Nel 1995, il mondo del fumetto italiano fu scosso da un episodio sconcertante. L'editore Jorge Vacca, titolare delle edizioni alternative Topolin, già note per la pubblicazione di fumetti provocatori, veniva denunciato per reati gravi per avere provato a stampare nel nostro paese "Psychopathia Sexualis", una delle opera più estreme (almeno fino a quel momento) dell'artista spagnolo Miguel Angel Martin. La vicenda giudiziaria fu lunga e si articolò in più gradi. Più personalità del mondo della cultura italiana intervennero in difesa dell'editore e dell'opera. Come leggiamo oggi l'orrore agghiacciante rappresentato da Martin nelle sue pagine? Perché sconvolge così tanto e qual è la sua reale funzione? Un'opera "maledetta" protagonista di uno dei più celebri casi di censura dell'editoria italiana.
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giovedì 22 marzo 2018
martedì 27 febbraio 2018
Uzumaki (Spirale) di Junji Ito
C'è una forma nascosta tra le pieghe della realtà. Quella forma è la spirale. Studiata nei secoli, è considerata da alcuni la prova di una geometria ragionata all'interno della natura. Ma è davvero benevola? E se fosse invece l'occhio di qualcosa che ci spia, che gioca con le vite e i fenomeni del mondo in modo cinico e mostruoso? Uzumaki di Junji Ito esprime una visione oscura dell'esistenza in uno dei manga più sconvolgenti e strani che siano mai stati scritti e disegnati.
domenica 27 agosto 2017
Un coccodrillo per Tobe Hooper
Un coccodrillo.
Sì. Un coccodrillo per Tobe Hooper.
Un pizzico di humor nero per
salutare uno dei padri dell'horror moderno che ci ha appena
lasciato.
La battuta è contorta. Necessita di un'infarinatura di gergo giornalistico e di conoscenza della filmografia del regista per essere compresa. Coccodrillo. Come gli articoli che si scrivono per omaggiare qualcuno che muore, spesso una celebrità. Un'etichetta senza mezze misure, per indicare qualcosa che si ritiene “vada fatto”, ma che nello stesso tempo non riesce a sottrarsi da sospetti di cinismo. Il tutto riferito, ovviamente, alle proverbiali lacrime del grande rettile.
La battuta è contorta. Necessita di un'infarinatura di gergo giornalistico e di conoscenza della filmografia del regista per essere compresa. Coccodrillo. Come gli articoli che si scrivono per omaggiare qualcuno che muore, spesso una celebrità. Un'etichetta senza mezze misure, per indicare qualcosa che si ritiene “vada fatto”, ma che nello stesso tempo non riesce a sottrarsi da sospetti di cinismo. Il tutto riferito, ovviamente, alle proverbiali lacrime del grande rettile.
Coccodrillo. Come il mostro (secondario?) di “Eaten Alive” (“Quel motel vicino alla palude”, in Italia) suo secondo film (1977), che in realtà sarebbe il terzo, ma è il secondo a restare nella memoria del pubblico dopo il successo di “Non aprite quella porta” e il flop della sua prima incursione nel dramma indipendente con “Eggshells” del 1969. “Eaten Alive” si ispirava liberamente alle imprese del serial killer Joe Ball, in azione nell'America degli anni trenta. Si racconta che Ball si sbarazzasse dei corpi delle sue vittime dandole in pasto a degli alligatori. Nel film, il protagonista nutre un famelico coccodrillo con il quale ha un rapporto quasi simbiotico, secondo le allegorie care al regista.
Ma Tobe Hooper, che pure diresse diversi
altri film (sebbene con meno fortuna e mano meno ispirata, anche per
via delle ingerenze produttive che non gli diedero mai tregua) sarà ricordato (e merita di esserlo)
soprattutto per il rivoluzionario “Non aprite quella porta”
(titolo italiano di “The Texas Chainsaw Massacre”) del
1974. Perché ricordarlo? Perché semplicemente ha fatto la storia
del cinema horror, contribuendo a modificarne le regole come “La
notte dei morti viventi” di George Romero (altro maestro
recentemente scomparso... anno gramo per il cinema del perturbante).
E come il film di Romero ha infuso nella sua fiaba nerissima un
sottotesto politico di grande impatto. Non è un caso che la recente
elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti ha spinto
qualcuno a commentare che l'America, e quindi il suo corpo
elettorale, non è solo quella che vediamo nelle patinate commedie
hollywoodiane. L'America è fatta anche (se non soprattutto) di ampie
province rurali. Veri e propri mondi separati, dove ancora oggi è
possibile imbattersi in zone fuori dal tempo e forme preoccupanti di
arretratezza. La famiglia cannibale di “Non aprite quella porta”
rappresenta in modo esemplare, per quanto estremizzato, il
proletariato campestre statunitense, incattivito e degenerato dal
disagio e dallo strapotere delle multinazionali che lo riducono a uno
stato di animalità. Costretto a vivere ai margini del mondo
civilizzato, sopravvivendo come un predatore primordiale che finisce
col rivoltarsi contro i suoi simili e trasformare in alimento chi non
riconosce come parte del suo gruppo ristretto. I suppellettili della
casa realizzati con ossa umane, il laboratorio da macellaio, il
gancio a cui la giovane vittima viene appesa con metodica, ottusa
diligenza, sono metafore disturbanti che non si dimenticano più. Con
il film di Tobe Hooper, gli Snopes raccontati da William Faulkner
incontravano l'horror, e il cocktail aveva un sapore amarissimo, ma
eccitante.
Per il 1974 (ma ancora oggi) “Non
aprite quella porta” era un film davvero sconvolgente. Seminale
per quello che sarebbe diventato il sottogenere horror definito
“slasher”, insieme con il meraviglioso “Halloween” di
John Carpenter, di cui rappresenta l'altro lato della medaglia.
Quello più sporco, laido e rumoroso. Non è possibile omaggiare
Hooper senza ricordare anche l'icona cinematografica di Leatherface,
personaggio chiave di “The Texas Chainsaw Massacre”. Un
gigante mentalmente ritardato, probabilmente sfigurato (nel film
originale il suo volto non viene mai mostrato), che cela i suoi
lineamenti sotto grottesche maschere di pelle umana.
E poi c'è la motosega.
E' vero. La motosega (almeno così sembra) fu usata come arma per la prima volta nel film di Wes Craven “L'ultima casa a sinistra”, ma è con Leatherface e “Non aprite quella porta” che è diventata un feticcio horror fondamentale. Più per l'ossessionante rumore del suo motorino che per gli scempi compiuti dalla lama. Quel rumore che già da solo comunica una disturbante senzazione di follia, di ossessione, che fa sentire lo spettatore assediato e gli fa salire le viscere su per la gola.
Una nota amara consiste, per chi
scrive, nel ricordo dell'inutile remake di Marcus Nispel del 2003. Un
remake, volendo non tra i più spregevoli, ma che tradiva
completamente lo spirito dell'opera originale, facendone un horror
patinato e convenzionale fino al midollo. Rammento la conversazione
avuta riguardo la pellicola di Nispel con altri spettatori più
giovani, e gli insensati confronti che emersero quando mostrai loro
il film culto di Tobe Hooper.
Nella loro percezione, il film del '74 sprecava tempo e potenziale, eliminando troppo velocemente un quantità di personaggi per poi concentrarsi sull'odissea di un'unica protagonista. A loro parere, Hooper avrebbe dovuto centellinare gli omicidi lungo tutto il film, e non puntare il riflettore su un soggetto specifico, in quanto il risultato – per loro – era la noia. Rischiai di sentirmi male.
Nella loro percezione, il film del '74 sprecava tempo e potenziale, eliminando troppo velocemente un quantità di personaggi per poi concentrarsi sull'odissea di un'unica protagonista. A loro parere, Hooper avrebbe dovuto centellinare gli omicidi lungo tutto il film, e non puntare il riflettore su un soggetto specifico, in quanto il risultato – per loro – era la noia. Rischiai di sentirmi male.
Quando si dice che il trend commerciale diseduca all'arte. E stavo assistendo a uno di quei casi. La sostanza era che i giovani spettatori erano ormai viziati da un canone dell'horror slasher pensato in termini di catena di montaggio, mentre il film di Hooper... per quanto antenato dello slasher... non era propriamente uno slasher. Non solo, almeno. E l'inferno vissuto dall'attrice Marilyn Burns, un ruolo in cui più che parlare urlava disperatamente, sottoposta a sevizie fisiche e psicologiche (vogliamo parlare dell'insopportabile, lunga scena del pranzo?) reappresentava l'apice di uno dei film più spaventosi della storia. “Non aprite quella porta” del 1974 è un film con una personalità fortissima, e il remake degli anni 2000 non era che la banalizzazione, appiattita su uno standard ormai trito, di un classico che era stato a suo modo un pioniere.
A motoseghe e coccodrilli più o meno
domestici, sarebbero seguiti altri film. Raramente all'altezza dei
precedenti, soprattutto per i limiti imposti a Hooper dalle
produzioni che nel tempo lo avrebbero sempre più ostracizzato,
praticamente fino a farlo scomparire dalle scene. Non parlerò di
“Poltergeist”, altra pellicola nota firmata da Hooper, se
non per sottolineare quanto possano essere evidenti le ingerenze
produttive nella realizzazione di un film che porta la firma di una
personalità dal potenziale sovversivo qual era quella del regista di
“The Texas Chainsaw Massacre”. La mano di Steven Spielberg
e la sua cifra stilistica traspaiono da ogni fotogramma, e
paradossalmente potremmo dire che “Poltergeist” sia un
titolo riconducibile più al regista di “E.T.” che al
discorso iniziato da Hooper, che possibilmente avrebbe realizzato una pellicola più malata e meno adatta a un pubblico generalista.
Un peccato, quindi. Peccato per quello
che avrebbe potuto essere e a causa delle dinamiche hollywoodiane
non è stato. Peccato perché la storia è finita qui. Peccato, come
ogni volta che sentiamo la necessità di scrivere un
coccodrillo.
Già! Il coccodrillo.
Già! Il coccodrillo.
Non lo sentite? Che strano
ticchettio!
E' il primo allarme, poi dopo arrivo io.
E' il primo allarme, poi dopo arrivo io.
Non voglio alcun vantaggio.
Ma non è per coraggio.
E' perché sono il più cattivo.
E mi diverte il fatto di inseguirvi.
Grazie per gli incubi, Tobe Hooper. Quelli intelligenti.
Quelli che ti fanno svegliare.
E' perché sono il più cattivo.
E mi diverte il fatto di inseguirvi.
Grazie per gli incubi, Tobe Hooper. Quelli intelligenti.
Quelli che ti fanno svegliare.
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sabato 8 luglio 2017
Maledette Nuvole - FAUST di Quinn e Vigil (il "vero" Spawn?)
mercoledì 10 maggio 2017
Maledette Nuvole - Cleanup Crew: il fumetto che ispirò Nekromantik
Maledette Nuvole! Una nuova rubrica per esplorare gli aspetti più creepy, weird, strambi e malati di... certi fumetti non proprio convenzionali. Alcune chicche sono marce, altre nascondono sorprese che non ci aspettiamo. Ma esistono, e sono tra noi. Come non cominciare con il breve fumetto underground che ispirò il regista Jorg Buttgereit per il controverso "Nekromantik"? Benvenuti, dunque, sotto queste maledette nuvole.
venerdì 28 aprile 2017
Aula alla Deriva [di Kazuo Umezu]
Un misterioso fenomeno trasporta un'intera scuola giapponese in un futuro da incubo. Per sopravvivere, i ragazzi, tutti molto giovani, dovranno inventare una nuova società, darsi norme rigide, ma anche affrontare calamità imprevedibili, follia e mostruosità. Comprese le tenebre dell'animo umano. Una versione fanta-horror dello scenario base del “Signore delle Mosche” di William Golding, sfiorando H.P. Lovecraft e e altri classici. Finalmente arriva in Italia una delle opere più note di Kazuo (Umezz) Umezu. Una saga di formazione dalle tinte truci, ambientata alla fine del mondo...
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lunedì 9 gennaio 2017
Vedute: Junji Ito
Frankenstein di Mary Shelley ha avuto numerosissime letture a fumetti. Alcune hanno avuto forma di seguiti apocrifi, più o meno fedeli alle atmosfere orrorifiche e gotiche del romanzo o trasfigurate in chiavi del tutto differenti, fino alla serialità confinante con il genere che fa capo ai supereroi. Altre si sono cimentate nell'illustrazione del libro della Shelley o in veri e propri adattamenti dell'opera originale. Non si può non ricordare, a questo proposito, il lavoro di Bernie Wrightson, che sicuramente rimane tra le prove d'autore più degne di nota. A sua volta l'opera di sintesi svolta da Junji Ito, maestro dell'orrore giapponese contemporaneo, attraverso la lente della sensibilità tutta orientale per il macabro e la paura dell'ignoto, colpisce per la sua tenebrosa intensità. Il suo estro per “l'orrore del corpo” è a suo agio nel mito del moderno Prometeo. E tocca corde quanto mai inquietanti, dipingendo un mostro raramente così spaventoso e nello stesso tempo tragico.
sabato 7 gennaio 2017
Cat Eyed Boy di Kazuo (Umezz) Umezu
Se ci sono autori che fanno scuola, Kazuo (UMEZZ) Umezu è sicuramente tra questi. Patriarca dell'orrore nipponico e pioniere del perturbante a fumetti nelle sue successive declinazioni, è rimasto a lungo inedito nel nostro paese. Quel vuoto oggi è colmato dalle edizioni Latitudine 42 con Cat Eyed Boy (Nekome Kozo) con quattro volumi che raccolgono la saga del ragazzo per metà demone felino. Ma all'orizzonte c'è dell'altro. Il 2017, per l'Italia, potrebbe essere l'anno della rivincita di Umezu, visto che la Hikari ha già annunciato un'altra sua importante opera: Aula alla deriva. Yokai maligni, body horror, ansia e perturbante. Un manga che conserva ancora oggi più di un motivo di interesse.
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mercoledì 4 gennaio 2017
Umezz...
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martedì 25 ottobre 2016
Speciale Halloween: Pandemonium (di Cristophe Bec e Stefano Raffaele)
Uno speciale in occasione di Halloween particolare. Questa festa, contagiata dall'America a noi italiani come una malattia sessualmente trasmissibile, si propone di giocare e far divertire con la paura, e tutti gli elementi della tradizione a questa collegati. Ma di vampiri, zombi, streghe, per quanto amichevoli e sempre simpatici, ho già parlato in altra sede. Stavolta esploriamo una regione della paura differente, con un fumetto che dà i brividi. E non solo a causa delle presenze tenebrose al suo interno, per le case infestate e sussurri nel buio. "Pandemonium" di Cristophe Bec e Stefano Raffaele è un gioiello rosso sangue che colpisce allo stomaco e si fa ricordare per la crudezza e la profonda inquietudine che lascia addosso. Lo so, vi piace avere paura. Ma siete davvero sicuro di volere visitare il Sanatorio di Waverly Hills? Siete certi che quando vedrete, ascolterete, non vi farà venire voglia di gridare?
Ne siete sicuri?
Buon Halloween.
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lunedì 17 ottobre 2016
venerdì 11 marzo 2016
American Horror Story: Hotel (riflessione finale di uno spettatore deluso)
Finalmente ho finito di vedere la
quinta stagione del serial TV American Horror Story, il ciclo
intitolato Hotel. E finalmente, in questo caso, indica un
senso di liberazione, dal momento che la compulsione a non lasciare
niente di incompleto mi ha spinto ad assistere allo show nella sua
interezza, pur prendendomi delle confortanti pause per dedicarmi ad
altre serie. Alla fine posso tirare le somme convinto della mia
impressione iniziale: American Horror Story: Hotel è
veramente, a mio parere, il picco più basso toccato dalla serie
ideata da Ryan Murphy e Brad Falchuck.
Se la precedente stagione, FreakShow, aveva fatto storcere il naso a molti (io l'avevo in buona
parte apprezzata, trovando ben più lacunosa la terza stagione,
intitolata Coven), Hotel è una discesa nel kitsch
senza ritorno. Già dal secondo ciclo, Asylum, la serie aveva
iniziato a presentare una struttura composita, con più trame
parallele e convergenti. Le stagioni successive hanno tentato tutte
di seguire il medesimo criterio, ma senza riuscire a riprodurre lo
stesso equilibrio. Hotel è un minestrone di situazioni e
personaggi dove praticamente non esiste un vero finale per nessuno,
un meccanismo che gira a vuoto azzardando l'ennesima rilettura di un
mito mediatico ormai troppo sfruttato: i vampiri. I succhiasangue
negli ultimi vent'anni sono stati oggetto di infinite riscritture,
alcune interessanti, altre patetiche. Ma non avevo mai incontrato dei
vampiri scialbi, incoerenti, privi di fascino come quelli che vediamo
in Hotel.
Lady Gaga, premiata in modo
incomprensibile con il Golden Globe come migliore attrice
protagonista di una serie televisiva, non aggiunge gran che, se non
fare pesare ancor di più l'assenza di un protagonista realmente
carismatico dopo l'abbandono di Jessica Lange. Dal punto di vista
recitativo, la popstar non è esattamente un disastro. Potremmo anche
dire che si difende senza infamia e senza lode. Ma il suo personaggio
vive soprattutto nei costumi appariscenti che sfoggia, e la sua
performance, sia pure non disprezzabile, non meritava certo un
premio. Insomma, Lady Gaga incede in una versione molto dilatata di
uno dei suoi videoclip, mentre il sangue zampilla, la gente muore,
serial killer realizzano omicidi raccapriccianti e macchinosi, e
tutto sa terribilmente di statico e stantio.
Si è scritto che la rivelazione di
Hotel è l'attore Denis O'Hare, nella parte della trans Liz
Taylor. Ma che O'Hare fosse un attore duttile e di grande talento lo
sapevamo già dai tempi di True Blood, nonché dalle stagioni
precedenti di American Horror Story. La sua prova d'attore è
sicuramente degna di nota ed è tra le cose più riuscite di Hotel,
ma lo spazio a lui riservato è pochissimo e – ahimé – non
basta a reggere il peso di un baraccone dove alla fine non quadra
niente. Troppi spunti sprecati, troppe situazioni dimenticate per
strada. Appunto: troppi, come le trame che vanno a comporre il
mosaico (alla fine informe) di Hotel,
collocandosi qualitativamente al
di sotto anche del già difettoso Coven.
L'assenza di Jessica Lange, o comunque
di un interprete al suo livello, si rivela dunque cruciale. Già da
un po', la Lange appariva sacrificata, intrappolata com'era dagli
sceneggiatori in ruoli troppo simili tra loro, da maliarda non più
giovanissima, assetata di successo e di potere. Ma nonostante il
ruolo sempre uguale, il fascino e il talento di Jessica
rappresentavano un faro che illuminava la scena. Qui manca, e nessuno
è in grado di prenderne il posto. Kathy Bates e Angela Bassett continuano
a essere relegate a ruoli di supporto, e anche loro appaiono sempre più
stereotipate. Lungi dal fermarsi, la sesta
stagione di American Horror Story si farà. E probabilmente
Lady Gaga sarà ancora della partita. Ma se le premesse sono quelle
di questo Hotel, fosse sarebbe stata opportuna una pausa di
riflessione.
Una serie antologica avrebbe potuto
presentare approcci differenti alla materia trattata. Murphy e
Falchuck, invece, non hanno fatto che servire sempre lo stesso menu,
aumentando di volta in volta in modo esponenziale le quantità di
ogni ingrediente, col risultato di presentare alla fine una pietanza
dal gusto pesante e stucchevole. Emblematico, da questo punto di
vista, l'effetto di già visto (sebbene voluto) che ci riporta alle
dinamiche della primissima stagione. Solo che a quel punto anche lo
spettatore si sente un fantasma legato a un luogo che non potrà mai
lasciare, e la sensazione non è confortante.
venerdì 28 agosto 2015
lunedì 20 luglio 2015
domenica 12 luglio 2015
TUSK di Kevin Smith
Un giovane giornalista radiofonico, specializzato nel raccogliere storie grottesche e nel mettere alla berlina bravate shockanti nel suo podcast, si avventura in Canada per documentare l'ennesimo teatrino della crudeltà mediatica. Ma dopo aver "bucato" la storia principale, si lascia sedurre dal racconto di un anziano ex marinaio in sedia a rotelle. Personaggio pittoresco e d'altri tempi, apparentemente depositario di una quantità di racconti curiosi. Tra questi c'è però la storia traumatica di un naufragio, di una strenua lotta per la sopravvivenza in mare. E su tutto, l'ombra inquietante di un animale totemico...
TUSK (2014) è un film spiazzante. Inclassificabile come la maggior parte delle pellicole girate da Kevin Smith, del resto. Un horror (o una commedia nera?) che quasi non dice di esserlo, ma di fatto lo è, diventando tanto più disturbante quanto il racconto procede di pari passo con l'ironia goliardica (e i parallelismi sul cinismo mediatico contemporaneo) di cui Smith è ormai un maestro. Un film forse non perfetto, ma che conquista per i dialoghi frizzanti e un cast sorprendente. Non foltissimo, ma animato da attori camaleonte in grado di offrire caratterizzazioni che non ti aspetteresti. Il duttile Michael Parks, Justin Long (visto nel primo Jeepers Creepers), il cresciuto (e ingrassato) Haley Joel Osment (il bambino del Sesto Senso) e un sempre più sfaccettato Johnny Depp, qui quasi irriconoscibile nel suo bizzarro, esasperante personaggio.
Non saprei dire in che misura TUSK rappresenti il superamento del sottogenere horror che ci siamo abituati a definire "torture porn" o un alto punto nell'evoluzione della metafora dell'uomo disumanizzato dagli eccessi, dal pregiudizio e da una progressiva perdita di sensibilità. Un'umanità che per ritrovarsi deve diventare qualcos'altro. Ma che sarà sempre qualcosa che porterà all'irrisione, alla goliardia, e alla negazione di un orrore fondamentale, in un cortocircuito (suggerito durante i titoli di coda, dove Kevin Smith si autocita) davvero sinistro nel suo irriducibile rifiuto di prendersi sul serio.
[L'artista Francesco Francavilla ha realizzato una serie di immagini promozionali in stile fumettistico]
domenica 21 giugno 2015
Dylan Dog o dell'immaginario panico (su Calaméo)
Di tempo ne è passato. E Dylan Dog è entrato nella sua tanto discussa "Fase 2". Qui proponiamo un passo indietro. Uno di quelli che si fanno davanti ai quadri per poter vedere meglio e cogliere tutti i dettagli. Correva il 1993. Il sottoscritto frequentava l'università e il corso di diploma universitario in giornalismo (istituito presso la facoltà di Magistero, non ancora ribattezzato Scienza della Formazione) muoveva i primi timidi passi, prima di trasformarsi in un corso ben più lungo ed elaborato: quello in Scienze della Comunicazione. Ciò non toglie che fosse possibile divertirsi. Soprattutto con le materie sociologiche, se affidate a docenti anticonvenzionali e aperti come la duttile e preparata professoressa Pina Lalli. Fu così che iniziò il mio cammino di analisi sociale dei fumetti. Una relazione che qualcuno a suo tempo si offrì (in modo vano) di pubblicare, e che oggi Calaméo vi mette comodamente a disposizione. Questo è quanto pensavo e scrivevo negli anni novanta a proposito dell'indagatore dell'incubo. Questo è quanto discussi in sede di esame di Sociologia della Comunicazione. E questo è quello che ha portato al recente video (che affronta anche le recenti evoluzioni del personaggio) sul canale Youtube di Altroquando.
Buona lettura, Giuda ballerino!
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giovedì 11 giugno 2015
Addio a Christopher Lee
Un'età veneranda. Una lunga, intensa carriera, fatta non solo di un'ingombrante icona cinematografica, ma di innumerevoli ruoli, quasi tutti particolari e riusciti. Anche fortunate apparizioni televisive. Se vogliamo ricordare Christopher Lee, facciamolo nel modo meno scontato e più iconoclasta possibile, a onore della duttilità del popolare attore inglese. Rammentiamolo in quello che pare sia stato uno dei suoi ruoli preferiti: Lord Summerisle, il leader della comunità pagana di The Wicker Man (1973, regia di Robin Hardy). Pellicola (se non erro) ancora oggi inedita in Italia. Se non lo conoscete, recuperatelo. E non leggete la trama in rete. Sarebbe un peccato.
domenica 9 novembre 2014
Dracula Untold
Se
dovessi, da comune spettatore, esprimere un giudizio su Dracula
Untold, direi subito che il vampiro, il principe Vlad detto
"L'Impalatore" portato sul grande schermo dal regista
esordiente Gary Shore, è un gran bel pezzo di gnocco, nelle vesti
dello storico e famigerato vampiro di nome Dracula
(interpretato da Luke Evans). Gran bel fisico, tanti muscoli, e denti
canini quasi inesistenti. Da appassionato del tenebroso vampiro così
ben descritto da Bram Stoker nel 1897 e dal Dracula di Francis
Ford Coppola (1992), dovrei far notare che la scelta di privare il
personaggio dell'abituale stile gotico e dell'elemento horror ha come
principale risultato quello di smorzare di molto il tema, benché
questo Dracula Untold tenti, a grandi linee, di convogliarsi
proprio sugli stessi binari del film del regista de Il Padrino.
Per
continuare nella mia umile analisi,credo che nelle intenzioni degli
sceneggiatori, Matt Sazama e Burk Sharpless, c'era il forte desiderio
di realizzare un film completamente diverso dai soliti gia citati sul
personaggio Vlad, e cioè portare in scena un background storico che
del vampiro transilvano mostrasse il lato profondamente umano, bello
e attraente. Ovvero un personaggio che fosse un vero condottiero,
capace di prodigarsi e sacrificarsi per il suo popolo, modificando
alla base la caratterizzazione del solito succhiasangue. In poche
parole un mito "diversamente vampiro".
Per
lo più nel film si ammirano i bei paesaggi d'Irlanda, la bella
colonna sonora, il fascino del genere horror, ma sopratutto l'attore
protagonista: Luke Evans. Bello,dark , intenso, carismatico e virile
come pochi tra i Dracula cinematografici.
[Recensione di Salvo D'Apolito]
giovedì 16 ottobre 2014
Annabelle
La nuova pellicola horror diretta dal
regista John R. Leonetti ha come protagonista principale una bambola indemoniata che scatena il
panico all'interno di una normale e pacifica famiglia americana. E'
per così dire il “prequel" de L'Evocazione-TheConjuring, diretto da James Wan
nel 2013.
La trama ripercorre i classici di un
film horror americani, dove una casa tranquilla si trasforma nel
teatro di un incubo dopo che il marito regala alla moglie incinta una
rarissima bambola vintage, vestita con un candido abito da sposa e
il viso porcellanato con due occhi enormi e le labbra di un rosso
intenso.
Durante una notte a dir poco terrificante, la tranquilla villa viene attaccata dai membri di una setta satanica (un uomo e una donna) che lascia una scia di terrore, sangue e crudelta'. Solo un assaggio di ciò che e' in grado di fare la dannata Annabelle, la bambola ricevuta in regalo dalla futura mamma.
Annabelle in alcuni tratti è un
film godibilissimo, con citazioni e innumerevoli richiami ai classici
del terrore. Ricco di suspence, scandita da terrificanti scene
demoniache e dal lato oscuro della religione, ma in linea massima si
delinea come un film dai ritmi blandi. I silenzi e soprattutto lo
scarto tra l'attesa di una scena di suspence e la sua palese
realizzazione sono ottimamente girati, mentre il fantasma di
Annabelle si diverte ad attivare la macchina per cucire o bruciare i
popcorn e incendiare la cucina, così come lo studio delle
inquadrature, che prevedono la presenza maligna, o l'attesa
suggestiva, tesa e angosciante della stessa. Ma di certo il merito
della riuscita - a tratti - del film è senz'altro il ghigno di una
bambola vestita di bianco che riempie lo schermo e ruba la scena alla
poco convinta prova recitativa della coppia di protagonisti.
In linea di massima, se amate il genere
consiglio il film senza troppe pretese rispetto ai film del passato,
su tutti il Chucky de La Bambola Assassina del quale Annabelle
potrebbe essere, con il suo sguardo penetrante, la perfetta compagna.
[Recensione di Salvo D'Apolito]
sabato 5 aprile 2014
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