«Mentre viviamo temendo
l'inferno... ci siamo dentro.»
Mi vado innamorando sempre più del
regista britannico Ben Wheatley a mano a mano che scopro la sua
filmografia. Tutti film indipendenti e di difficile classificazione,
per quanto spesso li si ascriva al genere del perturbante se non
dell'horror. Meccanismi narrativi spiazzanti, e una visione
cinematografica abbastanza anarchica, che qualcuno definisce
velleitaria, bollando i suoi film come meri esercizi di stile senza
capo né coda. Se il noir “Killer List” era un crescendo spietato
di violenza ed esoterismo, fino a un finale criptico quanto
sconvolgente, “A Field in England” (in italiano “I disertori”)
uscito nel 2013, va possibilmente anche oltre, e ci regala un film a
suo modo piacevolmente destabilizzante. In parte sogno, in parte
incubo, che flirta con la cultura della psichedelia (in modo anche
dichiarato), scatenando negli occhi e nella percezione di chi guarda
una creatura cinematografica tra le più bizzarre. Non è un caso che
in tanti gli stiano alla larga, dal momento che di sicuro esiste poco
di altrettanto disorientante.
Lo scenario è quello della Guerra
Civile inglese, fotografato in un pulitissimo bianco e nero, recitato
in originale in inglese arcaico e interamente ambientato in un
apparentemente interminabile campagna inglese («Il nulla e
cardi...»). Quattro uomini fuggono dalla guerra. Quattro
personaggi molto diversi tra loro, le cui peculiarità emergono da
dialoghi tra il surreale e il picaresco, con una cadenza volutamente
teatrale. Se il precedente “Kill List” poteva rammentare sotto
alcuni aspetti il teatro di Harold Pinter, “A Field in England”
echeggia le atmosfere del drammaturgo belga Michel de Ghelderode, la
cui opera era influenzato dagli spettacoli di burattini e dal
concetto di “teatro della crudeltà” di Antonin Artaud. Sintomo
che Wheatley si sente molto legato all'aria che si respira sulle
tavole del palcoscenico, e continua a sperimentare curiose
ibridazioni con il linguaggio cinematografico attingendo alle
poetiche meno omologate della prosa. Attraverso una narrazione
scandita in quadri, i quattro disertori incontreranno in mezzo al
nulla un alchimista stregone (l'attore Michael Smiley, visto in
“Black Mirror” e attore ricorrente di Wheatley) che li
coinvolgerà nelle sue trame, e nella ricerca di un misterioso
tesoro.
In “A Field in England” ritroviamo
temi classici quali il viaggio sciamanico e la scoperta della propria
natura. Ma filtrati da un umorismo nerissimo e da una trama
spiazzante, che se nella prima parte sembra seguire una dinamica
tradizionale, nella seconda deraglia, violando ogni aspettativa
logica e presentando scenari sempre più surreali, fino a una totale
astrazione cui (non è una novità per Ben Wheatley) toccherà allo
spettatore dare un significato. Sarebbe relativamente semplice
riconoscere in “A Field in England” l'ennesima declinazione di un
meccanismo narrativo già ampiamente sfruttato al cinema, E chissà,
forse la risposta è davvero la più ovvia. Ma stiamo parlando di un
film di Ben Wheatley, e certezze non ce ne possono essere. “A
Field in England” è davvero una strana, stranissima creatura
cinematografica. Facile da odiare per la sua particolarità e da
ignorare per la sua scarsissima distribuzione. Eppure nella sua
natura, magari un po' snob, di opera indipendente, che se infischia
delle aspettative del vasto pubblico, risiede il suo fascino. Una
potenza visiva notevole nel suo impeccabile bianco e nero, una
caratterizzazione estrema dei personaggi, presi quasi di peso dalla
commedia dell'arte e catapultati in un contesto allucinato, e un
sottotesto magico, un viaggio psichedelico tutto da vivere, se non
interpretare.
Questo è “A Field in England”.
Un'esperienza cinematografica che non può in nessun caso lasciare
indifferenti. E in ogni caso, difficilmente, una volta visto, si
riuscirà a dimenticarlo presto.
Nessun commento:
Posta un commento