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domenica 5 gennaio 2020

American Horror Story: ancora gli anni 80 (ma non solo...)


Finito di vedere "American Horror Story: 1984", nona stagione di una serie antologica che - pensa un po' - avevo smesso di seguire anni fa. Infatti, per me si è trattato di una rimpatriata non prevista (colpa di una blogger appassionata d'horror che per me ha sempre l'effetto del canto di una sirena). E una rimpatriata tutto sommato piacevole, dove rivedi qualche vecchio amico e scopri che dopotutto non l'avevi preso davvero in antipatia come pensavi. Avevo apprezzato la serie fino a "Freak Show", stagione bocciata da molti, ma che io mi ero goduto più della precedente "Coven". "Hotel" mi aveva lasciato molto amaro in bocca (e non per il gusto del sangue, e non tanto per l'assenza di Jessica Lange). Lo avevo trovato troppo frammentario, privo di una coerenza interna. "Roanoke" non ero riuscito a vederlo tutto. Niente. Lo show di Ryan Murphy e Brad Falchuk per me si era definitivamente arenato. Ho del tutto ignorato le stagioni successive. Poi, complice la stimata blogger di cui sopra e il tema dello slasher, in pieno revival anni 80, mi hanno persuaso a dare a "1984" una possibilità.
E che devo dire? Ho scoperto che AHS era ancora capace di divertirmi. Non parliamo di un capolavoro, sia bene inteso, e neppure dell'intesità e della ricchezza di temi di un "Asylum".


"1984" si propone di essere uno zibaldone di temi legati al filone slasher, e omaggia il genere in modo bulimico e a tratti... esilarante. Sì, perché il bagno di sangue che ne consegue sconfina nel demenziale, quando (un colpo di scena dopo l'altro) gli assassini iniziano a moltiplicarsi e praticamente rimbalzi da una turpitudine all'altra con lo stesso spirito presente in un cartone animato della Warner Bros. Di base, abbiamo gli anni 80 con il classico campo estivo. La leggenda metropolitana che fa da sfondo alla storia, e che ovviamente si rivela vera. La protagonista già reduce da un trauma. Il killer (IL killer? Quale?) mitico che riemerge dal passato per una nuova danza di morte. E tanti feticci horror di un cinema che fu, inseriti come farfalle in una collezione da mostrare a chi si corteggia (naturalmente tenendo un coltellaccio da cucina nascosto dietro la schiena).



"1984" quindi sconfina dall'horror al grottesco, diventando quasi una farsa insanguinata (e di violenza ce n'è un bel po'). Ci sono gli anni 80, per una volta non elogiati, ma fotografati con disincantato cinismo. C'è la mitologia interna della serie, che ci ha abituati a determinati tormentoni, qui usati molto bene. Del cast storico, in ogni stagione impegnato in ruoli differenti, non è rimasto molto. I pezzi da novanta hanno lasciato. Ma non se ne sente la mancanza, e molti volti noti si vanno presentando a sorpresa, a stagione avanzata, magari in ruoli minori. Emma Roberts è promossa a figura centrale. Apparentemente leziosa all'inizio, presenta un personaggio che avrà una discreta evoluzione nel corso dell'avventura. Sì, perché la storia propone più di un twist e cambi di prospettiva frequenti. Interessante la performance di Angelica Ross, bella e ambigua. Dopotutto, l'anno che è appena finito ha rappresentato una conquista per gli attori transgender, fino a poco tempo fa confinati a recitare sempre nella parte di se stessi. E Angelica Ross, con il suo ruolo femminile, il suo fascino e la sua grinta, ci fa capire che il vento sta finalmente cambiando. Lili Rabe è sempre brava, ma vorremmo vederla anche in parti dove non è isterica o posseduta dal demonio. Dylan McDermott (odiato da molti, non si capisce perché) offre la parodia di un altro celebre assassino del cinema anni 80. E per finire, non si può non voler bene a John Carrol Lynch, anche mentre squarta le sue vittime. In definitiva, un divertente giocattolone per gli appassionati di horror. Che ha pure il pregio di contare poche puntate di una durata contenuta. Niente di memorabile. Ma un pasticcino (al sangue) che ho mandato giù con gusto.



sabato 4 gennaio 2020

Scream: Resurrection (ma anche no)


Se dovessi esprimere un parere molto sintetico sulla terza stagione (definita reboot, e uscita con il titolo "Scream: Resurrection") di "Scream" (la serie televisiva), basterebbero due parole: cattiva scrittura.
Le prime due stagioni, con il suo cast e le sue sottotrame, mi avevano molto divertito pur con tutte le imperfezioni del caso. Questo reboot appare come una copia sbiadita di tutto quello che aveva funzionato nella produzione televisiva ispirata alla saga cinematografica firmata da Wes Craven. Non basta l'annunciata reintroduzione della "maschera originale" di Ghostface (sticazzi!). Serve giusto a ricordarci quanto siano superficiali i dettagli su cui puntano queste produzioni. Nelle prime due stagioni, che facevano della maschera del killer la protesi facciale di Brandon James, personaggio chiave che innescava la maledizione del serial killer, trovavo la scelta di variare azzeccata e anche abbastanza inquietante. Qua torniamo all'iconografia cinematografica, ma tutto il resto è molto approssimativo. La serie si fa seguire in virtù del fatto che è molto breve (soltanto sei episodi) e per la voglia di scoprire l'identità dell'assassino (Scream non è uno slasher qualunque, ma anche un "whodunit?"). I personaggi cui mi ero affezionato, però, non ci sono più. Quelli nuovi sono decisamente scialbi, fatti solo per cadere sotto la lama (o la sega, o la fiocina o fate voi) del killer. Ma soprattutto la sceneggiatura è confusa da morire e certe situazioni risultano incomprensibili. Non mi riferisco ai meccanismi del giallo. In tanti confondono "Scream" con un vero racconto di indagine, ed è un grosso errore. "Scream" è un horror, anche se sfrutta la componente mistery sull'identità dell'assassino. E il killer, finché rimane misterioso, ha la valenza di un demone onnipotente, onniscente e ubiquo, che si sposta, appare e scompare come un essere soprannaturale. Ma al di là di queste regole di genere, la storia che fa da innesco è troppo debole. Alcuni passaggi richiedono allo spettatore di sostituirsi allo sceneggiatore per darsi risposte, e questo non va bene. Qualche scena gore inaspettata fornisce intrattenimento ai fans, ma la qualità delle prime due stagioni è lontana. Del resto... dopo quattro film diretti dal maestro e due stagioni di serie TV, era davvero una pretesa andare avanti.

sabato 28 dicembre 2019

The Mandalorian - Finale di Stagione


E così si conclude la prima stagione di The Mandalorian, tra alti e... un po' meno alti. Esattamente bassi non direi, visto che con tutti i suoi cliché, e l'andamento verticale imboccato decisamente a metà stagione, questa avventura televisiva nel mondo di Star Wars ha mantenuto una qualità piuttosto elevata. Certo, quello che adesso è chiaro è che The Mandalorian è un prodotto pensato per durare nel tempo. Cosa che potrebbe rivelarsi il suo tallone d'Achille. Se questo gli permetterà di tenere alto il livello anche in una seconda (o chissà, anche terza) stagione, è tutto da scoprire. The Mandalorian non brilla per originalità, ma per una forma piacevolissima di narrazione e un cuore che batte in sintonia con tòpoi narrativi che funzionano sempre. Dal western al noir, a quel fantasy tecnologico che è proprio del dna di Star Wars. Se i Jedi l'avevano fatta da padroni nella centralità del canone della saga, i mandaloriani (ma soprattutto questo mandaloriano) si dimostrano dei protagonisti altrettanto carismatici. Non c'è il rigore ascetico degli Jedi, ma un codice d'onore antico, e quel senso etico da cavaliere solitario del far west che ha fatto da motore a tanti classici del cinema. L'ultimo episodio, diretto da Taika Waititi, riesce ad avere un ritmo guerresco e nello stesso tempo introspettivo, inserendo qualche rivelazione, e portando in scena quell'accadimento che aspettavo... che tutti aspettavamo, e sapevamo sarebbe avvenuto probabilmente nel finale di stagione. E infatti, puntualmente... avviene. Adesso, conclusa la prima stagione, The Mandalorian ha una propria mitologia riconoscibile. Saldamente ancorata ai feticci di Guerre Stellari, ma anche personalizzati, con qualche allusione all'universo espanso, come succede nell'ultimissima sequenza. Questa è la via. Ora, per la seconda stagione, il lavoro di Jon Favreau e soci sarà ancora più difficile. Ancora più a rischio banalizzazione, dal momento che i caratteri sono ormai del tutto formati e bisogna entrare nel vivo dell'epopea. Sarà una sfida. E vista l'efficacia di questa prima escursione, sarà un piacere scoprire se e come funzionerà.

martedì 10 dicembre 2019

Watchmen, meno uno...



Ormai manca un solo episodio al finale di "Watchmen", la serie televisiva. E dopo aver visto il penultimo capitolo, l'ottavo, ritengo si possa già dire che la scommessa (davvero audace) è vinta. Conosciamo tutti i precedenti di Damon Lindelof. Sappiamo cosa ha fatto, da dove viene e perché è noto. E questo episodio, intitolato "A God Walks into a bar", ce lo rammenta ulteriormente, svelando alcuni meccanismi narrativi cari allo sceneggiatore di "Lost". L'attesa per il gran finale adesso si fa intensa, ma il viaggio è già stato vertiginoso, e capace di rispondere alla maggior parte delle domande cruciali che erano state seminate dall'inizio. Non si sa ancora se l'esperienza di questo sequel televisivo di "Watchmen" (ma potremmo definirlo anche un omaggio, un atto d'amore all'opera di Alan Moore) avrà una seconda stagione. E' probabile che dipenda dalle somme che la produzione tirerà all'indomani della conclusione dello show. E a quanto vorrà rischiare. Quel che sappiamo già è che Lindelof non ci sarebbe. Ha già detto tutto. E siamo d'accordo con lui. Quel che ci aspettiamo, adesso, è un finale definito (non importa se aperto). "Watchmen - la serie TV" si è dimostrata una delle cose più belle e inaspettate viste quest'anno. Non so voi, ma io ero molto scettico. E sono davvero contento di avere cambiato idea. Una costruzione a orologeria. Una regia che sa cosa è meglio lasciare fuori del campo visivo e quando. L'uso delle musiche di Offenbach dai "Racconti di Hoffman" e un profondo rispetto del materiale originale. Un bel regalo per tutti quelli che hanno letto e amato il fumetto di Alan Moore e Dave Gibbons.

venerdì 29 novembre 2019

Watchmen, la serie



Finora, l'unico difetto (se così lo vogliamo definire) che mi sento di trovare in "Watchmen - La serie TV" è il suo essere un racconto del tutto subordinato alla narrazione originale di Alan Moore. Essere cioè un prodotto derivativo, che necessita della memoria storica del celebre graphic novel per essere compreso a pieno e apprezzato in ogni sua sfumatura. Viene di pensare questo perché, al di là del suo essere un vero e proprio sequel, è scritto davvero bene, riuscendo persino a inserire sottotesti inediti al ricordo dell'opera madre. Non era un'impresa da poco, ma Damon Lindelof, in questo sesto episodio, c'è riuscito in pieno. Lavoro veramente bizzarro, questo seguito, così cronologicamente distante e affidato a un media differente da quello originale. Perché sì, Watchmen aveva avuto prequel (inutili) e tante imitazioni. Ma nessun vero seguito. E non si dica, per favore, che nei fumetti questa funzione sta venendo svolta da "Doomsday's Clock". Non è vero. E' un'operazione del tutto differente e con ben altri intenti. Forse è anche meglio così. Un seguito (un VERO seguito) a fumetti avrebbe sofferto di un impietoso confronto con il capostipite. Una miniserie televisiva, con i suoi codici peculiari, sta riuscendo a produrre una magia inaspettata. A tre episodi dalla fine, questo Watchmen televisivo si sta facendo amare, e se sarà concluso nel modo giusto resterà a lungo nella memoria. Confidiamo in una degna risoluzione.

mercoledì 30 ottobre 2019

Watchmen - La serie TV: prime sensazioni...


Watchmen 1x02. Non sono ancora sicuro di aver capito dove Damon Lindelof abbia intenzione di andare a parare. Ma la narrazione carbura, e dopo l'impressione di disorientamento suscitata dal primo episodio, posso dire di essere entrato nel racconto quanto basta per voler scoprire che cosa succederà in seguito. Confermo la mia sensazione iniziale. E cioè che (almeno finora) questa serie TV sembra voler giocare con ambientazione e temi dell'opera di Alan Moore e Dave Gibbons per prendere una direzione completamente autonoma. E se questo dovesse essere confermato, sarebbero solo buone notizie. Più che un vero seguito si direbbe una storia che prende spunto da un determinato scenario. Un contesto fortemente riscritto (e del resto è passato tempo dal finale del graphic novel) e desideroso di giocare con le aspettative per parlare d'altro. Ammiccando ai feticci noti, ma lasciandoli a margine, mentre personaggi e situazioni prendono piede. Le atmosfere sono inquietanti e di fumettistico, nonostante tutto, per adesso c'è ben poco. E anche questo, direi, non è affatto un male. Non resta che da dire: vedremo, vedremo...

Titans: Chella Man è Jericho


Titans. Siamo oltre metà stagione, ormai, ed è sempre più evidente come l'obiettivo della serie DC Universe sia focalizzarsi sui personaggi, e fare prevalere la loro caratterizzazione sull'andamento della trama principale, che in ogni caso procede e si fa sempre più intricata. Abbiamo infine fatto la conoscenza di Jericho. Personaggio creato nei fumetti da Marv Wolfman e George Perez, qui interpretato da Chella Man alla sua prima prova attoriale. Sì, perché Chella è principalmente uno youtuber, un modello e un artista figurativo, ma credo si possa dire che, in una manciata di episodi, la sua prova di esordio sia tutt'altro che da disprezzare. Sordo nella vita, così come il personaggio che interpreta nella serie è muto, Chella Man è oggi uno dei primi attori transgender a interpretare un ruolo dal sesso definito, aprendo una buona volta la porta al fatto che i performers dall'identità sessuale fluida o in transizione, in genere condannati da Hollywood a recitare sempre e soltanto se stessi, possano rivestire qualunque parte esattamente come gli interpreti cisgender. 
Così come il suo corrispettivo a fumetti, Jericho è un personaggio tragico, figlio del principale avversario della squadra di cui si trova a far parte. Ma "Titans", la serie, segue una cronologia alternata, e presenta tanti aspetti ingannevoli (soprattutto per chi conosce i retroscena dei comic book) e tante cose sono ancora da chiarire. Con i suoi alti e bassi, ad ogni modo, "Titans" si sta confermando una serie molto interessante. Abbastanza diversa dalle letture live action dei fumetti supereroistici cui siamo stati abituati. E propone innovazioni che spingono a tenere d'occhio ogni sviluppo.


giovedì 17 ottobre 2019

E Titans continua...


Titans...
Ok, voglio Krypto. Lo so, probabilmente mi friggerebbe il gatto. Ma posso sempre provare a farli andare d'accordo.
A parte questo: Wow! Wow! Wow! Il modo di presentare Conner mi è piaciuto molto. Ed è interessante come i poteri di Superman (o di qualcuno simile a Superman) possano risultare inquietanti a seconda di come vengono raccontati. La serie Titans sta proponendo una buona caratterizzazione di eroi non sovraesposti quanto altri, e finora questo è il suo pregio maggiore. Insomma, per come la vedo io, continua a funzionare. E non vedo l'ora di sapere cosa succederà adesso.


lunedì 3 giugno 2019

Swamp Thing - Episodio Pilota



Swamp Thing. Episodio pilota della serie TV prodotta dalla piattaforma streming DC universe, la terza dopo “Titans” e “Doom Patrol”. I primi due titoli, ognuno con sue caratteristiche peculiari, si possono definire esperimenti riusciti. E questo, nuovo, ambiziosissimo lancio?

Tutto inizia come un'eco vengence. I contenuti “suggested for matured” non tardano a mostrarsi. Se già “Titans” non lesinava in violenza e atmosfere sinistre, qui siamo davanti a un horror fatto e finito. Le prime sequenze ci dicono subito che... qui ci sono i mostri e c'è da aver paura. Anzi, una fifa blu. Meglio. Verde.
Un'oscurità suggestiva avvolge il mondo acquoso della palude, sciacquii, vegetazione fitta e zanzare ci circondano, ed è chiaro da prima ancora dei titoli di testa che da quelle parti c'è qualcosa che proprio non va.


In “Swamp Thing” c'è lo zampino di James Wan, qui in veste di produttore esecutivo, e la differenza dalle altre due serie DC si sente forte e chiara. Se “Titans” era un racconto supereroistico nero (più che dark) e “Doom Patrol” una sarabanda psichedelica di personaggi e situazioni folli, “Swamp Thing” si propone di restare fedele all'etichetta editoriale “Vertigo” (la linea “adulta” che ha rilanciato il personaggio a metà degli anni 80 affidandolo alla firma di Alan Moore). La fantascienza si mescola all'esoterismo, e se le promesse saranno mantenute nelle prossime puntate, dovremmo vederne delle belle. La presenza del personaggio di Avery Sunderland suggerisce subito ai vecchi lettori quale direzione lo show intende prendere, così come l'introduzione di un character inedito, interpretato dalla sempre apprezzabile Virginia Madsen, promette interessanti variazioni.
L'origin story ha il pregio di non andare di fretta, ma di seminare indizi e semi (è il caso di dirlo) per tutto ciò che seguirà. Il passato misterioso di Abby, la presenza di Matt Cable, e soprattutto Madame Xanadu, che nell'episodio pilota ha appena il tempo di sortire, ma che annuncia stranezze assortite, sono elementi che conferiscono a questa partenza un carburazione lenta ma regolare, lasciando intravedere i sentieri che si intendono percorrere.


Le modifiche (diciamolo, necessarie) alla fonte originaria del fumetto ideato da Len Wein e Bernie Wrightson scorrono senza offendere la memoria storica di nessuno, e iniziano a gettare delle basi pratiche per potersi subito innestare sul ciclo tenebroso narrato da Moore. Aggiungiamo una componente gore inattesa, una scena raccapricciante che a molti ricorderà “The Thing” di John Carpenter e un tema musicale, per una volta, orecchiabile e immediatamente riconoscibile, e abbiamo un episodio pilota che conferma le promesse del già trailer interessante.
Una bella partenza, insomma.


Certo, le danze sono appena iniziate. Quel dato avvenimento si prende (giustamente) il suo tempo a manifestarsi (il film di Wes Craven del 1982 soffriva del budget ridotto e di una narrazione fin troppo condensata), ma la miccia è accesa e non resta che aspettare l'esplosione.

Quella narrativa. Quell'altra esplosione lì...
Ma no, scopritelo da soli.

sabato 18 maggio 2019

Flash: ancora sui viaggi nel tempo...


A proposito di viaggi nel tempo e annessi...
Stiamo ancora discutendo sulle incongruenze che scaturiscono da "Avengers: Endgame", e soprattutto dalle sbavature che riguardano i viaggi nel tempo, le loro regole (vere o presunte) e le contraddizioni cui il racconto va incontro. Come dico sempre, il tema del viaggio nel tempo non è mai immune dal generare pasticci, domande senza risposta, paradossi cui non c'è soluzione. Soprattutto considerato che non parliamo di filosofia, ma di storie avventurose che hanno bisogno di uno svolgimento che segue una causa, un effetto e che dovrebbe produrre un finale. Finale nel quale quasi mai quadra tutto. H. G. Wells, uno dei primi a parlare di macchina del tempo, non si pose il problema più di tanto, visto che il suo protagonista si limitava a viaggiare in un lontanissimo futuro e non toccava neanche di striscio eventi storici che potessero avere effetti sulla sua epoca o generare eventuale linee temporali alternative. Non è così con le saghe supereroistiche, dove parte del divertimento consiste proprio nell'andare a spasso in eventi passati e giocare con i riflessi che avranno nel futuro. Si è appena conclusa la quinta stagione di "Flash". Serie TV targata CW, dove i viaggi nel tempo seguono una logica ben diversa da quella enunciata nel film dei fratelli Russo. Nel mondo di "Flash" le dinamiche temporali sono le stesse di "Ritorno al futuro". La linea temporale, cioè, è malleabile, e la modifica di eventi passati avrà un inevitabile effetto su quelli a venire, modificando di fatto la storia, le persone e i loro rapporti. Stavolta, però, la conclusione lascia alquanto perplessi, e ancora una volta semina dubbi e situazioni irrisolte. Stiamo solo giocando, intesi? Ad ogni modo qui si parla di una stagione non ancora conclusa in Italia. Pertanto, leggete solo le l'avete già seguita fino alla fine in lingua originale.

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Le premesse della stagione erano che nella linea temporale da cui proveniva Nora Allen, il villain Cicada non era mai stato identificato e sconfitto. Altra sottotrama importante è il suo rapporto alla Hannibal Lecter- Clarice Starling con Eobard Thawne, l'Anti-Flash, che per tutta la stagione le fa da mentore, dandole suggerimenti e di fatto manipolandola per i suoi scopi. Alla fine della fiera e della stagione, si decide che l'unico modo per neutralizzare il secondo Cicada, Gracie, è necessario privare il suo alter ego del presente del potenziale metaumano e distruggere il suo pugnale che disattiva i superpoteri. Ok. Come già avvenuto in passato (già che ci siamo: ma ci hanno spiegato che ci fa Thawne vivo nel futuro? Non era morto due volte se non tre in modi differenti? Vabbè, manipola da sempre la linea temporale e ne salta sempre uno fuori. Accettiamolo per fede) ... quanto avviene nel presente cancella il futuro. La Cicada femminile (Gracie adulta) si dissolve e il suo pugnale è distrutto. Scopriamo che il pugnale di Cicada era il dispositivo che inibiva i poteri dell'Anti-Flash, in prigione nel futuro, e che distruggerlo lo libera (anche il pugnale svanisce) scatenando di nuovo la nemesi di Barry Allen.

Tutto torna? Direi proprio di no.


Per cominciare: nella prima versione nota della storia, quella riferita e documentata da Nora, Cicada non era mai stato sconfitto. Era svanito come Jack lo Squartatore ai suoi tempi. E negli archivi di Flash non ce n'era traccia. Ma allora com'è possibile che il suo pugnale (ancora funzionante) fosse nelle mani dell'autorità e che venisse usato come dispositivo inibente per i metaumani? Com'è possibile che le cronache non riportassero un fatto così importante? Come poteva il team Flash non saperlo. E soprattutto chi aveva sconfitto Cicada? Che fine aveva fatto? E per dirla tutta... se nel tempo di Thawne il pugnale scompare (non c'è mai stato), non dovrebbero essere modificati anche tutti i fatti che hanno portato alla sua cattura? I suoi poteri non erano mai stati annullati. Mistero della fede supereroistica.
Inoltre, se Gracie non diventerà mai Cicada... questa non dovrebbe mai essere arrivata dal futuro nel nostro tempo. Tutte le sue vittime dovrebbero essere vive, tutti i danni fatti ripristinati. Persino suo zio, il Cicada originale dovrebbe essere ancora vivo. Invece no. Con una coerenza del tutto simile a quella di "Avengers: Endgame", dove ci viene spiegato che la storia non si cambia, si generano solo linee temporali alternative, ma poi ci viene poi mostrato un Capitan America invecchiato, tanto da indurre i registi a fornire una forzata spiegazione extrafilmica, Cicada si dissolve (perché non è mai arrivata a nascere) ma lasciando intatti nel presente tutti gli effetti delle sue azioni.
La risposta, come già in "Avengers: Endgame", è sempre la stessa. Se giochi con i viaggi nel tempo, ti divertirai e farai divertire. Ma dopo ci sarà da discutere parecchio, e molte cose non torneranno. Stabilire regole narrative iniziali è un buon proposito, ma difficile da mantenere. Non si scappa. Queste avventure contano per il balletto, le piroette, le emozioni che suscitano. La razionalità sta di casa altrove. E l'estetica non si applica necessariamente ai sogni. Sono per l'appunto... sogni. Varianti fantastiche della realtà. E vanno trattate per quello che sono. Con un applauso se ci fanno svegliare con un sorriso, una smorfia se ci alziamo dal letto con l'amaro in bocca.

venerdì 3 maggio 2019

Doom Patrol, la serie TV



Mi sto finalmente mettendo in pari con "Doom Patrol", seconda serie TV a uscire dopo "Titans" per piattaforma streaming DC Universe.
Per cominciare, direi che si conferma l'attitudine della DC a centrare il bersaglio con produzioni seriali televisive, fallendo invece al cinema, nel seguire frettolosamente i passi della Marvel-Disney. "Doom Patrol" si presenta ufficialmente come uno spin off del già interessante "Titans", per quanto questa definizione gli venga stretta. I personaggi sono stati introdotti in una sola puntata del serial madre e oggi sono sdoganati in una serie autonoma che segue uno stile tutto suo e modifica il cast, aggiungendo un sempre carismatico Timothy Dalton nel ruolo di Niles Caulder e Brendan Fraser come Cliff Steele. In comune con "Titans" resta quel suggerimento di avventure ai margini di un mondo più vasto, dove i supereroi celebri sono nominati, ma restano invisibili. Una retrovia in cui i protagonisti, qui ancora più che in "Titans" devono sgomitare per trovare un loro ruolo. Se con i Titani si era scelta un'atmosfera ibrida tra il crime e l'horror, in "Doom Patrol" il registro è più ironico e a tratti (giustamente) demenziale. Senza escludere espliciti riferimenti al ciclo scritto da Grant Morrison, che rilanciò a suo tempo la serie a fumetti introducendo più di un personaggio che qui la fa da padrone. Il villain Mr. Nobody, interpretato dal "josswehdiano" Alan Tudyk è sicuramente uno dei punti di forza della serie, usato in modo metanarrativo, a volte come io narrante e commentatore degli eventi (anche se forse la sua resa farà storcere il naso a chi ama fare le pulci agli effetti visivi). 

Ricordiamo, inoltre, che nei fumetti, Doom Patrol e X-Men nacquero insieme, influenzandosi su parecchi punti (compresa una certa sedia a rotelle). Ma se i mutanti Marvel hanno preso la strada della critica sociale e della metafora della diversità che lotta per i suoi diritti alla vita, la Patrol è forse ancora più inquietante. Simbolo di una diversità sì mostruosa, ma che può alludere anche a un disadattamento psicologico, uno scollamento dalla realtà che tende più alla crisi esistenziale e a una lotta per restare in vita e in piedi in un mondo privo di vero senso. Gli antieroi della Doom Patrol, nella serie TV come nei fumetti, non sono supereroi reietti. Sono reietti con superpoteri, presentati come una sorta di famiglia Addams chiamata dal caso a occuparsi di faccende bizzarre che sono decisamente troppo pazze, troppo oltre perché gli eroi canonici possano gestirle.
Mentre la prima stagione marcia verso la conclusione, l'esperimento sembra riuscito e ci da motivo di attendere il prossimo arrivo di "Swamp Thing", per la stessa piattaforma streaming, che recupererà (così pare) temi e atmosfere del celebre ciclo di Alan Moore.
Un altro modo di intendere gli eroi super dei fumetti e un altro modo di tradurli in live action. Curioso anzicheno. Peccato che di queste serie, almeno finora, se ne parli così poco.


mercoledì 10 aprile 2019

The Bridge... un addio


Anche "The Bridge" (la serie originale scandinava, andata avanti lasciando indietro ben due pallidi remake) è infine giunta al traguardo con una quarta stagione che raccoglie e intreccia tutti i fili lasciati in sospeso. E si dimostra una delle serie TV più sorprendenti e riuscite degli ultimi anni, distaccando di molte misure tanti gettonatissimi prodotti statunitensi. Un crime torbido, con una protagonista femminile indimenticabile e una schiera di comprimari (e partners) caratterizzati benissimo. I remake (uno americano, l'altro anglo-francese) non potevano realmente rendere le atmosfere di "Bron | Broen" (questo il titolo originale, sia in svedese che in danese, con le due parole separate da una linea verticale. Anzi un confine).


 Infatti, in "The Bridge" c'è molto più di un intrigo poliziesco che coinvolge per ragioni diplomatiche le autorità di Svezia e Danimarca, costringendo le due forze di polizia a collaborare. Il ponte che unisce i due paesi è il simbolo di una difficile convivenza. Di una sofferta comunicazione tra due popoli gemelli, che hanno avuto un cammino storico parallelo e parlano due lingue derivate dalla stessa radice, ma che hanno compiuto scelte culturali e politiche a volte diverse, e tuttora vivono un rapporto quasi competitivo su determinate questioni etiche e amministrative. Peccato che il doppiaggio faccia perdere la particolarità delle due lingue e le loro sfumature ("Bron | Broen" è recitato sia in svedese che in danese, e nei due paesi i dialoghi sono sottotitolati in base al luogo in cui la serie è trasmessa). "The Bridge" è anche il simbolo della difficoltà a collaborare tra individui, a volte a dispetto degli obiettivi comuni. E la "diversità" della protagonista femminile, quella generica "patologia", mai nominata, ma soltanto accennata (mentre nel remake americano si fa esplicito riferimento alla sindrome di Asperger) è l'ulteriore metafora di un'umanità cui difetta l'empatia, ma che ha un disperato bisogno di avvicinare i suoi simili. "The Bridge" è un noir cupo, crudelissimo e machiavellico. Ordito e recitato benissimo. Una delle serie che conserverò per sempre nel cuore assieme alla canzone che le fa da colona sonora: "Hollow Talk".

lunedì 24 dicembre 2018

Titans: tirando le somme della prima stagione


La prima stagione di "Titans" si conclude (o meglio, s'interrompe) con un cliffhanger tesissimo, lasciando aperte molte sottotrame. Il fatto bizzarro è che lo show era stato annunciato come una stagione di 12 episodi. Invece - sorpresa - si conclude con l'undicesimo episodio. Pare che gli show runner abbiano deciso che la puntata 12 (comunque già girata) fosse più adatta ad aprire la seconda run della nuova serie dedicata al gruppo di supereroi della DC Comics. Decisione inusuale, ma forse non sbagliata. I nodi da sciogliere rimasti, infatti, sono parecchi, e una puntata in più non avrebbe cambiato molto. La scena post credits della puntata 11, inoltre, si conclude con la sortita di un nuovo personaggio fondamentale che sicuramente giocherà un ruolo importante nel prosieguo dell'avventura.

Tirando le somme di questi undici episodi, in definitiva, mi sento di confermare l'interesse di questa serie. E anche una certa dose di coraggio nell'approcciare personaggi iconici con uno spirito rispettoso ma creativo, declinandoli secondo una visione cruda e adulta, nei limiti di una storia che presenta eroi con superpoteri. "Titans" è un discreto esperimento di rilettura, capace di giocare con le aspettative degli appassionati spiazzandoli, ma anche intrigandoli. Sicuramente farà discutere. Certi elementi trapelati negli ultimi trailer hanno già fatto storcere il naso a molti appassionati, sebbene gli spunti mostrati fossero ingannevoli e da osservare in una prospettiva che richiede la conoscenza dell'intera serie per essere compresi in modo corretto. Senza entusiasmi esagerati, ma senza nessuno scandalo per vilipendio, "Titans" porta a casa un buon risultato. E apre la strada all'arrivo di "Doom Patrol" dopo l'antipasto servito in questa prima stagione.


domenica 14 ottobre 2018

Titans: Un inizio sconcertante, ma...


Visto "Titans". Giusto l'episodio pilota del già controverso adattamento televisivo dei "Teen Titans" fruibile sul servizio streaming on demand DC Universe e presto anche su Netflix. "Controverso" già per primi trailer e rumors, "Titans" va a collocarsi in una dimensione DC Live Action quanto mai tumultuosa e divisa. Tra discutibili adattamenti cinematografici giunti troppo tardi a inseguire i fasti del rodato Marvel Cinematic Universe, e serie televisive (quelle targate CW) che raccolgono tanto consensi quanto critiche, contribuendo a confondere sempre più un immaginario distante dalla coerenza costruita dalla Marvel. Ancor di più confonderà e farà discutere questo "Titans", pare già confermato per una seconda stagione all'indomani della pubblicazione del pilota. Una cosa è sicura. Vedendolo, i puristi si incazzeranno come iene. La fanbase dei fumetti si straccerà le vesti, ululerà al sacrilegio, si rotolerà in preda alle convulsioni graffiandosi la faccia, urinerà e defecherà in pubblico salmodiando in aramaico, scalerà le pareti lisce e Cthulhu sa cos'altro. Inutile illudersi. Succederà, e Internet sanguinerà, assieme all'anima nerd delle schiere.

Nondimeno... al sottoscritto questo episodio iniziale... è piaciuto.



O forse sarebbe più corretto dire che non gli è dispiaciuto. Parliamo pur sempre di un episodio pilota, e sospendere il giudizio definitivo sarebbe cosa buona e giusta. Tanto più che la serie si presenta da subito con una trama decisamente orizzontale. Sono consapevole che la cosa mi porterà critiche e pernacchie. Mi rassegnerò. Non sono anticonformista per partito preso, ma sono possibilista quando si tratta di narrazioni.  Vediamo di capire perché.

Partiamo dai tasti dolenti.
Si è detto, esaminando il trailer: "E' troppo dark. E il dark ha rotto il cazzo!"
Ok. Precisiamo che questo commento si basa sull'esito non proprio felice del Superman di Zack Snyder e (ancora peggio) sul Batman v. Superman dello stesso regista, che tanto hanno fatto soffrire gli appassionati. Due pellicole nelle quali, probabilmente per una malintesa digestione della trilogia di Christopher Nolan sul Cavaliere Oscuro, si è optato per un tono cupo delle atmosfere.
Bene. "Dark", in fondo, è soltanto una parola. Come lo è "Comedy". Presa da sola non è né buona né cattiva. Tutto sta a vedere la resa del prodotto cui si applica. Nel caso di "Titans", poi, il dark non c'è. Esatto. "Titans" non si può definire una serie supereroistica dai toni dark. "Titans" è nero. Anzi, nerissimo (anche questa è un'etichetta). Nero come la pece, che non lesina una discreta componente splatter nelle sue frequenti esplosioni di violenza. Il concetto di base che si coglie dalla visione è che il progetto stia tentando di giocare un'altra carta, parzialmente inedita rispetto all'ormai familiare "dark" che ha stufato tanti. "Titans" si propone di avere un approccio ai supereroi che mescola toni da horror soprannaturale a elementi crime. Un mondo in cui i superpoteri fanno paura, se non hanno un'origine diabolica, sono di provenienza aliena e del tutto amorale, e sono usati in modo spietato. Il bene e il male si confondono e l'idea stessa di eroe in costume si sfoca.


Detto questo, possiamo mettere una pietra tombale su una questione. Chi cerca in questa serie i Teen Titans dei fumetti... beh, se li può scordare.
Prendiamo Robin, il Dick Grayson oggetto di polemiche già dalla sua prima apparizione nei trailer, da quel famigerato «Vaffanculo, Batman!» che segnalava di per sé una distanza dalla fonte cartacea. Anche qui c'è da rassegnarsi. Il Dick Grayson che vedrete non è quello cui siete abituati dalle pagine dei fumetti. Forse è un Punisher con pose da ninja e gadget raffinati. Non si può negare che la violenza di questo Robin lasci scossi, e se il trailer vi ha dato fastidio, la scena di combattimento nella prima parte dell'episodio pilota si farà venire un attacco di itterizia. Il perché e il per come di questo suo comportamento è ancora tutto da scoprire (ci è stato suggerito da alcuni rumors). Diciamo che Dick è alla ricerca di una sua identità e di un affrancamento da chi lo ha addestrato in un certo modo. Vorrebbe non essere più Robin, lo vediamo esitare a infilarsi nel costume da vigilante. Eppure non riesce a evitarlo. Un po' come Rachel-Raven, che sente emergere la sua natura demoniaca e a tratti è costretta a scatenarla.
Quindi siamo distanti dalle controparti cartacee. E' un fatto. Piaccia o non piaccia. Personalmente, la cosa non mi ha turbato più di tanto. Arrivando addirittura a pensare di dare una chance a questa serie, e scoprire come evolverà.

Perché? Perché, a mio modesto avviso, la fedeltà alla fonte fumettistica non è una virtù inviolabile. Tutto è subordinato all'interesse della narrazione, alla capacità di intrattenimento del prodotto. E se questo riesce in qualche modo ad agganciare la mia attenzione, riesco a infischiarmene se un personaggio non è identico alla sua controparte di carta. "Titans" sembra proporre in modo dichiarato quello che nei fumetti è definito un "elseworld", una realtà alternativa, dove i personaggi hanno fatto percorsi differenti da quelli canonici. La accettiamo nei fumetti, perché non farlo nelle trasposizioni live action, sempre che la narrazione funzioni. Il tradimento del personaggio di Robin (cosa che la maggioranza non perdonerà, ne sono sicuro) è da rapportare a un quadro generale. Tutti i protagonisti sono versioni totalmente rivisitate degli eroi che conosciamo. I loro caratteri, il loro look, la loro storia personale. Starfire, criticata e sbeffeggiata sin dall'apparire delle prime foto, è forse la più spiazzante. Non per il fatto che sia nera (questa resistenza ha rotto le palle ed è diventata stucchevole quanto e più della tendenza del cambio di etnia in uso a Hollywood). Ma per il suo look appariscente, kitsh, da battona. Quel che spiazza è l'introduzione del personaggio, ancora misterioso, in cui - senza fare spoiler - il look da prostituta potrebbe rivelarsi tematico e addirittura contestuale al racconto. Tutto sta ad accettare la riscrittura dell'origine e della natura di questa creatura aliena (quale cazzo è il suo vero aspetto non si sa), e soprattutto a comprendere che non si è tentato minimamente di renderla visivamente simile al suo omologo a fumetti. La Starfire vera è dentro un involucro, una maschera, e la giustificazione (o meno) dipenderà dal prosieguo della storia.



Il clima da racconto horror è inoltre l'altro elemento che (a dispetto di molti) rende per me curiosa questa lettura. Era prevedibile che la storia diabolica di Raven facesse da filo conduttore. La scena iniziale (un mix tra cronaca di origini e citazioni da L'Esorcista) in qualche modo è un biglietto da visita che dice tutto. La cattiveria da vigilante di Dick, la visione lontana di un Batman violento, si incastrano abbastanza bene in un'atmosfera del terrore, dove più che il bene si dovrà scegliere il minore dei mali, e dove essere supereroi è qualcosa di fottutamente inquietante.

Insomma, "Titans" sembra partire come un esperimento. Un esperimento ancora lontano dall'essere concluso e riuscito. Diciamo che questo inizio ha centrato l'obiettivo di interessarmi, proprio per la sua capacità di disattendere le aspettative. Cosa che potrebbe anche essere un pregio, perché vedere riprodurre pari pari i propri eroi sullo schermo solletica un tipo di piacere nerd. Vederli diventare materia per costruire una forma diversa, con tutti i rischi del caso, titilla altre forme di perversione ludica. Se "Cloack and Dagger" falliva, trasmettendo soprattutto noia, questo "Titans" se non altro, spiazza e incuriosisce. Incuriosisce me, proprio perché trasgredisce.

Vedremo che cosa ci riserveranno i prossimi episodi. Adesso, attendiamo i flame e facciamo: OMMMMMMMM....

venerdì 15 giugno 2018

LEGION: e due (in attesa del tre)



Si è conclusa anche la seconda stagione di LEGION, serie Tv ideata da Noah Hawley, di cui è già stata confermata la terza stagione. Una sorpresa, considerando quante serie cadono ogni giorno sotto la mannaia dell'audience ridotta, e pensando che LEGION tutto è tranne che uno spettacolo convenzionale che muove le masse. Certo, all'origine di tutto ci sono i fumetti, gli X-Men e i loro miti, e la Marvel. LEGION fa parte di quell'universo parallelo televisivo in cui si specchiano gli attualmente popolarissimi cinecomics (intendendo qui per “cinecomics” quanto prende spunto dal genere supereroistico, mai così trend nell'industria dello spettacolo in live action). Di LEGION sorprende questa sua resistenza alle logiche di mercato (non sempre sono gli ascolti a determinare la longevità di una serie TV) e il coraggio di una scelta estetica e narrativa sicuramente non abituale per il mondo degli eroi con poteri.


La chiave di lettura surreale scelta da Hawley è il vero punto di forza di LEGION. Una catena di elementi citazionisti (la storia potrebbe benissimo svolgersi ai margini del mondo narrativo degli X-Men cinematografici, e Charles Xavier esistere fuori scena) e di atmosfere psichedeliche che (impossibile non reiterare questo concetto) ricordano spesso lo stile di David Lynch. Ma ricorda anche esperienze televisive storiche, come la serie britannica “Il Prigioniero” della seconda metà degli anni sessanta del secolo scorso. Serie enigmatica e ricca di sottotesti simbolici, viaggio nella mente del protagonista che non forniva mai risposte intelligibili, e che all'epoca, soprattutto con la sua conclusione, anticipò gli shock di cult futuri come LOST.



Vedere LEGION come una qualsiasi altra serie dedicata ai supereroi sarebbe un errore. Anzi, non è neppure possibile, dal momento che scardina in fretta ogni aspettativa convenzionale. Non si tratta solo di fotografia, colori, trovate visive di notevole impatto, quanto della domanda su cui tutta la narrazione si fonda. E cioè: quanto vediamo, i personaggi che incontriamo, sono tutti reali? O sono parte del delirio di David Haller, manifestazioni della sua schizofrenia? E i poteri mutanti, i mutanti stessi, esistono? O sono anch'essi una rappresentazione allegorica della tante personalità di David, compreso il suo antagonista, il mefistofelico Re delle Ombre?



LEGION, quindi, si propone in apparenza coma una storia supereroistica, ma può essere letto come un viaggio sciamanico alla ricerca di sé e dei propri veri obiettivi. Uno spettacolo che travalica il genere e coraggiosamente osa rompere gli argini, aspirando a essere qualcosa d'altro, qualcosa di più. In che misura ci riesca può essere oggetto di conversazione. Tutt'ora, a seconda stagione conclusa e terza in preparazione, non ci sono risposte definitive. Non ce n'è bisogno. L'ambiguità e la simbologia di base sono il vero cuore dello show. Entrambe le realtà, quella vera e quella sognata (sempre che sia così) vanno comunque bene. Sono due modi diversi di narrare e intendere il medesimo concetto. La ricerca della propria identità, il bisogno ancestrale di trovare un avversario, anche costruendolo da una propria costola se necessario, pur di avere un diavolo da incolpare per le nostre disgrazie. LEGION riesce a essere una criptica metafora esistenziale, e per questo merita attenzione. Un esperimento dissidente nella contemporanea ubriacatura da supereroi in live action. Un cocktail visivo e concettuale che non ci aspettavamo, ma che a due stagioni dall'inizio continua a essere effervescente, spingendoci a volerne ancora.


Perché sì, perché forse, se i mutanti, se i supereroi esistessero, le cose andrebbero in modo molto diverso da come appaiono nei fumetti. L'esistenza sarebbe tutt'altro che semplice o schematica, i confini tra bene e male quanto mai sfumati. Magari diventerebbe un labirinto etico e allucinatorio in cui vaghiamo senza più un preciso punto di riferimento. O forse, supereroi a parte, è già così. E la fantasia di potere cui i fumetti ci hanno abituato non è più una fuga o una possibilità di riscatto.
Se mai lo è stata. Forse è piuttosto una prigione.