lunedì 28 agosto 2017

Biblioteca autogestita: i lavori procedono e intanto si cresce

Un sincero ringraziamento ai ragazzi che ieri, in mezzo a tanti altri libri e fumetti che pian piano sveleremo e catalogheremo, hanno donato alla Biblioteca Salvatore Rizzuto Adelfio dei pezzi importanti della storia del fumetto italiano. Andrea Pazienza, grande commentatore degli anni 80 e rappresentante di un capitolo importante per la nona arte (e tutta l'arte in generale). Davvero grazie. Potrete leggerli gratuitamente presso la nostra biblioteca, attualmente in fase di riorganizzazione, con la riapertura al pubblico il prossimo autunno. Stay tuned. Ci sarà sempre un Altroquando.
Per informarsi su Andrea Pazienza, segnalo gli interessanti video di Carlo Procaccini.

domenica 27 agosto 2017

Un coccodrillo per Tobe Hooper



Un coccodrillo.
Sì. Un coccodrillo per Tobe Hooper.

Un pizzico di humor nero per salutare uno dei padri dell'horror moderno che ci ha appena lasciato.
La battuta è contorta. Necessita di un'infarinatura di gergo giornalistico e di conoscenza della filmografia del regista per essere compresa. Coccodrillo. Come gli articoli che si scrivono per omaggiare qualcuno che muore, spesso una celebrità. Un'etichetta senza mezze misure, per indicare qualcosa che si ritiene “vada fatto”, ma che nello stesso tempo non riesce a sottrarsi da sospetti di cinismo. Il tutto riferito, ovviamente, alle proverbiali lacrime del grande rettile.

Coccodrillo. Come il mostro (secondario?) di “Eaten Alive” (“Quel motel vicino alla palude”, in Italia) suo secondo film (1977), che in realtà sarebbe il terzo, ma è il secondo a restare nella memoria del pubblico dopo il successo di “Non aprite quella porta” e il flop della sua prima incursione nel dramma indipendente con “Eggshells” del 1969. Eaten Alive” si ispirava liberamente alle imprese del serial killer Joe Ball, in azione nell'America degli anni trenta. Si racconta che Ball si sbarazzasse dei corpi delle sue vittime dandole in pasto a degli alligatori. Nel film, il protagonista nutre un famelico coccodrillo con il quale ha un rapporto quasi simbiotico, secondo le allegorie care al regista.


Ma Tobe Hooper, che pure diresse diversi altri film (sebbene con meno fortuna e mano meno ispirata, anche per via delle ingerenze produttive che non gli diedero mai tregua) sarà ricordato (e merita di esserlo) soprattutto per il rivoluzionario “Non aprite quella porta” (titolo italiano di “The Texas Chainsaw Massacre”) del 1974. Perché ricordarlo? Perché semplicemente ha fatto la storia del cinema horror, contribuendo a modificarne le regole come “La notte dei morti viventi” di George Romero (altro maestro recentemente scomparso... anno gramo per il cinema del perturbante). E come il film di Romero ha infuso nella sua fiaba nerissima un sottotesto politico di grande impatto. Non è un caso che la recente elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti ha spinto qualcuno a commentare che l'America, e quindi il suo corpo elettorale, non è solo quella che vediamo nelle patinate commedie hollywoodiane. L'America è fatta anche (se non soprattutto) di ampie province rurali. Veri e propri mondi separati, dove ancora oggi è possibile imbattersi in zone fuori dal tempo e forme preoccupanti di arretratezza. La famiglia cannibale di “Non aprite quella porta” rappresenta in modo esemplare, per quanto estremizzato, il proletariato campestre statunitense, incattivito e degenerato dal disagio e dallo strapotere delle multinazionali che lo riducono a uno stato di animalità. Costretto a vivere ai margini del mondo civilizzato, sopravvivendo come un predatore primordiale che finisce col rivoltarsi contro i suoi simili e trasformare in alimento chi non riconosce come parte del suo gruppo ristretto. I suppellettili della casa realizzati con ossa umane, il laboratorio da macellaio, il gancio a cui la giovane vittima viene appesa con metodica, ottusa diligenza, sono metafore disturbanti che non si dimenticano più. Con il film di Tobe Hooper, gli Snopes raccontati da William Faulkner incontravano l'horror, e il cocktail aveva un sapore amarissimo, ma eccitante.


Per il 1974 (ma ancora oggi) “Non aprite quella porta” era un film davvero sconvolgente. Seminale per quello che sarebbe diventato il sottogenere horror definito “slasher”, insieme con il meraviglioso “Halloween” di John Carpenter, di cui rappresenta l'altro lato della medaglia. Quello più sporco, laido e rumoroso. Non è possibile omaggiare Hooper senza ricordare anche l'icona cinematografica di Leatherface, personaggio chiave di “The Texas Chainsaw Massacre”. Un gigante mentalmente ritardato, probabilmente sfigurato (nel film originale il suo volto non viene mai mostrato), che cela i suoi lineamenti sotto grottesche maschere di pelle umana.

E poi c'è la motosega.

E' vero. La motosega (almeno così sembra) fu usata come arma per la prima volta nel film di Wes Craven “L'ultima casa a sinistra”, ma è con Leatherface e “Non aprite quella porta” che è diventata un feticcio horror fondamentale. Più per l'ossessionante rumore del suo motorino che per gli scempi compiuti dalla lama. Quel rumore che già da solo comunica una disturbante senzazione di follia, di ossessione, che fa sentire lo spettatore assediato e gli fa salire le viscere su per la gola.

Una nota amara consiste, per chi scrive, nel ricordo dell'inutile remake di Marcus Nispel del 2003. Un remake, volendo non tra i più spregevoli, ma che tradiva completamente lo spirito dell'opera originale, facendone un horror patinato e convenzionale fino al midollo. Rammento la conversazione avuta riguardo la pellicola di Nispel con altri spettatori più giovani, e gli insensati confronti che emersero quando mostrai loro il film culto di Tobe Hooper.
Nella loro percezione, il film del '74 sprecava tempo e potenziale, eliminando troppo velocemente un quantità di personaggi per poi concentrarsi sull'odissea di un'unica protagonista. A loro parere, Hooper avrebbe dovuto centellinare gli omicidi lungo tutto il film, e non puntare il riflettore su un soggetto specifico, in quanto il risultato – per loro – era la noia. Rischiai di sentirmi male.


Quando si dice che il trend commerciale diseduca all'arte. E stavo assistendo a uno di quei casi. La sostanza era che i giovani spettatori erano ormai viziati da un canone dell'horror slasher pensato in termini di catena di montaggio, mentre il film di Hooper... per quanto antenato dello slasher... non era propriamente uno slasher. Non solo, almeno. E l'inferno vissuto dall'attrice Marilyn Burns, un ruolo in cui più che parlare urlava disperatamente, sottoposta a sevizie fisiche e psicologiche (vogliamo parlare dell'insopportabile, lunga scena del pranzo?) reappresentava l'apice di uno dei film più spaventosi della storia. Non aprite quella porta” del 1974 è un film con una personalità fortissima, e il remake degli anni 2000 non era che la banalizzazione, appiattita su uno standard ormai trito, di un classico che era stato a suo modo un pioniere.

A motoseghe e coccodrilli più o meno domestici, sarebbero seguiti altri film. Raramente all'altezza dei precedenti, soprattutto per i limiti imposti a Hooper dalle produzioni che nel tempo lo avrebbero sempre più ostracizzato, praticamente fino a farlo scomparire dalle scene. Non parlerò di “Poltergeist”, altra pellicola nota firmata da Hooper, se non per sottolineare quanto possano essere evidenti le ingerenze produttive nella realizzazione di un film che porta la firma di una personalità dal potenziale sovversivo qual era quella del regista di “The Texas Chainsaw Massacre”. La mano di Steven Spielberg e la sua cifra stilistica traspaiono da ogni fotogramma, e paradossalmente potremmo dire che “Poltergeist” sia un titolo riconducibile più al regista di “E.T.” che al discorso iniziato da Hooper, che possibilmente avrebbe realizzato una pellicola più malata e meno adatta a un pubblico generalista.

Un peccato, quindi. Peccato per quello che avrebbe potuto essere e a causa delle dinamiche hollywoodiane non è stato. Peccato perché la storia è finita qui. Peccato, come ogni volta che sentiamo la necessità di scrivere un coccodrillo.

Già! Il coccodrillo.

Non lo sentite? Che strano ticchettio!
E' il primo allarme, poi dopo arrivo io.
Non voglio alcun vantaggio.
Ma non è per coraggio.
E' perché sono il più cattivo.
E mi diverte il fatto di inseguirvi.


Grazie per gli incubi, Tobe Hooper. Quelli intelligenti.
Quelli che ti fanno svegliare.



sabato 26 agosto 2017

Fumetti in soffitta: Il Maestro, di Mino Milani e Aldo Di Gennaro


Ecco una grossa lacuna nel mio lavoro (video) di riassumere la storia dei personaggi magici dei fumetti. Beh, andavo per linee di massima e il materiale era già tanto. Eppure oggi mi chiedo perché ho mancato di includere "Il Maestro", fumetto di Mino Milani e Aldo Di Gennaro che esordì sullo storico "Corriere dei Ragazzi" nel 1974 (anno in cui lo lessi anch'io... ebbene sì, ero già in circolazione anche se piccolino). "Il Maestro" come fumetto aveva tutte le caratteristiche delle serie del suo tempo che venivano raccolte nel popolare contenitore. E cioè poche pagine, trame concentrate ricche di didascalie, e una storyline semplice che si dipanava come filo conduttore, generando tensione e attesa da un episodio (più o meno conclusivo) all'altro. Il Maestro era un occultista di cui niente era dato sapere. La sua origine non fu mai rivelata, e probabilmente neppure l'effettiva portata dei suoi poteri, che spaziavano in tutto lo scibile della tradizione magica. Una magia potente, ma rappresentata con taglio minimalista, silenzioso, senza bagliori spettacolari o fenomeni appariscenti. Cosa che rendeva il Maestro e i suoi sortilegi forse ancora più inquietante. La trama principale era il duello con Jaga, ex assistente di un egittologo che aveva scoperto un misterioso manufatto chiamato con il nome esotico e un po' buffo di Scarabeo di Ara Tutna. 

Lo "scarabeo", era in realtà un dispositivo di origine aliena, trovato nell'antichità sul corpo di un visitatore extraterrestre morente, e capace di materializzare i pensieri e desideri di chi lo possedeva. Ricordo con emozione l'episodio in cui Jaga ricattava il mondo facendo cadere una pioggia torrenziale sul deserto egiziano, minacciando di sommergerlo. Le vignette d'apertura di quella storia in cui improvvisamente sulla sabbia rovente cadeva una goccia d'acqua. Poi un'altra, un'altra ancora e quindi iniziava il diluvio.
Difficile confrontarsi con qualcuno che può rendere reali le proprie fantasie (spunto che Milani e Di Gennaro suggerivano in modo abbastanza pauroso). Ma il Maestro era l'eroe giusto per questa serie di avventure brevi, in cui la risoluzione di ogni minaccia portava sempre più vicini all'incontro effettivo (e quindi allo scontro finale) tra il protagonista e la malefica Jaga, che per la maggior parte del tempo si sfidavano da lontano, per mezzo di telepatia, psicometria e anche l'aiuto (per Jaga) di ordinari sicari e (per il Maestro) della sua gatta mistica Nardy e della poliziotta Velda Morris. Per il tempo, l'atmosfera era tutto. Levitare a pochi centimetri da terra per superare una trappola elettrica era un'impresa sufficiente a suggestionare noi lettori dell'epoca. Così come l'ipnosi (di quelle che basta che incroci lo sguardo e sei inguaiato) e la capacità di rintracciare cose e persone grazie a percezioni paranormali. Insomma, "Il Maestro" è una lacuna nel mio lavoro sui maghi dei fumetti. Soprattutto considerando quanto lo amai da ragazzo. 

Oggi, magari, verrebbe considerato troppo poco spettacolare. Ma a suo tempo, fu proprio quella magia semplice e minimale (quasi credibile se confrontata agli incantesimi del Doctor Strange) che mi conquistò. Va da sé che oggi sente tutto il peso dei suoi anni. Ma il lavoro di Milani e Di Gennaro (cui nel tempo lasciarono un'impronta anche altri disegnatori, tra cui un giovane Giancarlo Alessandrini) è semplicemente... storia. E conserva il fascino di un immaginario che fu, un modo di raccontare, prendere per mano i giovanissimi lettori e portarli in un mondo fantastico che riusciva a sembrare quotidiano.
Insomma, il Maestro continua a essere ancora oggi una ficata.
In anni recenti, Re Noir - Nona Arte ne ha ristampato il ciclo integrale in volume. Varrebbe la pena recuperarlo, sebbene i dialoghi possano apparire oggi alquanto polverosi. Un esempio? Una frase mormorata dal Maestro a Velda che mi rimase stampata nella memoria:
«Siete adorabile, mia cara. E forse un giorno vi chiederò di amarmi.»
Nella vignetta successiva, lei abbassava gli occhi sorridendo e "pensava": «GULP!»
Il mondo cambia. Ma senza la storia alle nostre spalle non andiamo da nessuna parte. E' questa la magia.






venerdì 25 agosto 2017

Quattro anni di immortalità: un pensiero a Salvatore Rizzuto Adelfio


25 Agosto 2013, quattro anni oggi.
Ciao, Salvatore. Il tuo Altroquando, con le tue idee, la tua volontà di condivisione della cultura e di sostegno alle realtà indipendenti, continuerà a esistere. Mutato, rigenerato, rinnovato. Ma cresciuto sulle tue radici. Senza quello, ogni memoria diverrebbe inutile.

giovedì 24 agosto 2017

Dylan – Dream of the Living Dead


C'è poco da fare. Sembra che Dylan Dog sia destinato a vivere più nei sogni e negli sforzi dei fans, con tutti i limiti del caso, che in una grossa produzione televisiva e cinematografica. Inutile continuare ad accanirsi contro il pessimo film statunitense con Brandon Routh. Quello semplicemente... non era Dylan Dog. Ancora meno di quanto Ben Affleck fosse Daredevil nel film del 2003 e in seguito Batman nel controverso “Batman v. Superman”, diventato ormai un vero e proprio simbolo dello snaturamento possibile nel passaggio dalla carta allo schermo.

Ricordiamo anche che una trasposizione “ufficiale” risente di una serie di paletti legali. Le norme sul diritto d'autore variano da paese a paese, e in America la “maschera” di Groucho Marx non può essere riprodotta senza sborsare una cifra astronomica. Ragione per cui, il personaggio è stato rimosso dal film in cui Routh interpretava un “omonimo” del personaggio creato da Tiziano Sclavi.

Uno scoglio simile hanno dovuto affrontarlo (anzi, circumnavigarlo) la crew austriaca che ha prodotto “Dylan - Dream of the Living Dead”, un mediometraggio – anche questo senza scopo di lucro – che si propone come un possibile Pilot di una serie. E' stato infatti necessario modificare i nomi e alcune caratteristiche dei personaggi principali per non incorrere in spiacevoli incidenti legali. Ma le varianti non pesano (anzi, alcune sono pure divertenti e riescono a farsi accettare con simpatia), e l'atmosfera generale riesce a rendere con grande rispetto la “mitologia” dell'indagatore dell'incubo, anglosassone per scelta narrativa, ma di anima italianissima.



Dopo “La morte puttana” di Denis Frison, “Il trillo del diavolo” di Roberto D'Antona e “Vittima degli eventi” di Claudio Di Biagio e Luca Vecchi (cui si aggiungono tanti altri esempi amatoriali meno noti), ecco dunque questo ulteriore omaggio a un'icona fumettistica che, sebbene la sua vita editoriale stia patendo il fisiologico invecchiamento e gli immancabili lifting, resta e resterà stampato nell'immaginario di molti lettori di più generazioni. Dylan Dog, come recitava uno strillo pubblicitario della stessa casa Bonelli tempo fa, è ormai un mito moderno.

Il regista Kevin Kopacka e la sua squadra dimostrano una profonda conoscenza della materia che affrontano (Kopacka firma anche i divertenti dialoghi insieme con Alex Bakashev) e la scelta non si discosta (giustamente) da quella fatta dai fimaker italiani che si sono già immersi nel mondo di Dylan. E cioè dall'intento di creare una sintesi del suo universo, condensando in un tempo limitato personaggi, citazioni, scene iconiche, e il surrealismo che permette di rompere ogni logica e avventurarsi nel territorio della fantasia più sbrigliata. Insomma, il Dylan Dog più classico. Anche se qui è chiamato Dylan Dawn. Anche se Groucho (che non è Groucho) è un attore asiatico (ma in qualche modo riesce a essere Groucho lo stesso), Bloch è tutto sommato Bloch, e la Trelkovsky...

No, questo è meglio che lo scopriate da soli. Noi abbiamo trovato questa lettura fottutamente divertente e azzeccatissima.

I precedenti fanmovies avevano i loro pregi e difetti. Chi più chi meno. “La morte puttana” era un grosso sforzo produttivo per un'opera amatoriale, che riusciva a inanellare una quantità di citazioni, e sostanzialmente vedeva il suo neo più grande in una durata forse eccessiva. “Il Trillo del Diavolo” era un'opera più breve e diversa. Riuscita, ma che forse sacrificava troppo la componente ironica al gusto estetico. Un discorso a parte meriterebbe “Vittima degli eventi”, progetto che si proponeva (anche in quel caso) come pilota di una serie di cui, allo stato delle cose, non si ha notizia. Anche in quel caso il lavoro svolto puntava alla sintesi di icone e atmosfere, sebbene la trasferta romana di Dylan non riusciva a convincere del tutto.


“Dylan – Dream of the Living Dead” accentua la componente onirica e “meta” presente negli esperimenti precedenti. Potremmo anche dire che la esaspera (in senso positivo) e produce un piccolo incubo fumettistico di trenta minuti dove non conta quello che viene narrato, ma il modo in cui lo si narra. E' probabile che il trend contemporaneo dei cinecomics miliardari induca molti lettori di fumetti a storcere il naso davanti al budget contenuto e a certe soluzioni artigianali. Ma torniamo al punto di partenza. Il cinema, i professionisti, non hanno certo mostrato di saper fare di meglio. E per un vecchio lettore italiano calarsi, sia pure per poco, nelle classiche suggestioni ideate da Tiziano Sclavi, in un racconto composto da un intreccio di incubi, morti viventi e continue citazioni può essere molto piacevole. Gli attori se la cavano in modo più che diligente, i dialoghi sono ben confezionati. E... quel prologo? Pochi minuti che già contengono buona parte del mondo dylaniato. Dylan e Groucho, quelli “veri”, che non vediamo in faccia mentre si preparano a guardare questo inusuale prodotto austriaco che li riguarda, i loro commenti, le loro allusioni... colgono già tutto quel citare e la volontà di ibridare i codici che è stato alla base del successo del fumetto di Sclavi nell'ormai lontano 1986.

Forse qualche omaggio alla cultura italiana può risultare ingenua (ma neppure tanto, dopotutto). E non è affatto male sentirsi rappresentati dal ricorso a uno dei nostri massimi cantautori (ed evitiamo spoiler). Insomma, “Dylan – Dream of the Living Dead” è un mediometraggio amatoriale godibilissimo, visibile su Youtube con sottotitoli in italiano, che merita di vedere premiati i suoi sforzi. Se non altro con un sonoro applauso di incoraggiamento e l'augurio di fare sempre meglio. Non è detto che il destino di Dylan Dog sia in una serialità live action. Possibilmente è meglio accontentarsi di one shot che ne riassumono la poetica e le suggestioni. Parere personale, ovviamente. Poi è tutto da vedere.

Complimento, intanto, a Kevin Kopacka e ai suoi collaboratori per il gradevole lavoro svolto. Vedere appassionati così creativi con i loro poveri mezzi, scalda il cuore.
Vi pare poco, Giuda ballerino?!

martedì 22 agosto 2017

DC Comics - L'orologio dell'apocalisse rintocca (ancora l'ombra di Watchmen)

 


E alla fine ci stiamo arrivando. Doomsday Clock, il cui primo numero uscirà in America il prossimo Novembre, segnerà l'apice del Rinascimento (o Restaurazione?) in casa DC Comics. Evento che sarà segnato dall'interazione, annunciata da tempo, tra gli eroi della Distinta Concorrenza con l'universo di Watchmen. Per usare le parole dello sceneggiatore Geoff Johns, non si tratterà di un crossover, ma di una storia a sé stante che ridefinirà il cosmo DC. Il nocciolo della questione dovrebbe essere il confronto (anche simbolico) tra Superman e Dottor Manhattan. In sostanza, l'alieno che ha imparato a essere più umano degli umani e l'umano nativo che ha progressivamente perso la propria umanità diventando sempre più alieno e distante. Siamo in presenza di uno di quegli eventi fumettistici destinati a fare discutere. I semi piantati da Johns sembrano interessanti. E neppure scontati come può sembrare. C'è un tempo per ogni cosa. Watchmen rappresentò non tanto l'ingresso dei supereroi nell'età adulta, quanto un punto di arrivo. Il brusco risveglio da un sogno nell'incubo di una realtà dove non esistevano veri eroi e dove poteva non esserci un lieto fine. Da quel momento, i punti cardine del mercato sono andati cambiando. E l'opera di Alan Moore ha suscitato una lunga serie di varianti, omaggi, e presunte evoluzioni di un discorso che l'autore inglese considerava già concluso quando aveva messo la parola fine al suo lavoro.
Ormai da anni, il genere supereroistico soffre il peso di una pietanza mal digerita. Un trend scaturito da un'opera (Watchmen) che non aveva mai voluto essere una ricetta per sfornare altri piatti, ma solo un punto di vista, storico e culturale. Per quanto i prodotti derivati interessanti non siano mancati, l'elemento del dark coatto ha finito col diventare a sua volta macchietta, spesso affossando le tematiche che si proponeva di elevare. Quel che Geoff Johns sembra prepararsi a fare è portare in scena una sorta di cortocircuito estetico dal quale ripartire con le successive narrazioni. Non sappiamo ancora in che misura funzionerà, ma il progetto di sicuro incuriosisce. La maturità, del resto, non s'identifica necessariamente con la truculenza, con l'amarezza e una visione pessimista del futuro (per quanto i tempi che corrono non ci incoraggino esattamente nel senso opposto). Se Geoff Johns riuscirà nella sua opera di livellamento, operando scelte narrative intelligenti, potremmo trovarci davanti a un'opera metafumettistica particolare come non la vedevamo dai tempi della prima Crisis. Una lettura antropologica dei corsi e ricorsi storici applicati a un genere fumettistico. Ne sentiremo tante, nei prossimi mesi. Prima, durante e dopo l'uscita di questa ennesima miniserie. 
Chissà!






lunedì 7 agosto 2017

Where the Dead Go to Die

"Where the Dead Go to Die" (Dove i morti vanno a morire) è un film d'animazione del 2012 diretto da Jimmy Screamerclauz. Un film del quale dopo la visione è impossibile non discutere. Ma del quale è nello stesso tempo difficilissimo parlare, partendo dal fatto che di sicuro non è un prodotto consigliabile. Beh, non a tutti, di sicuro. E non perché gli manchino spunti di interesse. Proviamo a partire dalla scelta di animare la pellicola con una computer grafica obsoleta, da filmato in stile vecchia consolle anni 90. E' uno dei primi elementi affrontati dalle rare recensioni che si trovano in italiano, e quasi tutti tendono a presentare questo aspetto come un possibile deterrente dalla visione.
Un... possibile deterrente. Uno solo. Il primo. Di tanti.
In realtà, l'animazione grezza (ammesso che si possa definire tale. Vintage forse, ma usata in modo talmente psichedelico da ammaliare) è ciò che rende "possibile" il film, e che contribuisce a renderlo uno dei prodotti più estremi e malati in cui ci si possa imbattere. Sì, perché benché si stia parlando di un film d'animazione, qui siamo dalle parti di "A serbian film" per gli orrori, il disagio e le provocazioni deliranti che somministra.
Ha ragione chi dice che questa pellicola è un cocktail di Timothy Leary, Clive Barker e Miguel Angel Martin, più tanta altra cultura lisergica ed estrema. Il film è praticamente a episodi, per quanto questi si incastrino ognuno negli altri come scatole cinesi. Un cupo quartiere. Tre famiglie disagiate. Tre bambini (o quattro?). Un cane diabolico di nome Labby, doppiato dallo stesso regista, che si definisce un messaggero di Dio e che induce i protagonisti a compiere nefandezze oltre ogni immaginazione.
Aldilà della grafica volontariamente desueta, ibridata con giochi fotografici allucinatori e un doppiaggio distorto che rende tutto ancora più inquietante, ci troviamo a sprofondare in un pozzo (rappresentato fisicamente nel film come un portale tra dimensioni) di follia, depravazione, violenza, pedofilia, necrofilia, e devastanti modifiche del corpo che pagano un meritato tributo all'ero guro giapponese. Potentissima l'immagine ricorrente del crocifisso con la testa ardente (la potenziale bontà umana la cui capacità di ragionare va però in fumo), come gli uomini ombra, traghettatori tra i mondi, la Morte che non dice il suo nome e lo stesso cane infernale. L'ultimo episodio, il più denso e narrativamente compiuto, è forse quello più atroce. Ciò che emerge chiaramente da "Where the Dead Go to Die" è la negazione nichilista della famiglia, vista come istituzione ipocrita, cieca e sorda alle reali esigenze dei minori. Ma anche l'assenza di un'alternativa valida, e ogni goffo tentativo di fare del bene trasformato puntualmente in un nuovo, grottesco orrore. Non è certo casuale se il film di Screamerclauz (che chiaramente usa uno pseudonimo) sia così poco noto e solo di recente siano stati prodotti dei sottotitoli in italiano per facilitarne la visione (i dialoghi sono lunghi, quasi sempre con un riverbero ultraterreno e difficili da reggere senza provare vertigini). Un film, pertanto, che non si può consigliare. Eccetto magari ai cultori dell'estremo, del cinema indipendente più sperimentale e cattivo, e di quell'animazione non scontata che diventa veicolo per rappresentare un'anima nera che il cinema live action, per quanto sfrontato, non osa toccare così da vicino. Un vero incubo, che resta dentro e induce a riflettere sui tanti simboli malsani che ci hanno trafitto il cervello durante la visione.
Consiglio, invece, la recensione sul canale di Shivaproduzioni: https://youtu.be/zlUV4_DhBDY