lunedì 15 luglio 2019

Gli altri cinecomics: "Hardware" di Richard Stanley



Hardware”, in italiano “Metallo Letale” è il primo film del regista sudafricano Richard Stanley, uscito nel 1990, che si ispira (molto liberamente) al racconto a fumetti britannico "Shock”, scritto da Steve McManus (accreditato come Ian Rogan) e disegnato da Kevin O'Neill, pubblicato per la prima volta su “Judge Dredd Annual” del 1981, e in seguito ristampato su “2000 AD”. Per quanto riguarda il film di Stanley, pare che inizialmente nessun accredito fosse stato riconosciuto agli autori del fumetto, e che soltanto dopo una controversia legale le due parti siano giunte a un accordo.

Quindi “Hardware – Metallo Letale” (oppure “Hardware – I robot non muoiono mai”, titolo con cui il film fu distribuito in home video in terra italica) sarebbe un cinecomic?


Beh, né più né meno delle tante pellicole che, ispirate a piece teatrali, romanzi e racconti, non sembrano avere necessità di un'etichetta così specifica. Se vogliamo, potremmo collocare “Hardware” (che prende solo lo spunto essenziale del fumetto di McManus e O'Neill) nella zona d'ombra degli “altri cinecomics”, quelli che sentono (e fanno sentire) meno il peso del loro retaggio cartaceo e vivono di vita propria, dando origine a una creatura cinematografica indipendente e dalla forte identità. Soprattutto se a firmare la regia è un talento (qui esordiente) come quello di Richard Stanley, che raccoglie l'ossatura di un racconto a fumetti breve e realizza, facendo virtù di un budget ridottissimo, uno spettacolo emotivamente coinvolgente, ricco di metafore esistenziali e politiche, che brucia gli occhi dello spettatore con immagini di rara potenza.


In un futuro non meglio specificato, una giovane scultrice abituata a servirsi di materiale meccanico in disuso, riceve come dono dal suo amante i resti di un robot reperiti da un losco rigattiere. L'artista realizza una delle sue installazioni, e la colloca nel proprio appartamento. Ma l'automa è in realtà un modello militare assassino programmato per autoripararsi e uccidere ogni essere vivente sulla sua strada. Presto il suo chip si riattiva, e nell'appartamento avveniristico della ragazza sarà l'inizio di un sanguinosissimo incubo...

Questa la trama del fumetto “Shock”, questo lo spunto traghettato su schermo in “Hardware”. Non fosse che nel film di Richard Stanley, oltre alla semplice trama, conta tantissimo l'ambientazione, con i suoi scenari fatti di distese riarse o di dedali claustrofobici. Suoni ossessivi, ombre e persino odori, suggeriti da una fotografia sporca e sublime nello stesso tempo. Quel che nelle poche tavole di “Shock” appare tutto sommato patinato, in “Hardware” è impolverato, lurido, e puzza di olio e ruggine. Il duello tra essere umano e macchina assassina si svolge in un'arena che è un mondo ormai morente, i cui ultimi sussulti sono accompagnati da spettacoli televisivi violenti e dalle battute di un cinico speaker radiofonico che nella versione originale ha la voce di Iggy Pop. Un conflitto nucleare ha ferito il pianeta al cuore, ormai popolato da un'umanità aberrata e da creature mutanti con aspettative di vita cortissime che consumano cupe esistenze stipati all'interno di tetri alveari tecnologici. Una legge appena promulgata livellerà le nascite, e là fuori c'è ancora una guerra, morte, rovine e rottami. Anche i resti di androidi dimenticati, tra i quali potrebbe nascondersi qualcosa di terribile, destinato in precedenza a ridurre drasticamente la vita organica sul pianeta. Non è casuale che il modello del robot protagonista sia identificato come M.A.R. K. - 13, dichiarato riferimento al passaggio del Vangelo secondo Marco in cui si leggono parole come “Quando vedrete l'abominio della desolazione” e “Nessun essere umano si salverà”.


E' facile riconoscere in “Hardware” tracce di molti classici del cinema di fantascienza, tra cui soprattutto “Mad Max”, “Terminator” e persino “Alien”. Il punto è che “Hardware” riesce però a conservare una sua identità fortissima, e mentre la fantascienza evolve nel vero e proprio horror, Richard Stanley ci colpisce al cuore con una parabola nerissima e pessimista sul futuro dell'uomo e il suo rapporto con il progresso. M.A.R. K. - 13, trasformato in una scultura postmoderna che non appena tornata in vita si riassembla con tutto ciò che trova pur di continuare a uccidere, è un mostro che non si dimentica facilmente. E l'appartamento di Jill, la scultrice protagonista interpretata da Stacey Travis, si dimostra una location ossessiva (praticamente già una trappola di per sé) che fa da perfetto palcoscenico al grand guignol tecnologico che non dà un attimo di tregua fino alla deflagrante conclusione. Nel ruolo di Moses, l'avventuriero riciclatore che dona a Jill i rottami dell'androide, abbiamo un giovane Dylan McDermott alle sue prime apparizioni, quando ancora non era odiato da tutti (a mio parere in modo esagerato) per le sue partecipazioni a più serie televisive. E il contrappunto tra i due amanti, più sognatore uno, più cinica e cauta l'altra, è carburante per un atmosfera intrisa di un romanticismo amaro, perfettamente calato nel clima apocalittico della vicenda. Un racconto (horror e fantascientifico, ma anche qualcosa di più) che dimostra un virtuosismo cinematografico prezioso. Rivelandosi un film fichissimo in ogni sua parte a dispetto dei pochi mezzi grazie a una fantasia e a un estro che hanno del miracoloso.
Hardware” è un film che va visto. Magari più di una volta, per apprezzarne meglio le mille metafore, nascoste in trovate visive e in dialoghi martellanti. Un gioiello cinematografico ispirato a un fumetto che gli appassionati di comics dovrebbero scoprire.
Gli appassionati di cinema, invece, dovrebbero conoscerlo già. O almeno rimediare quanto prima.

Se siete rimasti indietro, fatelo. E ricordate: “Nessuna carne sarà risparmiata”.

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