma la narrazione carbura, e dopo l'impressione di disorientamento suscitata dal primo episodio, posso dire di essere entrato nel racconto quanto basta per voler scoprire che cosa succederà in seguito. Confermo la mia sensazione iniziale. E cioè che (almeno finora) questa serie TV sembra voler giocare con ambientazione e temi dell'opera di Alan Moore e Dave Gibbons per prendere una direzione completamente autonoma. E se questo dovesse essere confermato, sarebbero solo buone notizie. Più che un vero seguito si direbbe una storia che prende spunto da un determinato scenario. Un contesto fortemente riscritto (e del resto è passato tempo dal finale del graphic novel) e desideroso di giocare con le aspettative per parlare d'altro. Ammiccando ai feticci noti, ma lasciandoli a margine, mentre personaggi e situazioni prendono piede. Le atmosfere sono inquietanti e di fumettistico, nonostante tutto, per adesso c'è ben poco. E anche questo, direi, non è affatto un male. Non resta che da dire: vedremo, vedremo...

Titans: Chella Man è Jericho


Titans. Siamo oltre metà stagione, ormai, ed è sempre più evidente come l'obiettivo della serie DC Universe sia focalizzarsi sui personaggi, e fare prevalere la loro caratterizzazione sull'andamento della trama principale, che in ogni caso procede e si fa sempre più intricata. Abbiamo infine fatto la conoscenza di Jericho. Personaggio creato nei fumetti da Marv Wolfman e George Perez, qui interpretato da Chella Man alla sua prima prova attoriale. Sì, perché Chella è principalmente uno youtuber, un modello e un artista figurativo, ma credo si possa dire che, in una manciata di episodi, la sua prova di esordio sia tutt'altro che da disprezzare. Sordo nella vita, così come il personaggio che interpreta nella serie è muto, Chella Man è oggi uno dei primi attori transgender a interpretare un ruolo dal sesso definito, aprendo una buona volta la porta al fatto che i performers dall'identità sessuale fluida o in transizione, in genere condannati da Hollywood a recitare sempre e soltanto se stessi, possano rivestire qualunque parte esattamente come gli interpreti cisgender. 
Così come il suo corrispettivo a fumetti, Jericho è un personaggio tragico, figlio del principale avversario della squadra di cui si trova a far parte. Ma "Titans", la serie, segue una cronologia alternata, e presenta tanti aspetti ingannevoli (soprattutto per chi conosce i retroscena dei comic book) e tante cose sono ancora da chiarire. Con i suoi alti e bassi, ad ogni modo, "Titans" si sta confermando una serie molto interessante. Abbastanza diversa dalle letture live action dei fumetti supereroistici cui siamo stati abituati. E propone innovazioni che spingono a tenere d'occhio ogni sviluppo.


giovedì 17 ottobre 2019

E Titans continua...


Titans...
Ok, voglio Krypto. Lo so, probabilmente mi friggerebbe il gatto. Ma posso sempre provare a farli andare d'accordo.
A parte questo: Wow! Wow! Wow! Il modo di presentare Conner mi è piaciuto molto. Ed è interessante come i poteri di Superman (o di qualcuno simile a Superman) possano risultare inquietanti a seconda di come vengono raccontati. La serie Titans sta proponendo una buona caratterizzazione di eroi non sovraesposti quanto altri, e finora questo è il suo pregio maggiore. Insomma, per come la vedo io, continua a funzionare. E non vedo l'ora di sapere cosa succederà adesso.


lunedì 7 ottobre 2019

The Head Hunter [di Jordan Downey]

"The Head Hunter"(Il cacciatore di teste) è un bizzarro film (Fantasy? Horror?) diretto dal regista Jordan Downey nel 2018. Un film pressoché muto (i dialoghi ci sono, ma ridotti a un osso di pochi centimetri) che punta gran parte della sua durata (breve, dura poco più di un'ora) sull'atmosfera e la presenza, in sostanza, di un solo personaggio protagonista (l'attore norvegese Christopher Rygh). Un cavaliere vive isolato in una casupola in mezzo ai boschi dove, tempo prima, la figlioletta è stata uccisa da una creatura soprannaturale. La sua vita è scandita dall'attesa della vendetta e da una costante lotta contro i mostri che infestano quelle lande. Forse orchi, forse troll o altro (il film è molto avaro di spiegazioni). Qualcuno gli segnala la presenza dei mostri per mezzo di messaggi inviati su pergamena, quasi dei bollettini che segnalano la presenza di banditi ricercati, come i cartelli "wanted" del far west.
Il cavaliere, però, non è un cacciatore di taglie, ma di teste, che conserva come trofei, impalandole su pioli dentro la sua casa o su bastoni nel campo circostante. Le sue battaglie contro le creature mostruose sono tutte tenute rigorosamente fuori scena. Quella che ci viene narrata è la sua quotidianità, tra uno scontro sanguinoso e l'altro. Il cavaliere torna ogni volta con una nuova testa mostruosa da aggiungere alla sua macabra collezione. Cura le proprie ferite con erbe e pozioni magiche (veramente magiche!) e attende l'incontro finale con il suo antico nemico. Giorno dopo giorno, i suoi rituali diventano per noi familiari. Finché qualcosa non andrà storto. Tremendamente storto...


"The Head Hunter", con la sua narrazione minimalista, i suoi lunghi silenzi e lo sconcertante finale, potrebbe dare l'idea di un cortometraggio allungato oltre misura. Eppure sarebbe ingeneroso giudicarlo così. Il film di Jordan Downey, che si era fatto notare nel 2013 con l'horror comedy "Thankskilling", con protagonista un tacchino demoniaco, è un vero dipinto vivente. Un film dove i silenzi, la fotografia, i dettagli, il sangue e l'attesa dell'inevitabile, contribuiscono a plasmare un'esperienza cinematografica totalizzante, che non ha bisogno delle parole per essere completa. Un piccolo gioiello da ammirare con attenzione.

sabato 5 ottobre 2019

Martin Scorsese contro i cinecomics



A proposito della questione Scorsese vs cinecomics...

L'espressione "Non è vero cinema" andrebbe riportata con i piedi per terra. Non presa alla lettera, insomma. E soprattutto bisognerebbe imparare a non offendersi per questo genere di cose. Io non ne ho memoria, ma è stato mai detto che i cinepanettoni non sono vero cinema? In ogni caso qualcuno potrebbe dirlo. E anche in quel caso sarebbero solo parole. Perché persino i cinepanettoni sono cinema. Un brutto cinema. Un'espressione deteriore del cinema, che a lungo il botteghino ha premiato. Dire che qualcosa "non è cinema", ma anche "non è musica" o altro, è da intendere semplicemente come "non lo condivido. Non lo apprezzo. Non lo capisco. Non lo pratico. Per me la vera arte si esprime in modi diversi". E' tutto qui, e penso proprio fosse quello che Martin Scorsese intendesse dire, che lo si condivida o meno. Anche il paragone con i luna park è scontato. Quanti film kolossal, nel corso della storia, sono stati paragonati a baracconi? E' solo un modo di dire, per affermare che il proprio interesse e il proprio rispetto si focalizza su altri aspetti di quella forma d'arte. Ed è soprattutto legittimo, anche se può non piacere.
Prendete "Avengers: Endgame", film che ha emozionato molti spettatori e irritato altri. Io stesso sono un fruitore del Marvel Cinematic Universe, e per primo a mio modo apprezzo alcuni (non tutti) di questi film, compreso l'ultimo Avengers.
Eppure, se qualcuno, metodicamente, mi spiega che la sceneggiatura è piena di buchi logici e tante cose non funzionano, non posso fare a meno di dire a me stesso: «Minchia! E' vero!»
Ciò non toglie che il film possa essere apprezzato. Anche da me che ne vedo i limiti. Perché gli stessi limiti logici, le stesse pecche e contraddizioni, sono il pane quotidiano dei fumetti seriali (per loro natura caotici e pasticciati) che questi film traspongono al cinema. Richiedono la disponibilità ad accettare l'inaccettabile (parliamo di supereroi e di universo condiviso). Un tipo di sospensione dell'incredulità che non va bene per tutti. Un tipo di suggestione che ignora la logica narrativa a beneficio di altri tipi di suggestione, legati al carisma di personaggi e dinamiche che non tutti possono, e soprattutto sono tenuti, a gradire. Sentir dire pertanto che i cinecomics "non sono cinema" non è una bestemmia, non è un'offesa alle nostre madri. Ma solo una formula di chi cerca la suggestione cinematografica prevalentemente altrove. Prendiamo la frase come un classico “nun me piace 'o presepe". E ricordiamo che c'è gente, ancora oggi, che dice che certi tipi d'amore non sono vero amore. E certi tipi di famiglia non sono una vera famiglia. E questo, se permettete, è veramente grave e richiede la nostra attenzione. Cerchiamo di dare il giusto peso alle cose e a prendere i diversi modi di fruire il cinema con più leggerezza.

venerdì 4 ottobre 2019

JOKER di Todd Phillips




Non sono mai propenso a definire un film appena visto come un "capolavoro". Sottoscrivo l'adagio che i capolavori, i film epocali, sono quelli che si dimostrano tali nei tempi lunghi, e solo successivamente manifestano la loro immortalità. Inoltre la parola con la C mi suona troppo come un contemporaneo sinonimo di «Wow! Figata!». E questo lascia il tempo che trova. Senza girarci ulteriormente intorno, dirò che il film mi è piaciuto. Ancora non so se molto o abbastanza, ci sono cose che hanno bisogno di essere metabolizzate affinché le si possa comprendere a pieno. A visione ultimata, direi che è un bel film. Che resta dentro e spinge a ruminare quanto visto per decifrarlo meglio. La polemica cinecomics sì o no, oltre a essere inutile è totalmente campata in aria. Il film di Phillips non potrebbe esistere senza i twist che alludono alla sua origine fumettistica e ne reinventano determinati elementi, prospettandoli sotto una luce inedita. O almeno perderebbe buona parte della sua ragion d'essere, cioè la rilettura in chiave critica di un mito moderno. E' un film di forte impatto, non un film perfetto. E' un film che farà discutere, soprattutto per i suoi contenuti più audaci che si prestano a dibattiti anche discretamente accesi. Altro non si può aggiungere, perché andremmo a toccare snodi di trama che è meglio scoprire al cinema. Ma ci sarebbe tanto da dire. In tutto questo, la performance di Joaquin Phoenix è eccelsa. Da premiare con l'oscar? Non spetta a me dirlo. Bisognerebbe aver visto e valutato con attenzione tutte le interpretazioni candidabili di questa stagione. Diciamo solo che è un'ottima prova e che alla fine del film, Phoenix è senz'altro il Joker. Un Joker più complesso del solito, di cui abbiamo visto delle fragilità, ma non per questo meno sinistro. Nel doppiaggio, Adriano Giannini si è riscattato alla grande dai suoi recenti lavori meno ispirati. Nel complesso, un film da vedere e di cui parlare. E su questo non ci piove. Ne parleremo. Oh, se ne parleremo...

lunedì 16 settembre 2019

Mistery of the Batman [by Big John Creation]


"Mistery of the Bat-Man" è una serie amatoriale prodotta dal canale Big John Creation come omaggio all'Uomo Pipistrello creato nel 1939 da Bob Kane. La serie di corti, attualmente ancora in fase di pubblicazione, ricalca il format del cinema seriale degli anni trenta e quaranta, e si presenta come una perduta produzione girata negli anni 30. La prima, in teoria, a portare il personaggio di Batman sullo schermo, mai arrivata nelle sale e andata smarrita per decenni fino a un recente, fortuito, ritrovamento. Su queste premesse fittizie, si basa una serie di capitoli che riproducono atmosfere, tecniche e dinamiche del cinema d'intrattenimento di quegli anni andati. Un Batman grezzo, come poteva essere rappresentato negli anni 30. Un esperimento di fancinema bizzarro e un affettuoso atto d'amore verso uno degli eroi a fumetti più popolari di sempre.
Sarebbe simpatico se qualcuno si incaricasse di produrre dei sottotitoli in italiano.

sabato 31 agosto 2019

A Field in England [di Ben Wheatley]




«Mentre viviamo temendo l'inferno... ci siamo dentro.»

Mi vado innamorando sempre più del regista britannico Ben Wheatley a mano a mano che scopro la sua filmografia. Tutti film indipendenti e di difficile classificazione, per quanto spesso li si ascriva al genere del perturbante se non dell'horror. Meccanismi narrativi spiazzanti, e una visione cinematografica abbastanza anarchica, che qualcuno definisce velleitaria, bollando i suoi film come meri esercizi di stile senza capo né coda. Se il noir “Killer List” era un crescendo spietato di violenza ed esoterismo, fino a un finale criptico quanto sconvolgente, “A Field in England” (in italiano “I disertori”) uscito nel 2013, va possibilmente anche oltre, e ci regala un film a suo modo piacevolmente destabilizzante. In parte sogno, in parte incubo, che flirta con la cultura della psichedelia (in modo anche dichiarato), scatenando negli occhi e nella percezione di chi guarda una creatura cinematografica tra le più bizzarre. Non è un caso che in tanti gli stiano alla larga, dal momento che di sicuro esiste poco di altrettanto disorientante.



Lo scenario è quello della Guerra Civile inglese, fotografato in un pulitissimo bianco e nero, recitato in originale in inglese arcaico e interamente ambientato in un apparentemente interminabile campagna inglese («Il nulla e cardi...»). Quattro uomini fuggono dalla guerra. Quattro personaggi molto diversi tra loro, le cui peculiarità emergono da dialoghi tra il surreale e il picaresco, con una cadenza volutamente teatrale. Se il precedente “Kill List” poteva rammentare sotto alcuni aspetti il teatro di Harold Pinter, “A Field in England” echeggia le atmosfere del drammaturgo belga Michel de Ghelderode, la cui opera era influenzato dagli spettacoli di burattini e dal concetto di “teatro della crudeltà” di Antonin Artaud. Sintomo che Wheatley si sente molto legato all'aria che si respira sulle tavole del palcoscenico, e continua a sperimentare curiose ibridazioni con il linguaggio cinematografico attingendo alle poetiche meno omologate della prosa. Attraverso una narrazione scandita in quadri, i quattro disertori incontreranno in mezzo al nulla un alchimista stregone (l'attore Michael Smiley, visto in “Black Mirror” e attore ricorrente di Wheatley) che li coinvolgerà nelle sue trame, e nella ricerca di un misterioso tesoro.

In “A Field in England” ritroviamo temi classici quali il viaggio sciamanico e la scoperta della propria natura. Ma filtrati da un umorismo nerissimo e da una trama spiazzante, che se nella prima parte sembra seguire una dinamica tradizionale, nella seconda deraglia, violando ogni aspettativa logica e presentando scenari sempre più surreali, fino a una totale astrazione cui (non è una novità per Ben Wheatley) toccherà allo spettatore dare un significato. Sarebbe relativamente semplice riconoscere in “A Field in England” l'ennesima declinazione di un meccanismo narrativo già ampiamente sfruttato al cinema, E chissà, forse la risposta è davvero la più ovvia. Ma stiamo parlando di un film di Ben Wheatley, e certezze non ce ne possono essere. “A Field in England” è davvero una strana, stranissima creatura cinematografica. Facile da odiare per la sua particolarità e da ignorare per la sua scarsissima distribuzione. Eppure nella sua natura, magari un po' snob, di opera indipendente, che se infischia delle aspettative del vasto pubblico, risiede il suo fascino. Una potenza visiva notevole nel suo impeccabile bianco e nero, una caratterizzazione estrema dei personaggi, presi quasi di peso dalla commedia dell'arte e catapultati in un contesto allucinato, e un sottotesto magico, un viaggio psichedelico tutto da vivere, se non interpretare.
Questo è “A Field in England”. Un'esperienza cinematografica che non può in nessun caso lasciare indifferenti. E in ogni caso, difficilmente, una volta visto, si riuscirà a dimenticarlo presto.

lunedì 15 luglio 2019

Gli altri cinecomics: "Hardware" di Richard Stanley



Hardware”, in italiano “Metallo Letale” è il primo film del regista sudafricano Richard Stanley, uscito nel 1990, che si ispira (molto liberamente) al racconto a fumetti britannico "Shock”, scritto da Steve McManus (accreditato come Ian Rogan) e disegnato da Kevin O'Neill, pubblicato per la prima volta su “Judge Dredd Annual” del 1981, e in seguito ristampato su “2000 AD”. Per quanto riguarda il film di Stanley, pare che inizialmente nessun accredito fosse stato riconosciuto agli autori del fumetto, e che soltanto dopo una controversia legale le due parti siano giunte a un accordo.

Quindi “Hardware – Metallo Letale” (oppure “Hardware – I robot non muoiono mai”, titolo con cui il film fu distribuito in home video in terra italica) sarebbe un cinecomic?


Beh, né più né meno delle tante pellicole che, ispirate a piece teatrali, romanzi e racconti, non sembrano avere necessità di un'etichetta così specifica. Se vogliamo, potremmo collocare “Hardware” (che prende solo lo spunto essenziale del fumetto di McManus e O'Neill) nella zona d'ombra degli “altri cinecomics”, quelli che sentono (e fanno sentire) meno il peso del loro retaggio cartaceo e vivono di vita propria, dando origine a una creatura cinematografica indipendente e dalla forte identità. Soprattutto se a firmare la regia è un talento (qui esordiente) come quello di Richard Stanley, che raccoglie l'ossatura di un racconto a fumetti breve e realizza, facendo virtù di un budget ridottissimo, uno spettacolo emotivamente coinvolgente, ricco di metafore esistenziali e politiche, che brucia gli occhi dello spettatore con immagini di rara potenza.


In un futuro non meglio specificato, una giovane scultrice abituata a servirsi di materiale meccanico in disuso, riceve come dono dal suo amante i resti di un robot reperiti da un losco rigattiere. L'artista realizza una delle sue installazioni, e la colloca nel proprio appartamento. Ma l'automa è in realtà un modello militare assassino programmato per autoripararsi e uccidere ogni essere vivente sulla sua strada. Presto il suo chip si riattiva, e nell'appartamento avveniristico della ragazza sarà l'inizio di un sanguinosissimo incubo...

Questa la trama del fumetto “Shock”, questo lo spunto traghettato su schermo in “Hardware”. Non fosse che nel film di Richard Stanley, oltre alla semplice trama, conta tantissimo l'ambientazione, con i suoi scenari fatti di distese riarse o di dedali claustrofobici. Suoni ossessivi, ombre e persino odori, suggeriti da una fotografia sporca e sublime nello stesso tempo. Quel che nelle poche tavole di “Shock” appare tutto sommato patinato, in “Hardware” è impolverato, lurido, e puzza di olio e ruggine. Il duello tra essere umano e macchina assassina si svolge in un'arena che è un mondo ormai morente, i cui ultimi sussulti sono accompagnati da spettacoli televisivi violenti e dalle battute di un cinico speaker radiofonico che nella versione originale ha la voce di Iggy Pop. Un conflitto nucleare ha ferito il pianeta al cuore, ormai popolato da un'umanità aberrata e da creature mutanti con aspettative di vita cortissime che consumano cupe esistenze stipati all'interno di tetri alveari tecnologici. Una legge appena promulgata livellerà le nascite, e là fuori c'è ancora una guerra, morte, rovine e rottami. Anche i resti di androidi dimenticati, tra i quali potrebbe nascondersi qualcosa di terribile, destinato in precedenza a ridurre drasticamente la vita organica sul pianeta. Non è casuale che il modello del robot protagonista sia identificato come M.A.R. K. - 13, dichiarato riferimento al passaggio del Vangelo secondo Marco in cui si leggono parole come “Quando vedrete l'abominio della desolazione” e “Nessun essere umano si salverà”.


E' facile riconoscere in “Hardware” tracce di molti classici del cinema di fantascienza, tra cui soprattutto “Mad Max”, “Terminator” e persino “Alien”. Il punto è che “Hardware” riesce però a conservare una sua identità fortissima, e mentre la fantascienza evolve nel vero e proprio horror, Richard Stanley ci colpisce al cuore con una parabola nerissima e pessimista sul futuro dell'uomo e il suo rapporto con il progresso. M.A.R. K. - 13, trasformato in una scultura postmoderna che non appena tornata in vita si riassembla con tutto ciò che trova pur di continuare a uccidere, è un mostro che non si dimentica facilmente. E l'appartamento di Jill, la scultrice protagonista interpretata da Stacey Travis, si dimostra una location ossessiva (praticamente già una trappola di per sé) che fa da perfetto palcoscenico al grand guignol tecnologico che non dà un attimo di tregua fino alla deflagrante conclusione. Nel ruolo di Moses, l'avventuriero riciclatore che dona a Jill i rottami dell'androide, abbiamo un giovane Dylan McDermott alle sue prime apparizioni, quando ancora non era odiato da tutti (a mio parere in modo esagerato) per le sue partecipazioni a più serie televisive. E il contrappunto tra i due amanti, più sognatore uno, più cinica e cauta l'altra, è carburante per un atmosfera intrisa di un romanticismo amaro, perfettamente calato nel clima apocalittico della vicenda. Un racconto (horror e fantascientifico, ma anche qualcosa di più) che dimostra un virtuosismo cinematografico prezioso. Rivelandosi un film fichissimo in ogni sua parte a dispetto dei pochi mezzi grazie a una fantasia e a un estro che hanno del miracoloso.
Hardware” è un film che va visto. Magari più di una volta, per apprezzarne meglio le mille metafore, nascoste in trovate visive e in dialoghi martellanti. Un gioiello cinematografico ispirato a un fumetto che gli appassionati di comics dovrebbero scoprire.
Gli appassionati di cinema, invece, dovrebbero conoscerlo già. O almeno rimediare quanto prima.

Se siete rimasti indietro, fatelo. E ricordate: “Nessuna carne sarà risparmiata”.

lunedì 8 luglio 2019

Alla fine John muore



John Dies at the end” (“Alla fine John muore”) è un film di Don Coscarelli uscito nel 2013 e inedito da noi. Don Coscarelli è noto agli appassionati per la sua filmografia ridotta e le uscite molto dilazionate nel tempo. Il suo nome è ricordato soprattutto per la saga “Fantasmi” (iniziata nel 1979) e il delizioso “Bubba Ho-Tep” del 2002, tratto dal racconto di Joe R. Landsdale e interpretato da Bruce Campbell.

All'origine di “Alla fine John muore” c'è il fenomeno letterario firmato da David Wong (pseudonimo di Jason Pargin), un blog novel realizzato a puntate quasi per gioco, divenuto un caso grazie al passaparola e infine arrivato su carta nel 2009 (in Italia è pubblicato da Fanucci).



Il genere non è facilmente classificabile. Horror? Grottesco? Fantascienza? Se rammentiamo il tono fortemente onirico del film “Fantasmi”, sarà facile capire perché Coscarelli è stato attratto dal romanzo di Wong come uno spillo da una calamita. E questo nonostante la versione cinematografica adatti una minima parte dei tanti eventi folli che formano il libro. Ed è tutto dire, perché il film di Coscarelli non dà tregua, e realizza un beffardo incubo sulle montagne russe in cui splatter, assurdità e comicità, si susseguono per la durata (in fondo contenuta) di un'ora e mezza.


Leggere il romanzo di Wong è un'esperienza psichedelica che il film riesce a condensare con un ottimo ritmo, grazie anche alle performance di attori di spicco tra cui si segnalano Paul Giamatti e Clancy Brown in due ruoli di supporto ma fondamentali. Dialoghi deliranti, strane droghe che conferiscono bizzarri poteri, mostri, metamorfosi, minacce lovecraftiane, armi improbabili, stati alterati della percezione e un vortice di situazioni di una comicità crudelissima. Una sarabanda in cui l'eroismo non esiste, ma l'unica vera arma contro l'apocalisse sembra essere l'irriducibile capacità di riderle in faccia.

Sì, ridere in faccia all'apocalisse. Si può fare.


Un piccolo grande film bizzarro, tratto da un altrettanto bizzarro romanzo, che ovviamente in Italia non è stato distribuito. Se potete, e vi va, recuperatelo. Anzi, leggete anche il libro (quello lo trovate più facilmente). L'effetto è quello di una scarica di adrenalina e di un'esplosione di fantasia a briglia sciolta che in certi tratti provoca pure il mal di mare. Ma ubriaca, al punto che ne vorremmo ancora. Una piccola gemma che conferma Don Coscarelli un artigiano artistoide di grande caratura che fa solo quello che gli va. E forse proprio per questo è così poco prolifico.


venerdì 28 giugno 2019

Fantasmi della memoria: Belfagor



Questa settimana, preso da un raptus nostalgico ho rivisto tutto "Belfagor o il fantasma del Louvre", sceneggiato francese del 1965 che all'epoca cambiò la storia della televisione, portando nelle case italiane una trama gotica, misteriose morti e un complotto esoterico che coinvolgeva lo storico alchimista Paracelso e la statua della divinità caldea (in seguito inclusa tra i demoni) chiamata Belfagor. I bambini del tempo erano terrorizzati dalla maschera del fantasma e tutti si chiedevano "Chi è Belfagor?" fino alla (per l'epoca sconvolgente) rivelazione finale. Lo sceneggiato, tratto dal romanzo di Arthur Bernède, prendeva le distanze dalla trama del libro per presentare elementi più fantastici e inquietanti. 



Se nel romanzo, Belfagor è una sorta di Fantomas, di criminale misterioso, nello sceneggiato del 1965 è una creatura nata da un esperimento esoterico, un automa vivente nato da una combinazione dell'ipnosi con un'antica pozione che lo trasforma in un radar umano per le sostanze alchemiche e gli conferisce nello stesso tempo una forza erculea che gli permette di uccidere a mani nude. Belfagor era mostro e vittima nello stesso tempo, in quanto inconsapevole delle sue azioni e del suo ruolo nell'intrigo. Atmosfera, mistero e la presenza di un'affascinante Juliette Greco diventata iconica. 



Certo, la visione oggi lascia emergere molte ingenuità legate al loro tempo, ma il fascino del prodotto vintage che ha lasciato un'impronta è intatto. Tralasciando l'orrendo pseudosequel con Sophie Marceau del 2001, mi sono trovato a fantasticare su un possibile remake di qualità. Che ne direste (anzi, che ne direbbero i nostalgici come me) di un nuovo Belfagor cinematografico, con una trama fedele al prototipo ma debitamente aggiornata alle sensibilità contemporanee, sullo sfondo di una Parigi sempre degli anni 60 (non ce lo vedo ambientato ai giorni nostri) fotografata, per esempio, da qualcuno come Roman Polansky? E di Eva Green nel ruolo di Luciana (in originale Laurence), che fu di Juliette Greco?
Se bisogna sognare un revival, facciamolo in grande.

Lo sceneggiato completo su Youtube: 

lunedì 3 giugno 2019

Swamp Thing - Episodio Pilota



Swamp Thing. Episodio pilota della serie TV prodotta dalla piattaforma streming DC universe, la terza dopo “Titans” e “Doom Patrol”. I primi due titoli, ognuno con sue caratteristiche peculiari, si possono definire esperimenti riusciti. E questo, nuovo, ambiziosissimo lancio?

Tutto inizia come un'eco vengence. I contenuti “suggested for matured” non tardano a mostrarsi. Se già “Titans” non lesinava in violenza e atmosfere sinistre, qui siamo davanti a un horror fatto e finito. Le prime sequenze ci dicono subito che... qui ci sono i mostri e c'è da aver paura. Anzi, una fifa blu. Meglio. Verde.
Un'oscurità suggestiva avvolge il mondo acquoso della palude, sciacquii, vegetazione fitta e zanzare ci circondano, ed è chiaro da prima ancora dei titoli di testa che da quelle parti c'è qualcosa che proprio non va.


In “Swamp Thing” c'è lo zampino di James Wan, qui in veste di produttore esecutivo, e la differenza dalle altre due serie DC si sente forte e chiara. Se “Titans” era un racconto supereroistico nero (più che dark) e “Doom Patrol” una sarabanda psichedelica di personaggi e situazioni folli, “Swamp Thing” si propone di restare fedele all'etichetta editoriale “Vertigo” (la linea “adulta” che ha rilanciato il personaggio a metà degli anni 80 affidandolo alla firma di Alan Moore). La fantascienza si mescola all'esoterismo, e se le promesse saranno mantenute nelle prossime puntate, dovremmo vederne delle belle. La presenza del personaggio di Avery Sunderland suggerisce subito ai vecchi lettori quale direzione lo show intende prendere, così come l'introduzione di un character inedito, interpretato dalla sempre apprezzabile Virginia Madsen, promette interessanti variazioni.
L'origin story ha il pregio di non andare di fretta, ma di seminare indizi e semi (è il caso di dirlo) per tutto ciò che seguirà. Il passato misterioso di Abby, la presenza di Matt Cable, e soprattutto Madame Xanadu, che nell'episodio pilota ha appena il tempo di sortire, ma che annuncia stranezze assortite, sono elementi che conferiscono a questa partenza un carburazione lenta ma regolare, lasciando intravedere i sentieri che si intendono percorrere.


Le modifiche (diciamolo, necessarie) alla fonte originaria del fumetto ideato da Len Wein e Bernie Wrightson scorrono senza offendere la memoria storica di nessuno, e iniziano a gettare delle basi pratiche per potersi subito innestare sul ciclo tenebroso narrato da Moore. Aggiungiamo una componente gore inattesa, una scena raccapricciante che a molti ricorderà “The Thing” di John Carpenter e un tema musicale, per una volta, orecchiabile e immediatamente riconoscibile, e abbiamo un episodio pilota che conferma le promesse del già trailer interessante.
Una bella partenza, insomma.


Certo, le danze sono appena iniziate. Quel dato avvenimento si prende (giustamente) il suo tempo a manifestarsi (il film di Wes Craven del 1982 soffriva del budget ridotto e di una narrazione fin troppo condensata), ma la miccia è accesa e non resta che aspettare l'esplosione.

Quella narrativa. Quell'altra esplosione lì...
Ma no, scopritelo da soli.