"Suspiria” di Luca Guadagnino è un film discusso, ma che evidentemente ha suscitato la curiosità di pochi. Non si capirebbe, altrimenti, la pessima distribuzione nelle sale italiane e i risultati poco confortanti al botteghino. Ci sarebbe da dire “peccato”. E non perché siamo davanti a un film imprescindibile, ma perché l'esperimento si dimostra interessante e stimola una riflessione trasversale sul cinema e la narrazione in generale.
Per parlarne davvero sarà necessario qualche spoiler, e questo dovrebbe già segnalare quanto sia ampia la distanza tra il lavoro di Guadagnino e l'opera di Dario Argento cui si ispira. Ma per iniziare è opportuno spendere prima qualche parola sul concetto di remake, termine che nel corso dei decenni è andato cambiando significato, diventando sempre più vago e a volte ingannevole.
La
pratica del remake è in realtà vecchia quanto il cinema stesso.
Hollywood ha sfornato un'infinità di riletture in cui registi e star
di grido gareggiavano con le precedenti versioni per carisma e
allestimento. Per molto tempo, per remake si è intesa una nuova
narrazione della medesima storia, magari aggiornata ai propri tempi,
ma portando in scena gli stessi personaggi e seguendo dinamiche molto
simili al prototipo. Nella maggioranza dei casi, rigirando anche le
scene salienti del film precedente, solo fornendone una diversa
interpretazione dal punto di vista tecnico e registico. Un differente
approccio, insomma, a una narrazione in cui si rimaneva comunque
discretamente fedeli al soggetto originale se non alla sceneggiatura.
Nel tempo, la pratica del remake si è andata gradualmente
allontanando da questa ricetta per esplorare altri stili di
rinarrazione. In molti casi a rimanere riconoscibile è solo lo
spunto, mentre i personaggi e la trama prendono strade indipendenti.
Negli ultimi decenni, con qualche eccezione, abbiamo visto arrivare
sullo schermo sempre meno esempi della prima tipologia di rifacimenti
e prendere piede la pratica della più libera variazione sul tema.
Sarebbe
questo il caso del “Suspiria” di Luca Guadagnino? Beh, sì e no.
E
poco altro. Sì, ma direi che è sufficiente. Uno spunto e delle
icone che bastano a fare del film di Guadagnino una personale
fantasia che prende le mosse da un'opera precedente, ma per dire
altro. O meglio, per portare a casa uno spettacolo cinematografico di
tipo diverso.
Horror
sì? Horror no? Siamo sicuri che questa domanda oggi abbia ancora
senso? La maggior parte degli horror più riusciti, ultimamente, sono
quelli che riescono a travalicare il genere e a ibridarne più d'uno.
In “Suspiria” di Guadagnino abbiamo del sangue e alcuni lampi di
orrore, ma più concettuali che prettamente visivi come nel prototipo
di Dario Argento. Inoltre, qui la storia, per quanto criptica e piena
di sottintesi forse non del tutto centrati, c'è e si fa sentire.
Come si fanno sentire e hanno corpo e anima le streghe, che nel film
di Argento svolgevano solo un ruolo di McGuffin volto a portare in
scena i loro spettacolari delitti. Qui c'è la danza, molto più
presente e tematica che nel “Suspiria” del 77. Una danza che
diventa anche strumento di stregoneria, usata per dare la morte.
In
sostanza, potremmo dire che forse Guadagnino suggerisce questo. Ecco
la trama che mi sarebbe piaciuto scoprire dentro l'ossatura del film
di Argento. Film, ricordiamo, che per quanto cult, per quanto
celebrato,
è un'opera che vive di puro virtuosismo formale, laddove il film di
Guadagnino punta su simboli, recitazione, e trama. Una trama non
nuovissima, per carità. Anzi, già vista e riconoscibile come
palinsesto in mille altre occasioni. Le lotte intestine a una
congrega di streghe che si contendono la leadership e
l'identificazione di una prescelta è discretamente sfruttata. Al
punto che qualche parentela potremmo individuarla anche nella terza
stagione della serie TV “American Horror Story: Coven” o nel film
“The Craft” (in italiano “Giovani streghe”). Anche lì
(SPOILER) a emergere trionfante e a rivelare il crisma di strega
suprema è il personaggio presentato inizialmente come il più
innocente. Nel caso di “Suspiria” è Susie, che se nel film di
Dario Argento è l'artefice della sconfitta della strega Markos, qui
si dimostra essere la vera incarnazione dell'antica parca venuta a
rivendicare il titolo che le spetta di diritto. Ma anche qui, come
spesso succede con le storie, a contare non sono tanto i fatti quanto
la forma che li esprime. E Guadagnino confeziona un film forse non
perfetto, ma a suo modo riuscito, grazie anche alle ottime
performance (su tutti una camaleontica Tilda Swinton impegnata in ben
tre ruoli) e ai sottotesti (confusi ma intriganti) che echeggiano la
stagione del terrorismo tedesco di estrema sinistra. Alle azioni
della Rote Armee Fraktion, si contrappone infatti l'intellighenzia
(altrettanto truce, ma più occulta e meditata) delle streghe, a loro
modo portatrici di un pensiero anarchico, svincolato dai concetti di
bene e di male come li conosciamo, e rivolti a una visione tutta
femminile dell'esistenza. Più che perverse, le streghe di Guadagnino
sono amorali, e sfidano il sistema (e il potere maschile) a modo
loro, pur scadendo nell'eterna lotta per la supremazia, Eva contro
Eva, vero punto debole della congrega che sarà (forse) risolto dalla
rivelazione della vera prescelta. E' la rappresentazione di un potere
antico che potrebbe fare tantissimo, ma che in mani umane cede
inevitabilmente al peccato originale dell'individualismo. Una deriva
che solo la natura stessa, unico vero potere incrollabile, potrà
arrestare.
A
questo punto, anche la domanda “remake o no?” perde importanza.
Luca Gudagnino ha attinto alle suggestioni di un film che
evidentemente lo ha colpito, ispirandogli la sua storia e la sua
rappresentazione filmica del concetto di strega. Le storie e il modo
di raccontarle, al cinema e in altri media, funzionano spesso come un
virus. Si attaccano alla fantasia, e spesso mutano generando qualcosa
di simile e nello stesso tempo peculiare. Non è male questo. Storie
e immaginari si parlano, fanno l'amore e a volte generano pure dei
figli. Anche dei nipoti se è per questo. E mi piace ricordare che
Dakota Johnson, riscattata in questo film dal ruolo rivestito nella
serie cinematografica di “50 sfumature”, è la figlia
dell'attrice Melanie Griffith, e quindi la nipote di Tippy Hedren,
indimenticabile protagonista de “Gli Uccelli” di Alfred
Hitchcock.
Per
concludere, fare paragoni tra i due film non sarebbe sano. Non
parliamo solo di due diversi registi e di due pellicole dallo stesso
titolo, ma con intenti diversi. Parliamo anche di tempi diversi. Di
concezioni diverse non soltanto dell'horror, ma del cinema stesso. Ma
di cinema si tratta. Sempre e comunque. E per una volta l'intento è
una sperimentazione artistica, una personale rivisitazione di una
suggestione storica, e non un progetto meramente commerciale.
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