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lunedì 7 ottobre 2019

The Head Hunter [di Jordan Downey]

"The Head Hunter"(Il cacciatore di teste) è un bizzarro film (Fantasy? Horror?) diretto dal regista Jordan Downey nel 2018. Un film pressoché muto (i dialoghi ci sono, ma ridotti a un osso di pochi centimetri) che punta gran parte della sua durata (breve, dura poco più di un'ora) sull'atmosfera e la presenza, in sostanza, di un solo personaggio protagonista (l'attore norvegese Christopher Rygh). Un cavaliere vive isolato in una casupola in mezzo ai boschi dove, tempo prima, la figlioletta è stata uccisa da una creatura soprannaturale. La sua vita è scandita dall'attesa della vendetta e da una costante lotta contro i mostri che infestano quelle lande. Forse orchi, forse troll o altro (il film è molto avaro di spiegazioni). Qualcuno gli segnala la presenza dei mostri per mezzo di messaggi inviati su pergamena, quasi dei bollettini che segnalano la presenza di banditi ricercati, come i cartelli "wanted" del far west.
Il cavaliere, però, non è un cacciatore di taglie, ma di teste, che conserva come trofei, impalandole su pioli dentro la sua casa o su bastoni nel campo circostante. Le sue battaglie contro le creature mostruose sono tutte tenute rigorosamente fuori scena. Quella che ci viene narrata è la sua quotidianità, tra uno scontro sanguinoso e l'altro. Il cavaliere torna ogni volta con una nuova testa mostruosa da aggiungere alla sua macabra collezione. Cura le proprie ferite con erbe e pozioni magiche (veramente magiche!) e attende l'incontro finale con il suo antico nemico. Giorno dopo giorno, i suoi rituali diventano per noi familiari. Finché qualcosa non andrà storto. Tremendamente storto...


"The Head Hunter", con la sua narrazione minimalista, i suoi lunghi silenzi e lo sconcertante finale, potrebbe dare l'idea di un cortometraggio allungato oltre misura. Eppure sarebbe ingeneroso giudicarlo così. Il film di Jordan Downey, che si era fatto notare nel 2013 con l'horror comedy "Thankskilling", con protagonista un tacchino demoniaco, è un vero dipinto vivente. Un film dove i silenzi, la fotografia, i dettagli, il sangue e l'attesa dell'inevitabile, contribuiscono a plasmare un'esperienza cinematografica totalizzante, che non ha bisogno delle parole per essere completa. Un piccolo gioiello da ammirare con attenzione.

sabato 5 ottobre 2019

Martin Scorsese contro i cinecomics



A proposito della questione Scorsese vs cinecomics...

L'espressione "Non è vero cinema" andrebbe riportata con i piedi per terra. Non presa alla lettera, insomma. E soprattutto bisognerebbe imparare a non offendersi per questo genere di cose. Io non ne ho memoria, ma è stato mai detto che i cinepanettoni non sono vero cinema? In ogni caso qualcuno potrebbe dirlo. E anche in quel caso sarebbero solo parole. Perché persino i cinepanettoni sono cinema. Un brutto cinema. Un'espressione deteriore del cinema, che a lungo il botteghino ha premiato. Dire che qualcosa "non è cinema", ma anche "non è musica" o altro, è da intendere semplicemente come "non lo condivido. Non lo apprezzo. Non lo capisco. Non lo pratico. Per me la vera arte si esprime in modi diversi". E' tutto qui, e penso proprio fosse quello che Martin Scorsese intendesse dire, che lo si condivida o meno. Anche il paragone con i luna park è scontato. Quanti film kolossal, nel corso della storia, sono stati paragonati a baracconi? E' solo un modo di dire, per affermare che il proprio interesse e il proprio rispetto si focalizza su altri aspetti di quella forma d'arte. Ed è soprattutto legittimo, anche se può non piacere.
Prendete "Avengers: Endgame", film che ha emozionato molti spettatori e irritato altri. Io stesso sono un fruitore del Marvel Cinematic Universe, e per primo a mio modo apprezzo alcuni (non tutti) di questi film, compreso l'ultimo Avengers.
Eppure, se qualcuno, metodicamente, mi spiega che la sceneggiatura è piena di buchi logici e tante cose non funzionano, non posso fare a meno di dire a me stesso: «Minchia! E' vero!»
Ciò non toglie che il film possa essere apprezzato. Anche da me che ne vedo i limiti. Perché gli stessi limiti logici, le stesse pecche e contraddizioni, sono il pane quotidiano dei fumetti seriali (per loro natura caotici e pasticciati) che questi film traspongono al cinema. Richiedono la disponibilità ad accettare l'inaccettabile (parliamo di supereroi e di universo condiviso). Un tipo di sospensione dell'incredulità che non va bene per tutti. Un tipo di suggestione che ignora la logica narrativa a beneficio di altri tipi di suggestione, legati al carisma di personaggi e dinamiche che non tutti possono, e soprattutto sono tenuti, a gradire. Sentir dire pertanto che i cinecomics "non sono cinema" non è una bestemmia, non è un'offesa alle nostre madri. Ma solo una formula di chi cerca la suggestione cinematografica prevalentemente altrove. Prendiamo la frase come un classico “nun me piace 'o presepe". E ricordiamo che c'è gente, ancora oggi, che dice che certi tipi d'amore non sono vero amore. E certi tipi di famiglia non sono una vera famiglia. E questo, se permettete, è veramente grave e richiede la nostra attenzione. Cerchiamo di dare il giusto peso alle cose e a prendere i diversi modi di fruire il cinema con più leggerezza.

venerdì 4 ottobre 2019

JOKER di Todd Phillips




Non sono mai propenso a definire un film appena visto come un "capolavoro". Sottoscrivo l'adagio che i capolavori, i film epocali, sono quelli che si dimostrano tali nei tempi lunghi, e solo successivamente manifestano la loro immortalità. Inoltre la parola con la C mi suona troppo come un contemporaneo sinonimo di «Wow! Figata!». E questo lascia il tempo che trova. Senza girarci ulteriormente intorno, dirò che il film mi è piaciuto. Ancora non so se molto o abbastanza, ci sono cose che hanno bisogno di essere metabolizzate affinché le si possa comprendere a pieno. A visione ultimata, direi che è un bel film. Che resta dentro e spinge a ruminare quanto visto per decifrarlo meglio. La polemica cinecomics sì o no, oltre a essere inutile è totalmente campata in aria. Il film di Phillips non potrebbe esistere senza i twist che alludono alla sua origine fumettistica e ne reinventano determinati elementi, prospettandoli sotto una luce inedita. O almeno perderebbe buona parte della sua ragion d'essere, cioè la rilettura in chiave critica di un mito moderno. E' un film di forte impatto, non un film perfetto. E' un film che farà discutere, soprattutto per i suoi contenuti più audaci che si prestano a dibattiti anche discretamente accesi. Altro non si può aggiungere, perché andremmo a toccare snodi di trama che è meglio scoprire al cinema. Ma ci sarebbe tanto da dire. In tutto questo, la performance di Joaquin Phoenix è eccelsa. Da premiare con l'oscar? Non spetta a me dirlo. Bisognerebbe aver visto e valutato con attenzione tutte le interpretazioni candidabili di questa stagione. Diciamo solo che è un'ottima prova e che alla fine del film, Phoenix è senz'altro il Joker. Un Joker più complesso del solito, di cui abbiamo visto delle fragilità, ma non per questo meno sinistro. Nel doppiaggio, Adriano Giannini si è riscattato alla grande dai suoi recenti lavori meno ispirati. Nel complesso, un film da vedere e di cui parlare. E su questo non ci piove. Ne parleremo. Oh, se ne parleremo...

sabato 31 agosto 2019

A Field in England [di Ben Wheatley]




«Mentre viviamo temendo l'inferno... ci siamo dentro.»

Mi vado innamorando sempre più del regista britannico Ben Wheatley a mano a mano che scopro la sua filmografia. Tutti film indipendenti e di difficile classificazione, per quanto spesso li si ascriva al genere del perturbante se non dell'horror. Meccanismi narrativi spiazzanti, e una visione cinematografica abbastanza anarchica, che qualcuno definisce velleitaria, bollando i suoi film come meri esercizi di stile senza capo né coda. Se il noir “Killer List” era un crescendo spietato di violenza ed esoterismo, fino a un finale criptico quanto sconvolgente, “A Field in England” (in italiano “I disertori”) uscito nel 2013, va possibilmente anche oltre, e ci regala un film a suo modo piacevolmente destabilizzante. In parte sogno, in parte incubo, che flirta con la cultura della psichedelia (in modo anche dichiarato), scatenando negli occhi e nella percezione di chi guarda una creatura cinematografica tra le più bizzarre. Non è un caso che in tanti gli stiano alla larga, dal momento che di sicuro esiste poco di altrettanto disorientante.



Lo scenario è quello della Guerra Civile inglese, fotografato in un pulitissimo bianco e nero, recitato in originale in inglese arcaico e interamente ambientato in un apparentemente interminabile campagna inglese («Il nulla e cardi...»). Quattro uomini fuggono dalla guerra. Quattro personaggi molto diversi tra loro, le cui peculiarità emergono da dialoghi tra il surreale e il picaresco, con una cadenza volutamente teatrale. Se il precedente “Kill List” poteva rammentare sotto alcuni aspetti il teatro di Harold Pinter, “A Field in England” echeggia le atmosfere del drammaturgo belga Michel de Ghelderode, la cui opera era influenzato dagli spettacoli di burattini e dal concetto di “teatro della crudeltà” di Antonin Artaud. Sintomo che Wheatley si sente molto legato all'aria che si respira sulle tavole del palcoscenico, e continua a sperimentare curiose ibridazioni con il linguaggio cinematografico attingendo alle poetiche meno omologate della prosa. Attraverso una narrazione scandita in quadri, i quattro disertori incontreranno in mezzo al nulla un alchimista stregone (l'attore Michael Smiley, visto in “Black Mirror” e attore ricorrente di Wheatley) che li coinvolgerà nelle sue trame, e nella ricerca di un misterioso tesoro.

In “A Field in England” ritroviamo temi classici quali il viaggio sciamanico e la scoperta della propria natura. Ma filtrati da un umorismo nerissimo e da una trama spiazzante, che se nella prima parte sembra seguire una dinamica tradizionale, nella seconda deraglia, violando ogni aspettativa logica e presentando scenari sempre più surreali, fino a una totale astrazione cui (non è una novità per Ben Wheatley) toccherà allo spettatore dare un significato. Sarebbe relativamente semplice riconoscere in “A Field in England” l'ennesima declinazione di un meccanismo narrativo già ampiamente sfruttato al cinema, E chissà, forse la risposta è davvero la più ovvia. Ma stiamo parlando di un film di Ben Wheatley, e certezze non ce ne possono essere. “A Field in England” è davvero una strana, stranissima creatura cinematografica. Facile da odiare per la sua particolarità e da ignorare per la sua scarsissima distribuzione. Eppure nella sua natura, magari un po' snob, di opera indipendente, che se infischia delle aspettative del vasto pubblico, risiede il suo fascino. Una potenza visiva notevole nel suo impeccabile bianco e nero, una caratterizzazione estrema dei personaggi, presi quasi di peso dalla commedia dell'arte e catapultati in un contesto allucinato, e un sottotesto magico, un viaggio psichedelico tutto da vivere, se non interpretare.
Questo è “A Field in England”. Un'esperienza cinematografica che non può in nessun caso lasciare indifferenti. E in ogni caso, difficilmente, una volta visto, si riuscirà a dimenticarlo presto.

lunedì 15 luglio 2019

Gli altri cinecomics: "Hardware" di Richard Stanley



Hardware”, in italiano “Metallo Letale” è il primo film del regista sudafricano Richard Stanley, uscito nel 1990, che si ispira (molto liberamente) al racconto a fumetti britannico "Shock”, scritto da Steve McManus (accreditato come Ian Rogan) e disegnato da Kevin O'Neill, pubblicato per la prima volta su “Judge Dredd Annual” del 1981, e in seguito ristampato su “2000 AD”. Per quanto riguarda il film di Stanley, pare che inizialmente nessun accredito fosse stato riconosciuto agli autori del fumetto, e che soltanto dopo una controversia legale le due parti siano giunte a un accordo.

Quindi “Hardware – Metallo Letale” (oppure “Hardware – I robot non muoiono mai”, titolo con cui il film fu distribuito in home video in terra italica) sarebbe un cinecomic?


Beh, né più né meno delle tante pellicole che, ispirate a piece teatrali, romanzi e racconti, non sembrano avere necessità di un'etichetta così specifica. Se vogliamo, potremmo collocare “Hardware” (che prende solo lo spunto essenziale del fumetto di McManus e O'Neill) nella zona d'ombra degli “altri cinecomics”, quelli che sentono (e fanno sentire) meno il peso del loro retaggio cartaceo e vivono di vita propria, dando origine a una creatura cinematografica indipendente e dalla forte identità. Soprattutto se a firmare la regia è un talento (qui esordiente) come quello di Richard Stanley, che raccoglie l'ossatura di un racconto a fumetti breve e realizza, facendo virtù di un budget ridottissimo, uno spettacolo emotivamente coinvolgente, ricco di metafore esistenziali e politiche, che brucia gli occhi dello spettatore con immagini di rara potenza.


In un futuro non meglio specificato, una giovane scultrice abituata a servirsi di materiale meccanico in disuso, riceve come dono dal suo amante i resti di un robot reperiti da un losco rigattiere. L'artista realizza una delle sue installazioni, e la colloca nel proprio appartamento. Ma l'automa è in realtà un modello militare assassino programmato per autoripararsi e uccidere ogni essere vivente sulla sua strada. Presto il suo chip si riattiva, e nell'appartamento avveniristico della ragazza sarà l'inizio di un sanguinosissimo incubo...

Questa la trama del fumetto “Shock”, questo lo spunto traghettato su schermo in “Hardware”. Non fosse che nel film di Richard Stanley, oltre alla semplice trama, conta tantissimo l'ambientazione, con i suoi scenari fatti di distese riarse o di dedali claustrofobici. Suoni ossessivi, ombre e persino odori, suggeriti da una fotografia sporca e sublime nello stesso tempo. Quel che nelle poche tavole di “Shock” appare tutto sommato patinato, in “Hardware” è impolverato, lurido, e puzza di olio e ruggine. Il duello tra essere umano e macchina assassina si svolge in un'arena che è un mondo ormai morente, i cui ultimi sussulti sono accompagnati da spettacoli televisivi violenti e dalle battute di un cinico speaker radiofonico che nella versione originale ha la voce di Iggy Pop. Un conflitto nucleare ha ferito il pianeta al cuore, ormai popolato da un'umanità aberrata e da creature mutanti con aspettative di vita cortissime che consumano cupe esistenze stipati all'interno di tetri alveari tecnologici. Una legge appena promulgata livellerà le nascite, e là fuori c'è ancora una guerra, morte, rovine e rottami. Anche i resti di androidi dimenticati, tra i quali potrebbe nascondersi qualcosa di terribile, destinato in precedenza a ridurre drasticamente la vita organica sul pianeta. Non è casuale che il modello del robot protagonista sia identificato come M.A.R. K. - 13, dichiarato riferimento al passaggio del Vangelo secondo Marco in cui si leggono parole come “Quando vedrete l'abominio della desolazione” e “Nessun essere umano si salverà”.


E' facile riconoscere in “Hardware” tracce di molti classici del cinema di fantascienza, tra cui soprattutto “Mad Max”, “Terminator” e persino “Alien”. Il punto è che “Hardware” riesce però a conservare una sua identità fortissima, e mentre la fantascienza evolve nel vero e proprio horror, Richard Stanley ci colpisce al cuore con una parabola nerissima e pessimista sul futuro dell'uomo e il suo rapporto con il progresso. M.A.R. K. - 13, trasformato in una scultura postmoderna che non appena tornata in vita si riassembla con tutto ciò che trova pur di continuare a uccidere, è un mostro che non si dimentica facilmente. E l'appartamento di Jill, la scultrice protagonista interpretata da Stacey Travis, si dimostra una location ossessiva (praticamente già una trappola di per sé) che fa da perfetto palcoscenico al grand guignol tecnologico che non dà un attimo di tregua fino alla deflagrante conclusione. Nel ruolo di Moses, l'avventuriero riciclatore che dona a Jill i rottami dell'androide, abbiamo un giovane Dylan McDermott alle sue prime apparizioni, quando ancora non era odiato da tutti (a mio parere in modo esagerato) per le sue partecipazioni a più serie televisive. E il contrappunto tra i due amanti, più sognatore uno, più cinica e cauta l'altra, è carburante per un atmosfera intrisa di un romanticismo amaro, perfettamente calato nel clima apocalittico della vicenda. Un racconto (horror e fantascientifico, ma anche qualcosa di più) che dimostra un virtuosismo cinematografico prezioso. Rivelandosi un film fichissimo in ogni sua parte a dispetto dei pochi mezzi grazie a una fantasia e a un estro che hanno del miracoloso.
Hardware” è un film che va visto. Magari più di una volta, per apprezzarne meglio le mille metafore, nascoste in trovate visive e in dialoghi martellanti. Un gioiello cinematografico ispirato a un fumetto che gli appassionati di comics dovrebbero scoprire.
Gli appassionati di cinema, invece, dovrebbero conoscerlo già. O almeno rimediare quanto prima.

Se siete rimasti indietro, fatelo. E ricordate: “Nessuna carne sarà risparmiata”.

lunedì 8 luglio 2019

Alla fine John muore



John Dies at the end” (“Alla fine John muore”) è un film di Don Coscarelli uscito nel 2013 e inedito da noi. Don Coscarelli è noto agli appassionati per la sua filmografia ridotta e le uscite molto dilazionate nel tempo. Il suo nome è ricordato soprattutto per la saga “Fantasmi” (iniziata nel 1979) e il delizioso “Bubba Ho-Tep” del 2002, tratto dal racconto di Joe R. Landsdale e interpretato da Bruce Campbell.

All'origine di “Alla fine John muore” c'è il fenomeno letterario firmato da David Wong (pseudonimo di Jason Pargin), un blog novel realizzato a puntate quasi per gioco, divenuto un caso grazie al passaparola e infine arrivato su carta nel 2009 (in Italia è pubblicato da Fanucci).



Il genere non è facilmente classificabile. Horror? Grottesco? Fantascienza? Se rammentiamo il tono fortemente onirico del film “Fantasmi”, sarà facile capire perché Coscarelli è stato attratto dal romanzo di Wong come uno spillo da una calamita. E questo nonostante la versione cinematografica adatti una minima parte dei tanti eventi folli che formano il libro. Ed è tutto dire, perché il film di Coscarelli non dà tregua, e realizza un beffardo incubo sulle montagne russe in cui splatter, assurdità e comicità, si susseguono per la durata (in fondo contenuta) di un'ora e mezza.


Leggere il romanzo di Wong è un'esperienza psichedelica che il film riesce a condensare con un ottimo ritmo, grazie anche alle performance di attori di spicco tra cui si segnalano Paul Giamatti e Clancy Brown in due ruoli di supporto ma fondamentali. Dialoghi deliranti, strane droghe che conferiscono bizzarri poteri, mostri, metamorfosi, minacce lovecraftiane, armi improbabili, stati alterati della percezione e un vortice di situazioni di una comicità crudelissima. Una sarabanda in cui l'eroismo non esiste, ma l'unica vera arma contro l'apocalisse sembra essere l'irriducibile capacità di riderle in faccia.

Sì, ridere in faccia all'apocalisse. Si può fare.


Un piccolo grande film bizzarro, tratto da un altrettanto bizzarro romanzo, che ovviamente in Italia non è stato distribuito. Se potete, e vi va, recuperatelo. Anzi, leggete anche il libro (quello lo trovate più facilmente). L'effetto è quello di una scarica di adrenalina e di un'esplosione di fantasia a briglia sciolta che in certi tratti provoca pure il mal di mare. Ma ubriaca, al punto che ne vorremmo ancora. Una piccola gemma che conferma Don Coscarelli un artigiano artistoide di grande caratura che fa solo quello che gli va. E forse proprio per questo è così poco prolifico.


giovedì 30 maggio 2019

Brightburn



In principio era “Il presagio”. Un bambino diabolico con un destino da compiere, e una serie di fatali incidenti che eliminavano quanti si mettevano sulla sua strada.
Oggi il male non è generato dal diavolo. Cade dal cielo, dalle stelle, sempre con le sembianze innocenti di un bambino. Non esita a sporcarsi le mani personalmente, e sovverte del tutto le aspettative messianiche che finora gli erano state attribuite. Non arriva per proteggere la terra, ma per conquistarla. Forse distruggerla.


Era nell'ordine naturale delle cose. Con lo sdoganamento definito dei supereroi sul grande schermo, che la loro versione al negativo volesse dire la sua, era soltanto questione di tempo. Ed ecco infatti arrivare “Brightburn”, film di David Yarovesky, prodotto da James Gunn e scritto dal fratello Brian in collaborazione con il cugine Mark (cose di famiglia, insomma). La rilettura al nero del mito di Superman non è una novità. Non lo è sicuramente nei fumetti, dove dimensioni alternative, storie immaginarie e variazioni sul tema hanno proliferato nel corso dei decenni. Su tutte, ricordiamo la serie “Irredimibile” (il titolo è tutto un programma) di Mark Waid, dove facciamo la conoscenza di un possibile Superman (qui chiamato il Plutoniano) che dopo essere stato per anni un eroe protettore della terra, perde la testa a causa dello stress e di una lunga catena di traumi, trasformandosi in un mostro onnipotente che dà inizio a una devastazione senza fine. E un Superman cattivo... ripetiamolo: Superman, l'Uomo d'Acciaio, più veloce di un proiettile, invulnerabile, fortissimo, che ti rintraccia ovunque solo sentendo il tuo battito cardiaco ed è in grado di ridurre tutto in cenere con uno sguardo... è un vero incubo. Dalla fantascienza avventurosa, quindi, si sconfina nell'horror, e l'eroe con superpoteri diventa il peggiore dei mostri possibili.


Se nel fumetto di Mark Waid tutto era già successo e una larga parte del racconto consisteva nello scoprire le ragioni della progressiva follia del protagonista, in “Brightburn” il discorso è più schematico. Il punto di partenza è quello canonico. Una coppia nel Kansas (ma qui la cittadina si chiama Brightburn invece che Smallville) fatica ad avere figli, finché una notte non cade dal cielo una navicella con dentro un bambino alieno.


Alieno. Una parola che nel caso di “Brightburn” andrebbe sottolineata più volte. Brandon Breyer (con l'allitterazione nel nome come Clark Kent) non ha bisogno di particolari traumi per sbroccare. I suoi genitori sono affettuosi, il contesto benevolo, e sporadici episodi di bullismo a scuola sono qualcosa di troppo blando per giustificare il suo veloce passaggio al lato oscuro. Una lezione di biologia all'inizio del film fornisce subito la chiave di lettura. Brandon è figlio di una stirpe che agisce come il cuculo, che mette il proprio uovo nel nido altrui affinché sia covato. E l'uccello intruso una volta rotto il guscio dimostra la sua vera natura di predatore.

Come già in passato (compresa la serie TV “Smallville”), un ruolo importante è svolto dalla navicella che ha portato il piccolo alieno sul nostro pianeta. Esiste un richiamo culturale che induce Brandon ad abbracciare il suo retaggio e a considerare, una volta raggiunta la pubertà, i terrestri come esseri fragili e prescindibili, che possono essere schiacciati come insetti non appena diventano inutili o appena molesti. L'assenza di empatia della natura di Brandon è il motore di tutto. Nel nuovo millennio, gli alieni non sono più buoni. Non sono E.T. E non sono nemmeno Superman. La scena post credito parla chiaro. Il superuomo qui è visto come l'avvento di una nuova generazione che probabilmente spazzerà via quanto rimasto del vecchio mondo, della sua storia e delle sue pretese di civiltà. In funzione di cosa non è dato sapere, ma l'orizzonte non è roseo e annuncia solo devastazione.

Il film di Yarovesky (irresponsabilmente intitolato dalla distribuzione italiana: “L'angelo del male”, come l'edizione nostrana di “La Bête humaine” di Jean Renoir del 1938 e come l'horror “The Prophecy II”, segno di grande originalità e rispetto per la storia del cinema) scorre bene e riesce a essere discretamente inquietante. Grazie anche al volto (di per sé già alieno) del giovanissimo attore Jackson A. Dunn. Il film ha qualche pecca sul piano logico e della costruzione di alcuni personaggi. La scoperta dei poteri di Brandon è forse troppo veloce, e risulta inverosimile che certi danni compiuti dal piccolo alieno non attirino l'attenzione dei genitori adottivi molto prima. La conduzione in stile slasher, però, funziona, e si giova di alcune sequenze gore realmente disturbanti. Il travestimento ideato da Brandon per le sue scorribande malefiche diventerà sicuramente un'icona. E chissà che non ci aspetti un sequel o un nuovo universo narrativo. Tutto dedicato, stavolta, a esplorare una versione distorta, negativa e malvagia di quelli che chiamiamo supereroi.

Adesso, però, sarebbe auspicabile una serie televisiva basata su “Irredimibile”. I tempi sono maturi e così il mezzo televisivo. Riscoprire un Superman che diventa lentamente malvagio in un'esplosione di follia e crudeltà, sarebbe una ghiotta occasione per un prodotto audiovisivo in linea con un mondo sempre più disincantato, in cui ormai si guarda con sospetto e paura anche chi un tempo immaginavamo come eroe.

lunedì 13 maggio 2019

Resolution (2012) di Justin Benson e Aaron Moorhead



“Resolution” (2012) è il film horror che ha segnato l'esordio del duo Justin Benson e Aaron Moorhead, che si sarebbero fatti notare da un pubblico più vasto un paio d'anni più tardi con il popolare (e altrettanto bizzarro) “Spring”, da molti definito una sorta di “Twilight per adulti”.
Ma il debutto avvenuto con “Resolution” è ancora più indie, ancora più strano e sotto certi aspetti controverso. Un film indipendente fino al midollo, essenziale e girato benissimo con un pugno di attori e poche location rimediate. Non c'è da soprendersi che, a differenza di “Spring”, ambientato sullo sfondo degli splendidi paesaggi pugliesi e forte di una vena romantica, abbia avuto una distribuzione molto più limitata, e per quanto i consensi non siano mancati, riceva anche bocciature da chi non è interessato a leggere i sottotesti nascosti (ma neanche tanto, in fondo) dietro la sua narrazione ellittica e la confezione da budget limitato.

Michael e Chris sono amici dall'infanzia. Michael oggi è un uomo sposato, che lavora come grafico e ha una vita anonima, ma che procede senza troppi scossoni. Chris invece conduce un'esistenza deragliata. E' un tossico dedito al consumo di crack e ha imboccato un cammino autodistruttivo senza ritorno. Un giorno, Michael riceve via mail un collage di video che mostrano Chris in un luogo sperduto, intento a drogarsi e a compiere azioni sconnesse in palese stato di alterazione. Michal decide così di cercare il vecchio amico, raggiungerlo nella casupola in mezzo ai boschi in cui si è rifugiato e imporgli una settimana di astinenza nella speranza di persuaderlo a entrare in riabilitazione. E' l'inizio di una settimana da incubo, in cui la convivenza tra Chris, incatenato a una tubatura, e Michael nel vecchio casolare susciterà l'attenzione di una presenza invisibile la cui natura e le cui intenzioni sono tutte da stabilire.


“Resolution” (Risoluzione, inteso anche come “Soluzione” o “Traguardo”) non è un film per tutti. Ed è un film che porta in modo riconoscibilissimo il marchio che Benson e Moorhead hanno definito con le loro opere successive. Come “Spring” è un horror e nello stesso tempo non lo è. E' un film indipendente che gioca con determinati spunti, ma li sovverte, li declina in modi inconsueti e trasforma quello che ci si potrebbe aspettare in altro. In un contesto povero, in cui tutto è affidato alla recitazione (ottima!) dei due protagonisti, impegnati a lottare psicologicamente e a volte fisicamente in nome di un'antica amicizia, la trama dichiaratamente soprannaturale si insinua in modo subdolo, prendendo in prestito elementi dal cinema di genere e creando un puzzle allegorico che non condurrà a nessun effetto speciale, a nessuno spauracchio fotografato in campo. E sarà lo spettatore, sorpreso o sgomento a seconda delle sensibilità, a dover dare un senso al racconto.

Non è possibile evitare (come hanno già fatto in tanti) gli accostamenti con “Evil Dead” e soprattutto “Quella
casa nel bosco”. Parliamo qui non del film di esordio di Sam Raimi, ma del remake di “Evil Dead” realizzato da Fede Alvarez nel 2013. Anche lì il McGuffin iniziale era il tentativo di riabilitazione di un'amica tossicodipendente, e l'infelice scelta di rifugiarsi in una magione fatiscente in mezzo al nulla, già teatro di drammi stregoneschi e dove si trovava nascosto il famigerato libro dei morti. In “Resolution” abbiamo echi di tutto questo, ma in una forma molto più stilizzata. E' chiaro che nella casupola cadente in cui si svolge lo psicodramma tra i due amici sono avvenuti fatti terribili, e che molte tracce, confuse ed enigmatiche, sono seminate in ogni angolo. Avvertiamo echi di found footage, con il ritrovamento di supporti visivi e audio (che ci ricordano, questi, l'originale “Evil Dead”). Ma chi si aspetta la macelleria grottesca di quella scuola, resterà deluso. Ancora più sfumati sono i riferimenti a “Quella casa nel bosco”, film di Drew Goddard del 2012, pellicola riuscita che cercava di dare un senso globale a corsi e ricorsi di tanto cinema di genere. Ma nella sua povertà formale, nella sua essenzialità, “Resolution” forse va anche oltre. Innanzitutto perché rifugge da spiegoni e preferisce suggerire. Ma anche per la scelta di affidare solo all'atmosfera, alle aspettative e alla stessa intuizione dello spettatore, la risoluzione di cui parla il titolo.
Il racconto, che si sviluppa in pochi giorni, è irto di tracce, di sospetti, di teorie e di personaggi che fanno apparizioni fugaci. Le informazioni fornite sono soltanto delle esche su cui lavorare di fantasia. Come dice il personaggio (forse quello più inquietanti di tutti) dell'antropologo: «Un aborigeno australiano non sa niente di alieni, fantasmi o demoni. Ognuno dà il nome che vuole all'infinito.» E contemporaneamente fa un gesto, tocca qualcosa, mostra qualcosa che potrebbe essere rivelatore della metafora alla base del film.
Chi è dunque il mostro, il demone, il fantasma, la presenza diabolica (o come sceglierete di chiamarla) che manipola le vite dei protagonisti e di quanti girano loro intorno? Che ha scelto una vecchia casa in mezzo ai boschi come teatro, e sembra suggerire più che causare diversi snodi alla vicenda? E perché tutto sembra ruotare intorno al personaggio di un tossico, di un fattone che non vuol saperne di interrompere la sua corsa verso l'autodistruzione? Siamo sicuri che sia soltanto un pretesto? Tra presenze di redneck criminali, nativi americani dai modi enigmatici, ambigui venditori porta a porta, sette religiose e scienziati che più pazzi non si può, “Resolution” sembra mischiare le carte di un gioco da tavolo e invitare chi guarda a trovare la soluzione del rompicapo. Anzi, la sua risoluzione.
Un esercizio di cinema essenziale che Benson e Moorhead continueranno in seguito con “The Endless”(film di cui sono autori, registi e anche interpreti), che non è un seguito di “Resolution”, ma che in qualche modo ne riprende alcuni temi. Un cinema indipendente che usa il genere horror per parlare di stili, di narrazione e rapporto con le storie che siamo abituati ad ascoltare. Con quello che vogliamo, ci aspettiamo, desideriamo davvero ascoltare, vedere, assistere.

Un cinema della suggestione, più che horror. Grande nella sua piccolezza formale, e a suo modo coraggioso.

mercoledì 6 marzo 2019

Captain Marvel: il nome (e nel nome) del Capitano



“Captain Marvel” è l'ultimo tassello del grande gioco cinematografico che dovrebbe vedere il suo punto d'arrivo in “Avengers: Endgame” (nomen omen), prima di una nuova (e a questo punto, direi, incerta) nuova fase. La quarta, nella quale molti fans sperano e proiettano (soprattutto nel fatidico numero) il ritorno in live action di un brand fumettistico finora al centro di letture insoddisfacenti.

Il film dedicato a Carol Danvers (questo il nome civile della protagonista) è a mio parere fortemente imparentato con il predecessore Ant-Man (il primo), e come questo si presenta al pubblico con la forma di una grande sintesi narrativa. Un gioco di specchi e rimandi (forse anche troppi) che cerca da un lato di accontentare i conoscitori della materia, da un altro di confezionare un prodotto commerciale che possa piacere un po' a tutti.

Ci riesce? Ni.

Già a proposito di “Ant-Man” la Marvel-Disney aveva scelto di puntare sull'identità più contemporanea del personaggio, e cioè Scott Lang, il ladro dal cuore d'oro, piuttosto che riscaldare la storia del brillante scienziato che sperimenta la sua scoperta su se stesso (Henry Pym). L'introduzione sullo schermo dell'Ant-Man originale con il ruolo di maturo mentore ha funzionato discretamente, e la vicenda del frastornato avventuriero catapultato in un complotto da fantascienza risultava più vendibile facendo sì che la sceneggiatura del film si scrivesse praticamente da sola, sfornando un prodotto fantastico per famiglie senza particolari lodi, ma più che digeribile.

In “Captain Marvel” l'intento è simile, ma la materia è ancora più complessa. Anche in questo caso il personaggio storico (l'alieno Mar-Vell, inviato come spia dall'impero Kree sulla terra per operare in segreto) aveva vissuto un arco narrativo lunghissimo e glorioso. Le sue gesta erano connesse a parecchi snodi delle saghe cosmico marvelliane. Era stato (Udite! Udite!) uno dei principali avversari dell'oggi popolarissimo Thanos, e alla fine aveva concluso la sua corsa morendo, a sorpresa, non tanto da eroe... quanto da essere umano, stroncato da una malattia che affligge tante persone comuni. Un'eredità narrativa pesante, quindi, per Carol, già Miss Marvel (controparte femminile dello storico eroe maschio), poi evoluta in Warbird (il nome Miss era e resta ridicolo) e poi in Binary, la stella umana, sulle pagine degli X-Men. Se Scott Lang, come Ant-Man, s'era già guadagnato una discreta fama nei fumetti, la lunga e contorta carriera di Carol non aveva aiutato a farla emergere presso il pubblico più vasto. Troppe identità, troppe ripartenze, fino alla scelta di assumere (appena nel 2012) il nome di battaglia dell'eroe al cui fianco si era battuta, esordendo nei lontani anni 60. Un codice palinsesto di personaggi, di riscritture, di caratterizzazioni e di diverse origini che si sovrapponevano.

Ma il problema non è neppure questo. Il film diretto da Anna Boden e Ryan Fleck è un giocattolone che presenta un gioco di specchi, in qualche caso barando anche un po'. E per quanto si sforzi (a tratti riuscendoci pure) di essere simpatico, presenta ormai la pesantezza di un ingranaggio di cui conosciamo troppo bene il funzionamento per sorprenderci davvero. Inoltre, cerca di reinventare la storia di origini affidandosi a un sistema di flashback, ma soprattutto di falsi indizi che potrebbero essere il punto di forza del film, ma nello stesso tempo rischiano di essere il suo tallone d'Achille.

“Captain Marvel” è un film fatto di nomi. Nomi che non vengono pronunciati (o mi sono distratto io?) se non quando il racconto è avanzato. Di nomi di battaglia che non esistono se non nel titolo della pellicola (nessuno pronuncerà frasi come «Io sono...» ed è meglio così). E di trabocchetti narrativi nascosti in bella vista, che se chiamati per nome, appunto, sarebbero rivelatori sin dall'inizio per i “veri credenti” (espressione coniata da Stan Lee e nel film apertamente citata, in quello che è il primo dei camei postumi del grande architetto della Marvel). L'apparizione inattesa (io non sapevo neanche che sarebbe stata presente nel film) di Annette Bening in un doppio ruolo, fa parte di questo gioco di specchi ed è uno degli elementi che probabilmente farà più discutere i fans. Quasi sicuramente per le ragioni sbagliate.

Il problema vero di questo “Captain Marvel” è il tentativo di riassumere tanto lavorando sottotraccia, con il risultato che il film decolla davvero solo quando il racconto ha cominciato a scoprire le sue carte, dando una sensazione di cesura forse troppo netta. Come se si stesse assistendo a due film in uno. La prima parte risulta confusa e soffre di una schematicità che rischia di far sembrare il primo tempo l'episodio pilota di una serie televisiva arrivata fuori tempo massimo. La seconda parte si giova della spinta avuta dai vari twist, ma la ricetta Marvel è tiranna, e la formula matematica che ormai sappiamo a memoria non regalerà nessuna ulteriore sorpresa. La protagonista è carismatica, ma il suo carattere è più descritto che realmente mostrato, e vederla trasfigurarsi nelle sue varie incarnazioni fumettistiche non basta a soddisfare lo spettatore Marvel della primissima ora. Non quelli più stanchi, almeno, e ormai assetati di un linguaggio cinematografico che sia sempre più cinema e meno fumetto, a prescindere dai tributi alle letture passate. E i buchi di trama, le trovate cacciate dentro a forza (una su tutte bella ingombrante) si accettano più per compiacenza con la festa cartoonistica in corso che per suggestione.


Per questo, “Captain Marvel”, pur essendo nel complesso un film gradevole, risulta solo un trait d'union con l'imminente “Avengers: Endgame”, che completerà il puzzle già in parte composto da “Infinity War”. Un interludio, un riscaldamento, in attesa dell'atto finale dello spettacolo generale. Per questo i film Marvel (il termine cinecomic è troppo generico) vanno considerati film molto particolari, e non sono (non possono essere) omologabili con altro cinema. Non si tratta nemmeno di etichettare cinema vero e cinema finto. Si tratta di generi, di regole di gioco e di attitudine a un tipo di intrattenimento (assolutamente non obbligatorio) sotto certi aspetti inedito. Per questo, concluso il grande giocattolo composto da pezzi che si incastrano (più o meno) bene tra loro, e l'arazzo cinematografico che rilegge un media diverso, si potrà fare un passo indietro e contemplare l'opera nel suo insieme. E allora, a mente fredda, magari a distanza di anni e lontani da inutili tifoserie da stadio, dire in che misura lo spettacolo multiplo ha funzionato. I film della fase successiva avranno bisogno di parecchia inventiva e di una discreta capacità di osare, o essere benevoli con questo trend commerciale diventerà davvero difficile.

Se lo consiglio? Diciamo che non lo sconsiglio. E lo faccio per partito preso. Una blogger cinefila che stimo molto ha recensito positivamente “Aquaman” definendo il film di James Wan uno dei più stupidi che abbia mai visto, ma affermando che l'ha tanto divertita proprio grazie alla regia kitsch dello stesso Wan. Personalmente, non ho condivido il suo divertimento, ma riconosco che i motivi per apprezzare un film possono essere vari. E soprattutto nell'ambito dei film “sciocchi” non è neppure il caso di starci a pensare troppo. L'importante è non dimostrarsi più sciocchi dei film facendo partire inutili zuffe o gare di competenze che non esistono. E “Captain Marvel” nel suo marasma, nella sua prevedibilità, un paio di cosette le azzecca. Almeno per i fans Marvel di vecchia data. Per il pubblico generalista, onestamente, non saprei.

P. S. Stavolta nel cinema non è successo niente di insopportabile, in confronto ho affrontato visioni davvero apocalittiche. Rimane il fatto triste che il pubblico in sala si dimostra puntualmente di una maleducazione stratosferica. E il tormentone «Maledettiiiiiiii!» urlato, ha ormai rotto tre quarti di minchia.

lunedì 11 febbraio 2019

Amarcord: L'Isola degli Uomini Pesce (qualcuno ha detto Trench?)

"L'isola degli Uomini Pesce" è un film horror/fantasy italiano del 1978 diretto da Sergio Martino e interpretato, oltre che da Claudio Cassinelli, dal rottamato in terra italica Joseph Cotten, ormai alla fine della carriera, e da Barbara Bach, ancora fresca del successo di pubblico di "La spia che mi amava".
La pellicola è palesemente girata sull'onda del coevo (e fallimentare) "L'isola del dottor Moreau" di Don Taylor, remake poco ispirato del film del 1962 "Island of Lost Souls" diretto da Erle K. Kenton. Qui abbiamo una nave che sta trasportando dei detenuti alla Cayenna che affonda nei pressi di un'isola che non appare sulle mappe. I naufraghi sopravvissuti scoprono un misterioso maneggio che coinvolge un genetista scomparso, un avventuriero cacciatore di tesori nascosti, una macumba che pratica il voodoo, un'affascinante dark lady... e uomini pesce in stile "Il mostro della laguna nera" di Jack Arnold, ma forniti di affilatissimi artigli.
Sorpresa! I pesciuomini sono quel che resta della perduta civiltà di Atlantide mutati e coinvolti loro malgrado in un complotto volto a recuperare i tesori della leggendaria città sprofondata. Niente di nuovo sotto il sole. Praticamente sotto nessun punto di vista. Ma noi ragazzi degli anni 70 ce lo bevemmo al cinema senza troppi perché. Succede. Succedeva. Succede ancora.
Una cosa è sicura. Quentin Tarantino si farebbe la pipì addosso.

domenica 20 gennaio 2019

Suspiria di Luca Guadagnino (Spoiler)



"Suspiria” di Luca Guadagnino è un film discretamente discusso, ma che evidentemente ha suscitato la curiosità di pochi. Non si capirebbe, altrimenti, la pessima distribuzione nelle sale italiane e i risultati poco confortanti al botteghino. Ci sarebbe da dire “peccato”. E non perché siamo davanti a un film imprescindibile, ma perché l'esperimento si dimostra interessante e stimola una riflessione trasversale sul cinema e la narrazione in generale.
Per parlarne davvero sarà necessario qualche spoiler, e questo dovrebbe già segnalare quanto sia ampia la distanza tra il lavoro di Guadagnino e l'opera di Dario Argento cui si ispira. Ma per iniziare è opportuno spendere prima qualche parola sul concetto di remake, termine che nel corso dei decenni è andato cambiando significato, diventando sempre più vago e a volte ingannevole.

La pratica del remake è in realtà vecchia quanto il cinema stesso. Hollywood ha sfornato un'infinità di riletture in cui registi e star di grido gareggiavano con le precedenti versioni per carisma e allestimento. Per molto tempo, per remake si è intesa una nuova narrazione della medesima storia, magari aggiornata ai propri tempi, ma portando in scena gli stessi personaggi e seguendo dinamiche molto simili al prototipo. Nella maggioranza dei casi, rigirando anche le scene salienti del film precedente, solo fornendone una diversa interpretazione dal punto di vista tecnico e registico. Un differente approccio, insomma, a una narrazione in cui si rimaneva comunque discretamente fedeli al soggetto originale se non alla sceneggiatura. Nel tempo, la pratica del remake si è andata gradualmente allontanando da questa ricetta per esplorare altri stili di rinarrazione. In molti casi a rimanere riconoscibile è solo lo spunto, mentre i personaggi e la trama prendono strade indipendenti. Negli ultimi decenni, con qualche eccezione, abbiamo visto arrivare sullo schermo sempre meno esempi della prima tipologia di rifacimenti e prendere piede la pratica della più libera variazione sul tema.


Sarebbe questo il caso del “Suspiria” di Luca Guadagnino? Beh, sì e no.

Consideriamo, per cominciare, che rifare un film di Dario Argento è praticamente impossibile oltre che particolarmente inutile. E questo non per una presunta sacralità dell'opera originale, ma per la natura stessa del cinema argentiano. Un cinema dove nella maggior parte dei casi la sceneggiatura è esile ai limiti dell'inconsistenza, dove lo spettacolo mira a sorprendere con invenzioni visive che realizzano scenari da incubo suggestivi ma spesso privi di vera logica narrativa. La violenza coreografica e la sua estetica, al servizio di emozioni non razionali, non potrebbe essere rifilmata se non tentando (a che pro?) di intraprendere una sfida a colpi di virtuosismi per immagini che produrrebe inevitabilmente una copia sbiadita di qualcosa che è ormai storia.
Luca Guadagnino non fa questo. E se di remake si tratta, o di variazione sul tema, il suo esperimento cammina su strade ben diverse. E' stato detto, tra le tante cose, che l'uso del titolo del film di Argento sia arbitrario. Non sono proprio d'accordo. Le parentele esistono, per quanto labili, e non si possono negare. Esiste la scuola di danza, trasportata da Friburgo alla Berlino ancora divisa in due dal muro ancora in piedi negli anni 70. Esiste Susy (anche se nel film di Guadagnino si scrive Susie), la nuova studentessa americana giunta a scoprire i misteri dell'accademia. Esiste la congrega di streghe che ha nella scuola di danza il suo quartier generale. Esiste persino una studentessa che mentre Susie-Susy arriva, fugge dalla scuola per andare incontro a un destino funesto. Esiste una compagna di stanza che porterà avanti una propria indagine pagandone il prezzo...

E poco altro. Sì, ma direi che è sufficiente. Uno spunto e delle icone che bastano a fare del film di Guadagnino una personale fantasia che prende le mosse da un'opera precedente, ma per dire altro. O meglio, per portare a casa uno spettacolo cinematografico di tipo diverso.


Horror sì? Horror no? Siamo sicuri che questa domanda oggi abbia ancora senso? La maggior parte degli horror più riusciti, ultimamente, sono quelli che riescono a travalicare il genere e a ibridarne più d'uno. In “Suspiria” di Guadagnino abbiamo del sangue e alcuni lampi di orrore, ma più concettuali che prettamente visivi come nel prototipo di Dario Argento. Inoltre, qui la storia, per quanto criptica e piena di sottintesi forse non del tutto centrati, c'è e si fa sentire. Come si fanno sentire e hanno corpo e anima le streghe, che nel film di Argento svolgevano solo un ruolo di McGuffin volto a portare in scena i loro spettacolari delitti. Qui c'è la danza, molto più presente e tematica che nel “Suspiria” del 77. Una danza che diventa anche strumento di stregoneria, usata per dare la morte.



In sostanza, potremmo dire che forse Guadagnino suggerisce questo. Ecco la trama che mi sarebbe piaciuto scoprire dentro l'ossatura del film di Argento. Film, ricordiamo, che per quanto cult, per quanto celebrato (successivamente, ai suoi esordi la critica lo distrusse), è un'opera che vive di puro virtuosismo formale, laddove il film di Guadagnino punta su simboli, recitazione, e trama. Una trama non nuovissima, per carità. Anzi, già vista e riconoscibile come palinsesto in mille altre occasioni. Le lotte intestine a una congrega di streghe che si contendono la leadership e l'identificazione di una prescelta è discretamente sfruttata. Al punto che qualche parentela potremmo individuarla anche nella terza stagione della serie TV “American Horror Story: Coven” o nel film “The Craft” (in italiano “Giovani streghe”). Anche lì (SPOILER) a emergere trionfante e a rivelare il crisma di strega suprema è il personaggio presentato inizialmente come il più innocente. Nel caso di “Suspiria” è Susie, che se nel film di Dario Argento è l'artefice della sconfitta della strega Markos, qui si dimostra essere la vera incarnazione dell'antica parca venuta a rivendicare il titolo che le spetta di diritto. Ma anche qui, come spesso succede con le storie, a contare non sono tanto i fatti quanto la forma che li esprime. E Guadagnino confeziona un film forse non perfetto, ma a suo modo riuscito, grazie anche alle ottime performance (su tutti una camaleontica Tilda Swinton impegnata in ben tre ruoli) e ai sottotesti (confusi ma intriganti) che echeggiano la stagione del terrorismo tedesco di estrema sinistra. Alle azioni della Rote Armee Fraktion, si contrappone infatti l'intellighenzia (altrettanto truce, ma più occulta e meditata) delle streghe, a loro modo portatrici di un pensiero anarchico, svincolato dai concetti di bene e di male come li conosciamo, e rivolti a una visione tutta femminile dell'esistenza. Più che perverse, le streghe di Guadagnino sono amorali, e sfidano il sistema (e il potere maschile) a modo loro, pur scadendo nell'eterna lotta per la supremazia, Eva contro Eva, vero punto debole della congrega che sarà (forse) risolto dalla rivelazione della vera prescelta. E' la rappresentazione di un potere antico che potrebbe fare tantissimo, ma che in mani umane cede inevitabilmente al peccato originale dell'individualismo. Una deriva che solo la natura stessa, unico vero potere incrollabile, potrà arrestare.


A questo punto, anche la domanda “remake o no?” perde importanza. Luca Gudagnino ha attinto alle suggestioni di un film che evidentemente lo ha colpito, ispirandogli la sua storia e la sua rappresentazione filmica del concetto di strega. Le storie e il modo di raccontarle, al cinema e in altri media, funzionano spesso come un virus. Si attaccano alla fantasia, e spesso mutano generando qualcosa di simile e nello stesso tempo peculiare. Non è male questo. Storie e immaginari si parlano, fanno l'amore e a volte generano pure dei figli. Anche dei nipoti se è per questo. E mi piace ricordare che Dakota Johnson, riscattata in questo film dal ruolo rivestito nella serie cinematografica di “50 sfumature”, è la figlia dell'attrice Melanie Griffith, e quindi la nipote di Tippy Hedren, indimenticabile protagonista de “Gli Uccelli” di Alfred Hitchcock.
 

Per concludere, fare paragoni tra i due film non sarebbe sano. Non parliamo solo di due diversi registi e di due pellicole dallo stesso titolo, ma con intenti diversi. Parliamo anche di tempi diversi. Di concezioni diverse non soltanto dell'horror, ma del cinema stesso. Ma di cinema si tratta. Sempre e comunque. E per una volta l'intento è una sperimentazione artistica, una personale rivisitazione di una suggestione storica, e non un progetto meramente commerciale.