domenica 27 agosto 2017

Un coccodrillo per Tobe Hooper



Un coccodrillo.
Sì. Un coccodrillo per Tobe Hooper.

Un pizzico di humor nero per salutare uno dei padri dell'horror moderno che ci ha appena lasciato.
La battuta è contorta. Necessita di un'infarinatura di gergo giornalistico e di conoscenza della filmografia del regista per essere compresa. Coccodrillo. Come gli articoli che si scrivono per omaggiare qualcuno che muore, spesso una celebrità. Un'etichetta senza mezze misure, per indicare qualcosa che si ritiene “vada fatto”, ma che nello stesso tempo non riesce a sottrarsi da sospetti di cinismo. Il tutto riferito, ovviamente, alle proverbiali lacrime del grande rettile.

Coccodrillo. Come il mostro (secondario?) di “Eaten Alive” (“Quel motel vicino alla palude”, in Italia) suo secondo film (1977), che in realtà sarebbe il terzo, ma è il secondo a restare nella memoria del pubblico dopo il successo di “Non aprite quella porta” e il flop della sua prima incursione nel dramma indipendente con “Eggshells” del 1969. Eaten Alive” si ispirava liberamente alle imprese del serial killer Joe Ball, in azione nell'America degli anni trenta. Si racconta che Ball si sbarazzasse dei corpi delle sue vittime dandole in pasto a degli alligatori. Nel film, il protagonista nutre un famelico coccodrillo con il quale ha un rapporto quasi simbiotico, secondo le allegorie care al regista.


Ma Tobe Hooper, che pure diresse diversi altri film (sebbene con meno fortuna e mano meno ispirata, anche per via delle ingerenze produttive che non gli diedero mai tregua) sarà ricordato (e merita di esserlo) soprattutto per il rivoluzionario “Non aprite quella porta” (titolo italiano di “The Texas Chainsaw Massacre”) del 1974. Perché ricordarlo? Perché semplicemente ha fatto la storia del cinema horror, contribuendo a modificarne le regole come “La notte dei morti viventi” di George Romero (altro maestro recentemente scomparso... anno gramo per il cinema del perturbante). E come il film di Romero ha infuso nella sua fiaba nerissima un sottotesto politico di grande impatto. Non è un caso che la recente elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti ha spinto qualcuno a commentare che l'America, e quindi il suo corpo elettorale, non è solo quella che vediamo nelle patinate commedie hollywoodiane. L'America è fatta anche (se non soprattutto) di ampie province rurali. Veri e propri mondi separati, dove ancora oggi è possibile imbattersi in zone fuori dal tempo e forme preoccupanti di arretratezza. La famiglia cannibale di “Non aprite quella porta” rappresenta in modo esemplare, per quanto estremizzato, il proletariato campestre statunitense, incattivito e degenerato dal disagio e dallo strapotere delle multinazionali che lo riducono a uno stato di animalità. Costretto a vivere ai margini del mondo civilizzato, sopravvivendo come un predatore primordiale che finisce col rivoltarsi contro i suoi simili e trasformare in alimento chi non riconosce come parte del suo gruppo ristretto. I suppellettili della casa realizzati con ossa umane, il laboratorio da macellaio, il gancio a cui la giovane vittima viene appesa con metodica, ottusa diligenza, sono metafore disturbanti che non si dimenticano più. Con il film di Tobe Hooper, gli Snopes raccontati da William Faulkner incontravano l'horror, e il cocktail aveva un sapore amarissimo, ma eccitante.


Per il 1974 (ma ancora oggi) “Non aprite quella porta” era un film davvero sconvolgente. Seminale per quello che sarebbe diventato il sottogenere horror definito “slasher”, insieme con il meraviglioso “Halloween” di John Carpenter, di cui rappresenta l'altro lato della medaglia. Quello più sporco, laido e rumoroso. Non è possibile omaggiare Hooper senza ricordare anche l'icona cinematografica di Leatherface, personaggio chiave di “The Texas Chainsaw Massacre”. Un gigante mentalmente ritardato, probabilmente sfigurato (nel film originale il suo volto non viene mai mostrato), che cela i suoi lineamenti sotto grottesche maschere di pelle umana.

E poi c'è la motosega.

E' vero. La motosega (almeno così sembra) fu usata come arma per la prima volta nel film di Wes Craven “L'ultima casa a sinistra”, ma è con Leatherface e “Non aprite quella porta” che è diventata un feticcio horror fondamentale. Più per l'ossessionante rumore del suo motorino che per gli scempi compiuti dalla lama. Quel rumore che già da solo comunica una disturbante senzazione di follia, di ossessione, che fa sentire lo spettatore assediato e gli fa salire le viscere su per la gola.

Una nota amara consiste, per chi scrive, nel ricordo dell'inutile remake di Marcus Nispel del 2003. Un remake, volendo non tra i più spregevoli, ma che tradiva completamente lo spirito dell'opera originale, facendone un horror patinato e convenzionale fino al midollo. Rammento la conversazione avuta riguardo la pellicola di Nispel con altri spettatori più giovani, e gli insensati confronti che emersero quando mostrai loro il film culto di Tobe Hooper.
Nella loro percezione, il film del '74 sprecava tempo e potenziale, eliminando troppo velocemente un quantità di personaggi per poi concentrarsi sull'odissea di un'unica protagonista. A loro parere, Hooper avrebbe dovuto centellinare gli omicidi lungo tutto il film, e non puntare il riflettore su un soggetto specifico, in quanto il risultato – per loro – era la noia. Rischiai di sentirmi male.


Quando si dice che il trend commerciale diseduca all'arte. E stavo assistendo a uno di quei casi. La sostanza era che i giovani spettatori erano ormai viziati da un canone dell'horror slasher pensato in termini di catena di montaggio, mentre il film di Hooper... per quanto antenato dello slasher... non era propriamente uno slasher. Non solo, almeno. E l'inferno vissuto dall'attrice Marilyn Burns, un ruolo in cui più che parlare urlava disperatamente, sottoposta a sevizie fisiche e psicologiche (vogliamo parlare dell'insopportabile, lunga scena del pranzo?) reappresentava l'apice di uno dei film più spaventosi della storia. Non aprite quella porta” del 1974 è un film con una personalità fortissima, e il remake degli anni 2000 non era che la banalizzazione, appiattita su uno standard ormai trito, di un classico che era stato a suo modo un pioniere.

A motoseghe e coccodrilli più o meno domestici, sarebbero seguiti altri film. Raramente all'altezza dei precedenti, soprattutto per i limiti imposti a Hooper dalle produzioni che nel tempo lo avrebbero sempre più ostracizzato, praticamente fino a farlo scomparire dalle scene. Non parlerò di “Poltergeist”, altra pellicola nota firmata da Hooper, se non per sottolineare quanto possano essere evidenti le ingerenze produttive nella realizzazione di un film che porta la firma di una personalità dal potenziale sovversivo qual era quella del regista di “The Texas Chainsaw Massacre”. La mano di Steven Spielberg e la sua cifra stilistica traspaiono da ogni fotogramma, e paradossalmente potremmo dire che “Poltergeist” sia un titolo riconducibile più al regista di “E.T.” che al discorso iniziato da Hooper, che possibilmente avrebbe realizzato una pellicola più malata e meno adatta a un pubblico generalista.

Un peccato, quindi. Peccato per quello che avrebbe potuto essere e a causa delle dinamiche hollywoodiane non è stato. Peccato perché la storia è finita qui. Peccato, come ogni volta che sentiamo la necessità di scrivere un coccodrillo.

Già! Il coccodrillo.

Non lo sentite? Che strano ticchettio!
E' il primo allarme, poi dopo arrivo io.
Non voglio alcun vantaggio.
Ma non è per coraggio.
E' perché sono il più cattivo.
E mi diverte il fatto di inseguirvi.


Grazie per gli incubi, Tobe Hooper. Quelli intelligenti.
Quelli che ti fanno svegliare.



Nessun commento:

Posta un commento