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domenica 3 gennaio 2016
Linea 103: L'onore delle armi
Palermo, non più capolinea 103...
Un minuto di silenzio per la Linea 103 di Palermo. No, non è stata "sospesa" come altre linee della rete bus palermitana. Ma nel cambiamento generale dei percorsi, il suo DNA ha subito una profonda mutazione genetica, e adesso percorrerà il tratto che va da Piazzale Giotto a Piazza XIII Vittime. Insomma, si chiama 103 ma non è più lei, è qualcos'altro. Ignoro se le dinamiche sociali di cui era teatro continueranno a essere rappresentate nel modo di cui sono stato spettatore per quasi vent'anni. Le zone di sosta, i tragitti e - non ultimi - i conducenti, diversi possono cambiare un intero mondo. Che fine faranno i Grilli Sparlanti che gravitano intorno alla stazione Notarbartolo? I loro talk show improvvisati ogni giorno a fianco dell'autista, farcito di commenti sul calcio, espressioni razziste, maschiliste, fascistoidi o semplicemente demenziali? Troveranno un nuovo habitat? Trasmigreranno? Le amicizie con i nocchieri infernali sopravviveranno al cambiamento. Non conoscerò presto la risposta. La linea 103 è ormai fuori dalla mia portata, non farà più parte del mio quotidiano. Una comodità (quando gli equilibri dell'universo erano favorevoli) e un supplizio (quasi sempre) nello stesso tempo. Una finestra sulle miserie umane non indifferente che dal primo Gennaio 2016 si è chiusa. Ed è giusto salutare come si deve questa rubrica. Buon viaggio, linea 103. Chiunque ti guidi, chiunque ti prenda. Tanto a Palermo sei. Non ci credo che cambierai del tutto. Proprio no.
giovedì 17 dicembre 2015
Linea 103: Per signore...
Palermo. Fermata bus via Roma, altezza
Vucciria. Ecco arrivare la linea 103.
E' una storia vecchia. Quella delle
vetture che arrivano alla fermata a pochi secondi l'una dall'altra.
Questo fa scattare il dilemma del prigioniero... pardon, del
passeggero. La domanda è: l'autista del secondo bus è osservante,
sciatto o semplicemente stronzo?
Mi spiego. Le moderne vetture sono
spesso discretamente lunghe. Se due di queste si mettono in fila, le
porte della seconda resteranno abbastanza fuori dall'area della
fermata, e quindi distanti per il viaggiatore in attesa. I casi
possibili sono due.
Caso 1: l'autista aspetta che la
vettura precedente riprenda la sua corsa, fa qualche metro
allineandosi con la fermata. Infine, apre le bussole.
Caso 2: apre le bussole là dove si
trova. Quindi a parecchi metri dai poveri coglioni che attendevano il
bus regolarmente ad altezza fermata. Soluzione: devi fendere una
folla di gente (ma solo a me dà fastidio sbattere addosso a degli
estranei? I palermitani sono tutti così estroversi?), se hai un
acciacco o sei anziano farti venire il fiatone e raggiungere la
vettura prima che richiuda le porte e riparta lasciandoti con un
palmo di naso e una bestemmia che frigge in gola.
Da manuale, senza distinzione di linea.
Ma qui parliamo della 103 e c'è sempre la sorpresa.
Tagliando corto... il bus avanza un po', ma la bussola di davanti (per capirci, quella in teoria destinata agli abbonati) resta chiusa. La cosa mi scoccia un po'... ma non è niente di terribile. Non c'è folla. La vettura è come sempre semivuota, salgo dalla prima bussola che trovo aperta (anche i più ligi, se stanchi, a un certo punto cedono al lato oscuro e salgono o scendono da dove capita) e mi seggo proprio nei pressi della porta rimasta chiusa, alle spalle dell'autista, mentre rifletto che forse la bussola è semplicemente guasta. Non sarebbe neppure la prima volta che succede.
Tagliando corto... il bus avanza un po', ma la bussola di davanti (per capirci, quella in teoria destinata agli abbonati) resta chiusa. La cosa mi scoccia un po'... ma non è niente di terribile. Non c'è folla. La vettura è come sempre semivuota, salgo dalla prima bussola che trovo aperta (anche i più ligi, se stanchi, a un certo punto cedono al lato oscuro e salgono o scendono da dove capita) e mi seggo proprio nei pressi della porta rimasta chiusa, alle spalle dell'autista, mentre rifletto che forse la bussola è semplicemente guasta. Non sarebbe neppure la prima volta che succede.
Vedo, nel frattempo, la donna alla
guida della vettura. Un'autista che ho già visto nei giorni passati.
A Palermo non ci sono ancora moltissime donne a condurre i mezzi
pubblici, e la cosa si fa notare. Quello che noto di più, però, è
la presenza del sidekick. Ma sì, della spalla. Insomma... ne ha una
pure la signora. I colleghi maschi (gli auriga della 103) hanno
sempre una piccola folla di amici che chiacchiera senza sosta né
ritegno, neppure l'abitacolo dell'autista fosse una ricevitoria di
scommesse. Ho perso il conto di quante volte li ho menzionati in
questo diario di un viaggiatore urbano per caso... Beh, la signora
alla guida detiene un corrispettivo femminile dell'articolo in esame,
un'amica. Una donna tra i trenta e i quaranta, seduta di lato al
cruscotto, proprio dentro l'abitacolo dove di norma si chiude il
conducente. Questo, in effetti, è una cosa che vedo per la prima
volta... ma tant'è. Sono così abituato a sentire sproloqui da
stadio, tempeste di razzismo e urla da trogloditi che una signora
comodamente seduta di fianco all'autista mi lascia del tutto
indifferente.
Non ci sto a pensare più di tanto e
cerco di “godermi il viaggio”.
Passano pochi minuti. Giusto un paio di
fermate (durante le quali la bussola davanti non si apre neppure una
volta). Poi... inizia la festa.
«Tu non apri porta davanti! Tu così
lavori? Tu dove credi essere? Tuo salotto? Perché non apri porta
davanti?»
La voce, con pesante accento straniero arriva dal fondo della vettura (che cavolo gli frega della bussola davanti, quindi?). Scelgo di non voltarmi, ma ho già capito che il teatrino ha appena alzato il sipario. Dovrei organizzarmi meglio e portare del popcorn.
La voce, con pesante accento straniero arriva dal fondo della vettura (che cavolo gli frega della bussola davanti, quindi?). Scelgo di non voltarmi, ma ho già capito che il teatrino ha appena alzato il sipario. Dovrei organizzarmi meglio e portare del popcorn.
«La bussola è guasta,» risponde la signora alla guida del bus. «Non è colpa mia. Non si apre.»
La voce alle mie spalle continua a sbraitare, ignorando quanto gli è stato appena detto.
«Tu credi essere in tuo salotto?! Tu
lavora male! Tu NON APRI PORTA!»
«Le ho detto che la bussola è guasta. Vede?»
Fa l'atto di spingere il pulsante che dovrebbe aprire le porte davanti.
«E'... GUASTA. Non dipende da me.»
Niente da fare. L'invettiva non si ferma.
«Le ho detto che la bussola è guasta. Vede?»
Fa l'atto di spingere il pulsante che dovrebbe aprire le porte davanti.
«E'... GUASTA. Non dipende da me.»
Niente da fare. L'invettiva non si ferma.
E il bus non riparte.
«Tu lavora male... tu non sai
guidare... tu non apri porta!»
«Deve scendere o no? Io devo ripartire. Siamo fermi già da un minuto.»
«Deve scendere o no? Io devo ripartire. Siamo fermi già da un minuto.»
L'autista comincia a perdere la
pazienza mentre la nenia «Tu non lavori bene... tu non apri...»
continua in loop. Io resisto e non mi volto. Ma la scena mi è
descritta dalla stessa autista che a un certo punto contrattacca.
«E poi... dovrebbe scendere dal
centro, non dalla bussola in fondo!»
«Tu lavora male... tu non in tuo salotto!»
«Il biglietto lo HA FATTO?»
«Tu lavora male... tu non in tuo salotto!»
«Il biglietto lo HA FATTO?»
La signora sta inziando a bollire.
Nonostante tutto continua a dare educatamente del lei
all'interlocutore.
«Tu parli con tua amica... tu non
lavori... VA' A LAVARE PIATTI CHE E' MEGLIO!»
«Senti... VAFFANCULO!»
A rispondere in modo colorito è stata
la sidekick, la passeggera... l'amica insomma. La donna seduta
accanto all'autista ha perso i freni inibitori. Ha detto la sua.
Nell'unico modo a quel punto possibile. Del resto, secondo
l'intelocutore... era meglio se lavavano i
piatti.
Il tizio comunque scende. Dal
finestrino vedo un uomo di mezza età, dalla pelle chiara, con
berretto di lana e sciarpa che gli seminasconde la faccia. Non riesco
a capire a quale etnia appartenga. Non che abbia importanza. Anche
dalla strada continua a lanciare improperi all'autista. Finalmente...
dopo alcuni minuti persi inutilmente e un vaffanculo, la vettura
riparte.
L'intervallo dura molto poco. Lo
spettacolo riprende quasi subito.
Un signore anziano, circa ottant'anni, cappotto scuro, cappello di feltro, ombrello... anche lui un passeggero abituale della linea, si avvicina alla postazione del conducente. Apostrofa l'autista in modo grave.
«Ma lei è così che lavora? Pensa davvero di essere nel salotto di casa sua?»
«Qual è il suo problema, scusi? Ha rilevato qualche disservizio?»
«L'altra signora non dovrebbe sedere qui. Non dovrebbe neppure esserci. E' una vergogna! E' contro ogni regola.»
Ok... qui avrebbe pure ragione...
«Ci sono stati incidenti, signore? Ha
bisogno di qualcosa? Deve scendere alla prossima fermata?»
«No. Non devo scendere. Sono venuto a reclamare. Lei si comporta davvero come se fosse nel suo salotto. E lei...» ora si rivolge alla sidekick, «... dovrebbe subito togliersi da lì.»
In effetti... se le circostanze e i modi non fossero così allucinanti...
«No. Non devo scendere. Sono venuto a reclamare. Lei si comporta davvero come se fosse nel suo salotto. E lei...» ora si rivolge alla sidekick, «... dovrebbe subito togliersi da lì.»
In effetti... se le circostanze e i modi non fossero così allucinanti...
«Io resto dove mi pare! Chiaro?»
Minchia! I palermitani sono
palermitani. Uomini o donne... il marchio di fabbrica si vede.
«Lei lavora veramente male! E poi ha
insultato quel signore extracomunitario... che la criticava
GIUSTAMENTE!»
«Guardi, la bussola davanti è guasta.
Lei ha sentito solo una parte del discorso.»
«Ho sentito quanto bastava. E lei... lei... che si è permessa di urlargli quella parolaccia... una cosa inascoltabile... IN BOCCA A UNA DONNA!»
«Ho sentito quanto bastava. E lei... lei... che si è permessa di urlargli quella parolaccia... una cosa inascoltabile... IN BOCCA A UNA DONNA!»
Forse soddisfatto della chiusa
teatrale, il signore anziano torna a sedersi. La sidekick, per
evitare altri commenti, decide di alzarsi ed esce dal recinto. Dalle
mie spalle sento arrivare un'altra voce, maschile. Non capisco tutta
la frase, solo la parola “fimmini”. L'autista è esasperata. La sento mormorare all'amica che una volta giunta al capolinea, chiederà di terminare il turno in quanto la vettura è guasta (sempre la bussola).
Ormai siamo quasi al capolinea quando
si verifica un altro classico della linea 103.
La voce, stavolta è femminile.
«Autista! La fermata! L'ho richiesta!
Non fa la fermata?!»
Ecco... La sindrome della 103. Alla
fine la signora si è omologata. Se tutti i colleghi maschi,
conversando di calcio, di immigrazione, di quando c'era lui e di
femmine che oggi pretendono di comandare, saltano le fermate
prenotate... perché dovremmo aspettarci che una donna sia più
attenta mentre conversa con un'amica? Forse perché è solo una,
mentre di solito gli uomini si portano dietro un intera osteria
schiamazzante? Perché lo hai fatto? Perché hai dovuto scivolare
proprio adesso su una buccia di banana che potevi così facilmente
aggirare? Perché dargli RAGIONE, CAZZO?!
Scendo dal bus con una sensazione di
smarrimento e pieno di domande. Mai avevo visto tanto sdegno, tanto
accanimento contro un autista uomo e la sua personale corte di
compari. Raramente vedo palermitani ed extracomunitari solidarizzare
in modo così passionale. Quale magia è scaturita stavolta dalla
meravigliosa linea 103? Quale elemento chimico (di norma assente) ha
fatto sì che si manifestasse tanto rispetto per le regole, tanto
sdegno perché venivano infrante, e un'inedita solidarietà tra un
anziano cittadino e uno straniero, categoria spesso ignorata se non
disprezzata?
Il sessimo?
Una generica solidarietà tra maschi?
Già, al volante oggi c'era una donna.
E certe parole... “in bocca a una donna” non suonano bene,
soprattutto se ti ci manda quando le dici che il suo posto è ai
fornelli.
Doveva fare i piatti. E doveva tacere.
Magari stava... stavano...
sbagliando.
Ma anche la chimica sbaglia.
E il degrado tracima.
domenica 28 giugno 2015
Linea 103: Dopo il Pride...
Palermo. Linea 103. Il giorno dopo del Pride LGBT 2015.
Quello scalcinato Talk Show su quattro ruote chiamato Linea 103, "format di approfondimento" che si colloca nell'area dell'estrema destra più ignorante, mi ha veramente rotto i coglioni.
Un tempo era "vietato parlare al conducente". Ora il conducente ha la "velina" (nei panni di maturi signori, spesso pensionati che evidentemente fanno avanti e indietro sulla vettura perché non hanno altri hobby). Ho già parlato più volte di loro: li chiamo "grilli sparlanti". Ma sono più simili a scimmie urlatrici. Non solo. Ti tirano anche addosso le loro feci.
Come sa bene chi frequenta la linea, il fatto che la vettura sia spesso quasi vuota, trasforma la linea in un salotto ambulante dove si sente di tutto e di più. Normalmente commenti su calcio e... "politica", inframezzati da osservazioni razziste, maschiliste, omofobe.
E' il 28 Giugno 2015, il mattino dopo del Pride.
La vettura percorre via Roma, e si commenta quel che resta del Pride (anzi... "a festa ri gay" a sentire i pensatori). In realtà, niente di peggio o diverso da quel che si trova al mattino in Vucciria dopo una notte di eterissima (?) Movida. Bottiglie di birra, rifiuti... Ok, non va bene. Come non andrebbe bene dappertutto. Ma questa è un'altra storia. Qui invece sembra essere tutta colpa "ra festa ri froci". L'autista di turno è lo stesso che vorrebbe riaprire i forni crematori per i Rom. Che cosa ti vuoi aspettare? Che sia tenero con una massa di froci festanti che bevono e ballano? Pensi che le sue cellule grige siano in grado di assimilarli alle masse che popolano la Palermo by night con risultati identici? Ovviamente no.
C'è pure un sidekick aggiunto, che sta più indietro. Vicino a me. Troppo. E parla. Parla. Anzi, strilla.
«Un ci manca nenti... su gay... su vastasi... su alcolizzati... e macari puru trocati!»
Mi piacerebbe dire che non è da me. Ma non è vero. Io mi sforzo di apparire bonario, ma sono un tipo irruento. Forse addirittura violento. Mi costa fatica mantenere il controllo. Anche stavolta ho dovuto fare uno sforzo. Ma all'ennesimo raglio non ci ho visto più. Restando seduto, ho voltato la testa e ho detto al "signore" che "i gay l'aviani tutte... ma che iddu parrava assai". E iddu: "Ma parro giusto". A quel punto gli ho detto chiaro e tondo che mi aveva appena insultato quattro volte. E quando ha mostrato di non capire (ma va?!) l'ho cordialmente invitato ad andare per la sua strada e ad allontanarsi da me. Ha trotterellato fino al posto del conducente, ancora impegnato a cinguettare di bottiglie di birra abbandonate e di... "qualche malattia grave". Più vicino alla materia di cui era fatto, probabilmente si è sentito rincuorato. Avere scoperto di essere stato vicino a un gay, alcolizzato, magari pure drogato, doveva averlo sconvolto assai. Poi, per grazia di Dio, è sceso ed è andato a fare in culo dove gli tocca.
Sono stufo.
E mi rivolgo direttamente all'azienda Amat di Palermo.
Stufo che chiunque si senta in diritto di sparare stronzate, dando per scontato di parlare di creature mostruose e mitologiche che sicuramente non possono nascondersi vicino a lui, perché le riconoscerebbe. Stanco di sentire inneggiare a forni crematori per rom e immigrati... Stanco di sentire tanta ignoranza, odio, pregiudizio esprimersi senza che nessuno intervenga per condannare la puzza di fogna che avvolge quel bus che sono costretto a prendere (da abbonato) per ragioni pratiche.
Se questa gente ha il coraggio di sparare le sue stronzate è perché nessuno interloquisce. Nessuno manifesta dissenso. Vedere o sentire qualcosa di sbagliato e non intervenire, è un po' come legittimare. Invito l'azienda AMAT di Palermo a conversare con i suoi dipendenti autisti, a ripristinare un religioso silenzio intorno al conducente (che per inciso, tanto è impegnato a ripetere che il ruolo della donna è quello di lavare i piatti, da saltare sistematicamente fermate regolarmente richieste dai passeggeri) e a rendere le linee dei luoghi confortevoli per chiunque paghi il biglietto. Non solo per ignoranti reazionari in vena di blaterare ad alta voce come fossero in taverna.
Le opinioni sono le loro. Io non ho nessun dovere di doverle ascoltare mentre viaggio.
Una postilla. Per rispondere al cialtrone incontrato sul bus stamattina, quello che diceva che "le hanno tutte... gay... alcolizzati... vastasi... magari drogati... Tutte le hanno!" rispondiamo: No. Qualcosa ci manca. La tua ignoranza. La tua cattiveria. Tutti i tuoi pregiudizi. Che vuoi farci? Siamo esseri imperfetti. E meglio PORCO (e gay) CHE FASCISTA!
mercoledì 20 maggio 2015
Linea 103: Il mio problema (e il problema degli altri)
Palermo. Linea 103. In viaggio. Via
Terrasanta.
Sono circa le sei del pomeriggio. Siedo
sul bus come al solito, pensando al lavoro che mi attende a casa... e
ai gatti, che passano tante ore da soli e non appena mi vedono non mi
danno neppure un istante di tregua. Poveretti! Non hanno torto,
dopotutto. La vettura fa sosta davanti alla chiesa della Madonna di
Fatima. Scorgo dal finestrino un gruppetto di donne Rom che attendono
presso la fermata. Salgono in vettura e restano in fondo al bus a
conversare tra loro.
Ho un problema. I Rom mi mettono a
disagio. Il disagio peggiore è che mi sento in colpa. Vorrei non
provare questo imbarazzo, questa opprimente sensazione di fastidio e diffidenza per altri esseri umani. Ragionare sul fatto che spesso siano
petulanti, e che mi chiedano denaro che non ho, che a volte rubino, non è sufficiente a
farmi stare meglio. Non mi piace sentirmi così. E' come se dentro di
me ci fosse una briciola di razzismo che non sono ancora riuscito a
eliminare. Ad ogni modo, questo gruppo di donne non mi arreca nessun
disturbo. Stanno semplicemente lì, per i fatti loro e viaggiano. Non
credo abbiano fatto il biglietto... ma è l'ultima cosa a cui
penso. A Palermo non lo fa quasi nessuno e sicuramente non è
l'inadempienza dei Rom, ormai non più nomadi, a fare la differenza.
Nel frattempo, il bus è arrivato in
via Dante. Una delle donne Rom si rivolge all'autista con la sua
cadenza straniera.
«Ci fai scendere, per favore... Visto
un'altra linea... Così noi prendiamo quella.»
L'autista dà la risposta consueta.
«Fuori fermata non si può. E' un
tratto pericoloso. Poi la responsabilità è mia.»
«Noi dobbiamo prendere altra
linea...»
«Ora! Tra poco... Alla fermata.»
Bastano pochi metri, in verità. Il bus
si approssima alla fermata. Proprio in quell'istante, sul marciapiede
avanza un quartetto di controllori. Il gruppo delle donne Rom
manifesta un leggero senso di urgenza.
«Facci scendere... Se no ci fai fare
multa!»
La risposta dell'autista non tarda.
«Seeeeeeeee! Siccome vuatri a pagate
a multa, veruuuuu?!!!»
La vettura si ferma. Le donne Rom
scendono. I controllori salgono. Nessun incidente. Sul bus sono
rimasto soltanto io. Abbonato. La breve scena si direbbe conclusa.
Invece l'autista ha ancora qualcosa da dire (dopo essersi scambiato
saluti, pacche e bacetti con i controllori).
«Siccome iddi pagano i multe! A
sintistivu? “Accussì ni fai fari a multa”! Picchì iddi i pagano
i multe!»
I controllori non hanno niente da
controllare. Sostano nella zona anteriore del bus parlottando tra
loro, ma l'autista sembra non avere pace. Evidentemente gli è stato
toccato un nervo scoperto.
«Picchì chisti pagani i multe!
Seeee! Io grapissi arrieri i forni crematori!»
Uno dei controllori, quello più
grasso, sente il bisogno di dare una risposta laconica.
«Sì, fanno schifo.»
Ma all'autista non basta. Deve per
forza ripeterlo.
«Io grapissi arrieri I FORNI
CREMATORI!»
Scendo dal bus con un pensiero che mi
mulina nel cervello.
Nel mondo ci sono cose e persone che
per qualche motivo mi suscitano imbarazzo.
Devo imparare a conviverci.
Devo imparare a conviverci.
Poi ne esistono altre... che mi
causano profondo disgusto e che odio con tutto me stesso.
Tutto sommato... non devo essere poi
così male.
venerdì 20 giugno 2014
Linea 103: Se telefonando...
Palermo. Linea 103. Capolinea.
Quadro primo.
L'autista, una donna sulla quarantina,
capelli fluenti di un colore arrabbiato, spende la sua pausa seduta
al posto di guida con il cellulare in mano. Volume al massimo.
- Pronto, ELENA? Sono CATERINA.
- …
- Guarda, finirò di lavorare alle 20.
Non appena stacco vengo da te.
- …
- Sì, tienilo pronto. Non appena
rientro in rimessa, alle 20, vengo da te. Come sempre, in via Marzio
Teofrasto 5.
- Alle 20, Elena, sì. Vengo a
riprendermelo stasera.
Osservazione estemporanea. Se tra i
passeggeri in attesa sulla vettura ci fosse stato un potenziale
stalker, Caterina (ma anche la sua amica Elena, residente in via
Marzio Teofrasto) avrebbero anche potuto vedersela brutta. Nome
dell'una, nome dell'altra, orario di fine lavoro e dettagliato
programma delle ore successive. Quando il concetto di privacy e
opportunità è solo un'opinione.
Linea 103. Vettura in movimento.
Quadro Due.
L'autista (auricolare inserito) declama
al cellulare. Anche stavolta il volume è senza confini.
- Che ne so! No, no, è cretina! E'
PAZZA! Dice che non pagherà nulla.
-…
- Ma più di farla chiamare
dall'avvocato che posso fare? E' cretina, ti dico.
- …
- Ma che cazzo ne so? Se la casa
volessimo venderla... o affittarla... o anche abitarci... Ma lei NON
SE NE VUOLE ANDARE. L'avvocato l'ha chiamata ieri, le ha spiegato la
cosa... ma niente! E' pazza! Finge di non capire.
Nel frattempo si giunge a piazza
Virgilio. La vettura è sulla sinistra della strada. L'autista
continua a sciorinare un elenco di carte legali, beni immobiliari e
la descrizione di un contenzioso con una misteriosa pazza che
non vuole saperne di lasciare la casa. Qualcuno tra i passeggeri
chiede timidamente di scendere fuori fermata. Qualcosa che di norma è
severamente vietato.
- Lei se ne fotte! Non se
ne va da quella casa! NON SE NE VA!
Più che altro sembra che stia parlando
con un sordo. Non fa che ripetere come una cantilena i medesimi
concetti con un tono di voce sempre più alto.
- Potremmo affittarla... Venderla...
Oppure viverci... MI SONO SPIEGATO!
Bzzzz. Le bussole si aprono, la
gente sciama fuori direttamente in mezzo al traffico. Mi scopro a
ripensare alla filosofia di Protagora. Al concetto di uomo, misura
delle cose, e di come a Palermo le norme siano sfuggenti e mutevoli a
seconda di chi è chiamato ad applicarle. Di solito sento gli autisti
arrivare quasi a ringhiare per spiegare a passeggeri insistenti che
non possono lasciarli scendere fuori fermata, giacché la loro
incolumità è una seria responsabilità di chi conduce il mezzo.
Osservo i miei concittadini fluire tra le macchine, in un certo qual
modo felici di essersi lasciati alle spalle quel monologo surrealista
che non porta da nessuna parte.
- La casa è nostra. E' NOSTRA! Ma
lei non lo capisce. NON LO VUOLE CAPIRE. Non paga e non va via. E
se la volessimo usare...
E via. La vettura riprende la sua marcia per una città sempre meno ignara di storie
che non ha alcun desiderio di conoscere.
lunedì 26 maggio 2014
Linea 103: Soste impreviste
Palermo, linea 103. Come al solito, al
capolinea, in attesa di partire.
«Ma quanto tempo ci metti? Li fai
dal parrucchiere?»
«Oh! Iu aiu fami!»
Ma no, torniamo indietro di un minuto e
procediamo con ordine.
Che questo bus (che fa un percorso
tortuoso e poco frequentato dagli utenti, ma comunque utilissimo) sia
una linea “oltre i confini della realtà”, l'ho affermato più
volte. E' una porta oltrepassata la quale si accede a uno spazio dove
la logica cede il passo al surreale più devastante, dove non
esistono regole, dove i freni inibitori cadono... e come tutte le
figure mitologiche non è facile da acchiappare, se ci si lascia
sfuggire l'ora magica.
Altra figura caratteristica della linea103 di Palermo sono i famigerati grilli sparlanti. Ho parlato
ripetutamente
anche di loro. Folletti, gnomi, e soprattutto troll,
che infestano come mosche lo spazio vicino a quello dell'autista (con
il quale hanno un'evidente confidenza e affinità) dissertando del
più e del meno a un volume vocale che spesso non ha niente da
invidiare a un martello pneumatico.
Insomma, la sensazione, per il
cittadino medio che prende il bus, è quella di essersi avventurato
per errore in un salotto estraneo, dove un gruppo di amici, vitelloni
e disinibiti a prescindere dall'età anagrafica, fanno fragorosa
comunella, con inossidabile solidarietà al derelitto compare che ha
la sventura di lavorare conducendo una linea pubblica attraverso la
città.
Tutto questo è il canovaccio di base.
Il teatrino dei troll su ruote apre il sipario prevalentemente il
pomeriggio, e il viaggiatore (condannato innocente all'ascolto
forzato di tali armonie) una volta giunto a destinazione, si trovetrà
erudito su una quantità di dettagli personali che non gli
competevano né interessavano affatto.
Poi, beh... ci sono le eccellenze.
Il colpo di teatro.
Il virtuosismo.
Il capolavoro, insomma!
...l'episodio che più di altri ti rode
il culo, e ti fa chiedere a chi potresti fare ingoiare il costoso
abbonamento ai mezzi pubblici che conservi in tasca.
Vettura praticamente vuota, come quasi
sempre alle 18 del pomeriggio. Ad attendere la partenza del bus: il
sottoscritto e una ragazza di colore. L'autista sale ridendo in
compagnia di ben tre esuberanti compari che – per gli abitué è
subito chiaro – faranno tutto il tragitto con lui. Non perde tempo,
e senza troppi complimenti si rivolge alla ragazza nera.
«Ma li fai da sola... o dal
parrucchiere?»
Si riferisce alla pettinatura rasta, a
treccioline fittissime, tipiche di alcune etnie di origine africana.
In effetti sono spettacolari. La ragazza risponde velocemente che no,
li intreccia da sola, e che la procedura è meno lunga di quanto
possa sembrare. L'autista sembra seriamente interessato. Il più
anziano dei suoi amici (quello che sembra più composto) afferma che
la pettinatura della giovane è un'opera d'arte. Se non altro, il
nonno è galante. L'autista rilancia.
«Ma quando fai lo shampoo li tieni
sempre così?»
La ragazza conferma.
«Sta' attenta, stai. Così ti
restano tutti bagnati dentro le trecce. Male ti fa! E' così che
viene l'artrosi cervicale. Accura!»
Ripete questa sentenza un paio di
volte. Quindi, esaurito il paternalismo, si mette al volante e la
vettura parte tra urla e sghignazzi. Cerco di rilassarmi, seduto al
mio posto, guardo fuori dal finestrino e ripasso mentalmente le cose
che dovrò fare una volta sceso dal bus. D'un tratto, ecco che la
vettura si ferma, nel bel mezzo della strada, lontanissima da
qualunque fermata.
«Picchì ti frmasti?»
«L'amico 'cca avi pitittu!»
La bussola davanti si apre. Uno dei
troll scende, gira intorno alla vettura e s'incammina neanche troppo
speditamente verso un panificio dall'altra parte della strada.
«Dicia ca scunucchiava du pitittu!»
Guardo l'orologio mentre i minuti
passano. La vettura è ferma sul lato di una strada trafficata.
Simili a fantasmi sfuggenti, mi attraversano la mente chimere come il
famigerato “non parlare al conducente” e il divieto di scendere
fuori fermata. I minuti passano. Non molti. Ma abbastanza, per me che
ho premura, per me che ho pagato la corsa. Nell'attesa che l'amico
abbia fatto la sua spesa personale, autista e troll rimasti
continuano i loro ragionamenti e le loro risate. Che c'è di strano?
In fondo è il soggiorno di casa loro. Io e la ragazza con
l'acconciatura a treccine restiamo seduti. Non abbiamo necessità di
acquistare il pane. Né le sigarette o altro. E neppure di fare pipì.
Speriamo solo di arrivare a destinazione, quindi non possiamo fare
altro che stare seduti ad aspettare. Finalmente il troll ca
scunucchiava du pitittu torna con una busta piena di pane. Cosa
strana, non ne mangia neppure un pezzetto. Si sarà strafogato di
qualcosa dentro il panificio? Non è impossibile. Il tempo non gli
sarebbe mancato.
E alla fine la vettura riparte. Verso
nuove avventure. Nuovi spettacoli palermitani. Alla scoperta di
strani, nuovi mondi. E di quella cosa aliena chiamata civiltà.
domenica 3 novembre 2013
Linea 103: Nord e Sud
Palermo. Linea 103. Capolinea.
Come sempre, la vettura è quasi vuota.
Nel prendere posto, incontro uno degli autisti che, in attesa di partire, conversa con un giovane immigrato, forse indiano. I toni del discorso sono rozzi, ma tra i due non c’è vera tensione. So dai viaggi precedenti che il giovane è un passeggero abituale del bus, conosciuto dalla maggior parte degli autisti che, di norma, lo trattano in modo amichevole, sebbene paternalistico.
- Devi piantarla di addormentarti sull’autobus, capito?
- Ma... io... stanco...
- Non importa, devi restare sveglio. Se me lo combini un’altra volta, ti arriva una secchiata d’acqua. Poi non dire che non ti ho avvertito.
- Ma io... sonno...
- Se dormi, e mi capita di fare una frenata brusca... Ti sfasci il muso per terra, capito?! E la responsabilità è mia. Quindi non azzardarti a dormire. Giuro. Se ti becco un’altra volta a russare, la doccia ti faccio.
Dalla bussola aperta sale un nuovo passeggero. Si tratta di una donna di mezza età, biondastra, dinoccolata, ben vestita. Anche lei visibilmente assonnata. Si rivolge all’autista con un marcato accento emiliano.
- Mi scuuusiii, dovrei andaaare al palaaazzo del reeeettoraaato. Lo Steri di Paleeermooo. Questa liiinea ci va, veeero?
L’autista esita un attimo. Tenta di rammentare dove si trovi esattamente il rettorato. Suggerisco istintivamente.
- E’ a piazza Marina.
La signora conferma.
- Mo siiì, è là deeevo andaaare.
L’autista sorride.
- Che vuole farci? Sono un po’ ignorante.
Torna a conversare con il giovane indiano e a raccomandargli di non addormentarsi. Il tono della conversazione si fa sempre più scherzoso. Anche troppo.
- Non dormire, intesi. Io ti controllo. Lo vedo che stai per chiudere gli occhi.
- Cooome tra poooco farò anch’iiio.
A parlare è stata la signora del Nord. Si mette a sedere palesando torpore.
- C’è un conveeegno allo Steeeri. Oggi dovrebbe finiiire. Mo sooono stanca anch’iiio. Tra poooco potrei cadere addormentaaata come quel ragaaazzo.
- E’ un bravo ragazzo, signora. E’ impiegato. Ed è sposino. Di giorno lavora. La notte fa... il suo dovere. Mi sembra chiaro che abbia sonno. Ma tu non azzardarti a dormire, sai! Nel caso della signora chiuderei un occhio. Perché è una turista... Ed è un caso eccezionale... Ma tu non provarci...
- Ah! Mo da cooosa l’ha capiiiiiito che sooono una tuuuriiista.
Seguono vaghi convenevoli, che ci spiegano che la signora è di Bologna, che si trova a Palermo da qualche giorno per seguire un convegno medico. Si parla delle attrazioni della città. La signora del Nord ha fatto un piccolo tour con degli amici, ma è davvero assonnata e non sembra gran che entusiasta.
- Sì. Ieri seeera a Mondello, ovviameeeenteee. M’han fatto vedeeere questo, quest’aaaltro. Per mangiare, ieeeri c’era il catering del conveegno. Mo staseeera nooo. Andremo fuooori do qualche paaarteee.
- E cci piace a Sicilia, signò.
Brevissima, stranissima pausa. Giusto il tempo che ci vuole a un neurone per ruttare.
La sciura sbadiglia, stiracchiandosi sul sedile.
- Le diiirò. Per meee... la Siciliaaaa... un terremooooto, un mareeemoooto, ci vorreeebbe, che la facesse scivolaaare fino alle coooste dell’Africa. Dovrebbe finire E RESTARE lì, la Siciiiiliaaa.
E’ seguito un istante di gelo. L’autista e io ci siamo scambiati un rapidissimo sguardo fatto di sconcerto, imbarazzo e (almeno dal mio punto di vista) disgusto. Ma la “signora” non aveva ancora finito di farsi conoscere.
- A meee piacciono gli uomini che lavooorano. Non quelli che alle 14 hanno già finito e non fanno più un caaazzooo.
E sì, perché la sciura biondastra, slavata, dinoccolata, ben vestita e pure laureata, oltre ad avere becere uscite razziste, ha anche spesso il cazzo in bocca. Pure un bel “minchia” a un certo punto fa la sua comparsa sbarazzina su quelle impunite labbra dipinte.
- Perché quiii non faaate una miiinchia, e vi fooottete tutti i nooostri soooldi.
L’autista sogghigna. Si trova sul luogo di lavoro, deve pensarci bene prima di prendere di petto un utente del servizio.
- Emmm... Noi qui... lavoriamo tutto il giorno. Quindi... dovremmo essere a posto.
La sciura fa spallucce e si dispone come se volesse davvero lasciarsi andare e dormire durante il viaggio. Mi chiedo se è il caso di dire qualcosa. Magari una battuta bruciante. Ma siamo ancora al capolinea, mi tocca fare tutto il viaggio con questa creatura seduta vicino e non ho nessuna voglia di far partire un dibattito che non porterà altro che frustrazione. Però ho come un presentimento, gli sviluppi di questo teatrino promettono di essere interessanti. Così scelgo di attendere, e osservare. L’autista ha assunto un atteggiamento difficile da decifrare. Sembra tra l’imbarazzato e il divertito, con una punta di stizza. La butta sui luoghi comuni, ridacchiando.
- A nuatri invece PIACCIONO le bolognesi, signò. Io ci avissi proprio voglia di mangiare un beddu piatto di gnocchi alla bolognese. Ma dove andare per trovarli buoni?
La “signora” ovviamente non ha dubbi.
- Mo a Bolooognaaa, mio caaaro.
Intanto s’è fatta l’ora della partenza. Il bus si muove. Il giovane indiano sta veramente per addormentarsi. La “signora” non è da meno. Presto socchiude gli occhi. Mi scopro a pensare che non le ho visto obliterare il biglietto. Certo, potrebbe essere abbonata, o avere in borsa un ticket ancora valido da una precedente corsa. Eppure chissà perché la sua stucchevole volgarità di leghista impudente mi fa attendere un colpo di scena. Uno sviluppo ideale. Qualcosa che darebbe un senso al mio silenzio, alla mia attesa cinese per le sorti del nemico e allo stomachevole frangente tutto.
Attraversiamo il centro. Superato il Teatro Massimo, un sonoro: “Buon pomeriggio, signori” segnala l’ingresso in vettura di due controllori. Durante il tragitto, il 103 non si riempie mai molto, e il controllo si svolge rapidamente, in questo caso senza incidenti. Almeno finché la sciura non riapre gli occhi, si rizza a sedere, e comincia a frugare nella borsa in modo convulso.
- Mooo tu guaaarda! Non trooovo piiù il miiio biglieeetto. Mo le assiiicurooo. Sono saliiita poooco faaa.
Bugia.
La rea colta in fallo cerca istintivamente la connivenza dell’autista.
- Mi ha visto, lei, mentre faceeevo il biglieeetto.
Altra bugia.
L’autista, senza togliere gli occhi dalla strada, accenna un vaghissimo, assenso (si suppone per generico cavalierato o per l’ancor più generico modus palermitano: “Iu un sugnu spiuni”). Ma mentre la “signora” continua a cercare nella borsa e a lagnarsi per aver perso il biglietto appena fatto, lui sogghigna, agita la mano destra tenendo dritti indice e pollice, e sospira: “Un ci l’avi”.
Non resisto. Mi accosto all’autista. Lui intuisce cosa sto pensando e mi rivolge un sorriso sardonico. Gli bisbiglio:
- Giusto per sfogarmi... Per lei la Sicilia dovrebbe scivolare fino all’Africa... Ma viaggiare sugli autobus di Palermo, senza pagare biglietto come un immigrato nullatenente, sembra le piaccia.
I controllori hanno chiesto alla “signora” di esibire un documento e stanno già redigendo il verbale per emettere la multa (salata) che tocca ai passeggeri trovati sprovvisti di biglietto. Mi scopro a pensare che è un toccasana, per una volta, vedere applicare la procedura a questa stronza invece che a uno dei soliti extracomunitari. Il controllore più giovane ha notato il mio scambio di battute con l’autista e gli prende la fregola di inquisirmi.
- Qual è il suo problema?
- Nessuno, pensi un po’.
- No, mi dica. Vuol parlarmi di qualcosa?
E’ chiaro che l’amico ha interpretato il mio rivugghio come insofferenza nei confronti del controllo (in realtà, per una volta, mi trovavo a godere di un piacere sadico nel vedere multare qualcuno).
Dal posto di guida interviene l’autista.
- Niente di serio. Io e il signore avevamo un discorso aperto dal capolinea.
- Ah, ok.
Il giovane sceriffo si fa finalmente persuaso che non sono un pericoloso oppositore del sistema. Si scusa e torna a occuparsi della “signora”.
- Con la ricevuta della multa, signora, può viaggiare. Se dovesse, più tardi, ritrovare il biglietto, potrà contestare la contravvenzione.
- Mooo siiì, graaazieee.
Era chiaro che non avrebbe potuto.
A pochi passi dallo Steri, e dal convegno di medicina cui quella caricatura laureata era diretta, scendo sentendomi un po’ più leggero. Giusto un pochino.
Trovo la dinamica di questo episodio drammaturgicamente esemplare, neppure fosse stato un copione scritto per uno sketch satirico. Il razzismo è sempre sintomo di un infimo livello intellettuale, e questo a dispetto di qualunque teoria o orpello ideologico voglia ammantarsi. La sciura bolognese di cui sopra era probabilmente un’elettrice della Lega Nord, ma questo non è sufficiente a qualificare né il suo personaggio né lo spettacolo miserrimo che ha offerto su un autobus di Palermo. Performance, didascalicamente introdotta dal greve prologo che aveva visto come protagonista un giovane immigrato.
Si può essere leghisti... O meglio... Va bene! Non capisco fino in fondo come si possa esserlo, OK, lo ammetto. Ma diciamo che posso concepire l’esistenza di una visione politica opposta alla mia. Eppure qui, parlare di orientamento politico non basta. La battuta sul terremoto e il provvidenziale slittamento della Sicilia lontano dall’Italia, starebbe bene recitata tra bifolchi in un’osteria del Nord. Qui è una signora (docente o ricercatrice universitaria) in terra di Sicilia, che rivolgendosi agli autoctoni non frena il suo rigurgito razzista, intavolando una conversazione che non solo esprime un capacità di elaborazione perlomeno rozza, ma soprattutto una maleducazione di proporzioni costernanti. Per non parlare dell’idiozia di fondo di chi ritiene di essere toco lasciando libero di spurgare senza selezione qualunque liquame stia ribollendo nell’angusto spazio della sua testa.
Ma parliamo del biglietto... Quel biglietto assente, non pagato e non obliterato, che è costato una multa a questa fine pensatrice. Quel biglietto assente che tanto spesso causa guai (contravvenzione, identificazione in polizia, pubblica umiliazione) a tanti immigrati. Anche se tecnicamente in difetto, in molti casi è lecito pensare che alla base del mancato pagamento da parte di certi individui ci sia una realtà di miseria, un lavoro sicuramente in nero e un goffo tentativo di risparmiare sulle piccole spese, come il biglietto del bus, appunto. Chi ruba per fame e chi per capriccio, forse andranno inevitabilmente incontro alla stessa sanzione legale, ma non certo allo stesso giudizio morale. Di sicuro, non il mio.
Non accetterò mai di mettere sullo stesso piano extracomunitari in palese difficoltà e italiani benestanti. Gente come questa dinoccolata, annoiata e razzista dottoressa bolognese, che si risciacqua la bocca sentenziando sulla Sicilia e sui suoi ignavi abitanti, per poi non pagare il biglietto, incappare nel controllo, far scena e cuccarsi una meritata multa. Esattamente come uno dei tanti immigrati, quotidianamente sorpresi e puntualmente sifonati dagli impiegati dell’azienda.
Una figura di merda. Esemplare nella sua boriosa condotta, che sfoggia una svenevole superiorità culturale per poi cadere rovinosamente con il culo per terra, dimostrando di spregiare le regole, e di saper mentire anche davanti all’evidenza, come un autentico pezzente.
Negli studi antropologici, insegnano a usare la parola etnocentrismo. Termine che indica un atteggiamento che il sociologo o lo studioso di tradizioni popolari deve assolutamente evitare. Quello di rapportarsi ad altre etnie usando come strumento di paragone il proprio retaggio culturale, istintivamente vissuto come il migliore possibile. Un sinonimo neutro per indicare un concetto molto prossimo a quello di razzismo. Peccato che al giorno d’oggi tanta gente frequenti l’Università, consegua dottorati e intervenga a convegni, conservando un tale livello di arretratezza e volgarità. Qualcosa che dovrebbe ricordare a noi italiani del Sud e del Nord, che potrebbe bastare spingersi non troppo lontano per sentirci apostrofare nel medesimo modo riservato agli immigrati che arrivano nel nostro paese.
Tutto sommato ci andrei anche a vivere in Africa. Restare solo con gli italiani... con certi italiani, può essere davvero dura. Adesso ho capito perché nel sentire la sciura snocciolare le sue stronzate mi ha causato una paralisi delle corde vocali.
Per certe cose non esistono parole. Lo aveva capito ed espresso molto bene lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, nel suo libro “Il razzismo spiegato a mia figlia” (Le racisme expliqué à ma fille), con le parole conclusive di quel bellissimo romanzo-dialogo affidate alla voce innocente di una bambina di dieci anni:
«Adesso dirò una brutta parola, papà. Il razzista è un porco.»
«Non è una parola abbastanza brutta, figlia mia.»
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martedì 10 gennaio 2012
Linea 103: Grandi Antichi
Palermo. Linea 103. In viaggio.
«Ooboshu shogg wgah'n y'hah!»
«Ah! Non si dicono queste cose!»
Le
sagome sono due. Occupano interamente lo spazio della bussola
anteriore, alla destra dell'autista. Uno lo si vede spesso sul bus. E
soprattutto lo si sente. Cavolo, se si sente. E' quello piccolo, magro,
dalla voce stentorea, senza vergogna. L'altro è più anziano, ma anche un
po' più imponente, con una voce rauca. Come al solito, è il primo,
quello basso, a tenere banco. Qualcosa, però, stavolta ha coperto in
parte il suo strepito. Forse il rombo di una motocicletta che ci
superava. Magari ero distratto, o forse ha parlato realmente in una
lingua aliena. Il commento di quello più alto, invece, arriva forte e
chiaro. Il tono è ironico. Non è un rimprovero, ma un assenso. Quasi una
pacca sulla spalla a un amico che ha appena detto una grande, scomoda
verità.
«Ooboshu shogg wgah'n y'hah!»
Ho già parlato dei grilli sparlanti,
vero? Sì, certo. Io li chiamo così. Sono quei signori, pensionati o
semplicemente sfaccendati, che viaggiano da un capolinea all'altro sulle
vettura della linea 103
conversando ad alta voce con l'autista come se fossero seduti al
tavolino di un bar. Esiste un vasto pantheon di questi personaggi,
ciascuno con abitudini e frequenze caratteristici. Ricordiamo che il 103
è da considerare una vera e propria carrozza fantasma tra i trasporti
urbani nella città di Palermo. Fantasma in quanto copre un tragitto
contorto, ed è pertanto poco frequentata (se non dagli sfortunati
habitué come il sottoscritto). Quindi è costantemente semivuota.
Fantasma anche giacché inafferrabile e dagli orari imponderabili, spesso
mutevoli a seconda della giornata o dell'autista di turno. Non a caso,
ho preso l'abitudine di scendere da casa per recarmi al lavoro con
cospicuo anticipo e, giunto alla fermata dalla quale dovrà partire la
mia corsa, mi guardo intorno per scoprire quali facce saranno al volante
durante la giornata. Ormai hanno tutti un nomignolo, la maggior parte
dei quali preferisco tenere per me. Ciascuno di loro ha ricevuto un voto
di affidabilità che tiene conto di puntualità, elasticità degli orari,
lentezza, strafottenza. Una faccia piuttosto che un'altra potrà quindi
segnalarvi se arriverete in orario o se fareste meglio a farvi un pezzo
di strada a piedi e ripiegare su un'altra linea.
Ma
qui sto divagando. In realtà volevo parlare ancora degli opinionisti,
dei grilli sparlanti... Insomma, di quei figuri che accanto al più o
meno compiacente autista dissertano durante l'intero percorso del bus,
facendo della vettura semivuota un vero e proprio talk show su quattro
ruote. Uno show il cui taglio giornalistico non può essere scelto
dall'utente, destinatario finale e passivo di commenti all'attualità di
caratura ragguardevole. No, davvero. Giacché lo spettacolo è comunque
assicurato, e in qualche caso anche i brividi. Neanche si fosse pagato
il biglietto per assistere all'ultima sconvolgente pellicola del terrore
che – promettono gli strilli sui manifesti – è un vero pugno nello
stomaco.
Sì,
perché la linea 103 – ormai lo so... l'ho sentito nelle viscere – non è
soltanto un autobus. Non è una vettura più o meno lurida e sgangherata,
senza orari precisi, che bene o molto male (se hai fortuna, e non
becchi l'imprevedibile “mancata smonta”, che neanche sai cosa voglia
dire) ti porterà a destinazione. No, la 103 è qualcosa di esoterico. Di
misterioso, inquietante. Il viaggio che ogni giorno mi porta al lavoro
spalanca, di fronte a quanti hanno occhi per vedere, pozzi infernali e
promesse apocalittiche che farebbero un baffo a quei buontemponi di
maya. Lo sapeva H.P. Lovecraft,
lo scrittore di Providence, quando nei suoi racconti del terrore ci
narrava dei Grandi Antichi, dei loro iniziati e della melma primordiale
che presto sarebbe riemersa dall'abisso per ingoiare la terra con buona
pace del genere umano e del suo miserevole progresso.
Che
esagerazione! Credete? Tutto sta a vedere quanto siete iniziati agli
osceni misteri di Cthulhu, l'immenso orrore divino che esulta nella
marcescenza.
Io ho visto. Ho sentito. E ora so.
So
che la linea 103 non è un qualunque autobus, ma la biga di Nyarlathotep
(altrimenti detto Caos Strisciante). Il messaggero oscuro, l'Ermete
degli Antichi. E gli opinionisti su quattro ruote, quegli apparentemente
innocui signori, per lo più formatisi su Il Giornale e La Gazzetta dello Sport, non sono che i profeti... meglio: le bocche umane prestate al nefando araldo della tenebra primordiale.
«Ooboshu shogg wgah'n y'hah!»
Il
piccoletto calvo, dalla voce squillante ha parlato nella lingua del
grande Cthulhu. A modo suo, da sacerdote dell'abisso, sta annunciando
l'imminente ritorno del male primigenio. Ci vuole molto studio, essere
pazzi o essere un iniziato per coglierne al volo il senso.
«Ah! Non si dicono queste cose!»
Il
tipo più anziano ha appena esclamato questa frase con il medesimo tono
di chi afferma: «Parole sante!». Non esita più di tanto. Poi passa
finalmente alla traduzione.
«Che ti pare! Ne hanno grilli per la testa, queste. Fai conto... tra poco pretenderanno che i piatti li laviamo noi maschi.»
«Hlirgh gof'nn mnahn'!»
Come un rimestare di melma ribollente... Così la sua voce, così le mie viscere.
Una
volta è un caso. Ma adesso no. Mi arrendo all'evidenza. Il piccolo
profeta è posseduto. Attraverso la sua bocca sta parlando Yog-Sothoth, l'Altrove...
il dio demente che gorgoglia e bestemmia nel vuoto per l'eternità. Il
suo traduttore umano, placido e rauco, commenta in lingua umana affinché
non resti speranza alle ultime orecchie ancora innocenti.
«Femmine! Le hanno tutte loro! Na cosa sula ci manca. U ciriviaddu!»
Il
dialetto della mia Sicilia non m'era mai sembrato tanto simile ai
blasfemi linguaggi proposti da Lovecraft nei suoi miti dell'orrore. I
due araldi dell'abisso continuano la loro conversazione a fianco
dell'autista.
«Manca picca! Vulissiru cumannari idde! U sesso debole! Ma su cretine!»
«Seeee. E cu da cosa... SE NON ORA QUANDO?! Tantu su cretine ca si fannu usare da cu è gghiè na piazza!»
«I piatti s'avissiru a lavari, e mute. Oddio, certo... ci su pure chidde sperte. Qualcuna.»
«Nafl-lw'nafh ph'-s'uhn! Tharanak syha'h!»
A
questo punto ero davvero in preda al terrore. Saltare giù dalla vettura
sarebbe sembrato consigliabile, ma il dialogo degli iniziati, che
procedeva fitto, sempre più osceno e indecifrabile, mi gelava
immobilizzandomi. Avevo appena toccato con mano il vero orrore cosmico
cantato da H. P. Lovecraft. La prova definitiva che la linea 103 non è
un normale autobus, no. Ma un varco, una porta temporale che collega il
nostro tempo con un'età remota, cupa e grezza, da cui strisciano fuori
cavernicoli ringhianti e mostruosità antidiluviane. Altro che le
anomalie spazio-temporali dei telefilm di fantascienza. Decenni di
progresso sociale, di conquiste, di sogni sanguinanti, di martirio e
duro lavoro... insomma, di faticoso cammino dell'umanità, spazzato via
da poche impronunciabili sillabe. Ed ecco aprirsi sotto i nostri piedi
un baratro che ci fa sprofonda direttamente nel passato, nelle tenebre
primordiali dove ogni luce è bandita, e dove il mostruoso Cthulhu e i
Grandi Antichi dimorano sovrani, imprecando stolidamente per sempre.
Da
qualche parte, un negromante ha aperto le porte. Ha trovato i canali
giusti e ha pronunziato gli osceni incantesimi spalancando i cancelli
all'avvento del caos. I Grandi Antichi sono tra noi. Sono emersi da un
passato polveroso che credevamo superato. Sono strisciati rapaci fuori
dai tubi catodici, dall'odore acre della cattiva stampa, dalle inutili
risa e clamore dei più volgari spettacoli...
I Grandi Antichi avanzano, stroncando una dopo l'altra ogni speranza del genere umano di potersi realmente evolvere.
Il
103 dispensa il loro vangelo tenebroso per la città, ma il tristissimo
odore è già per ogni dove. Sappiatelo, donne. Meditate, uomini. Essi
sono tornati, sono feroci, e godono della propria verità... urlata senza
pudore. Stanno vincendo. Lo svilimento del linguaggio è un'arma
potente.
E
io, povero illuso, che pensavo di viaggiare su un bus e tenere un
diario di facezie... ignoravo di stare compilando quello in cui lo
stesso Lovecraft, oggi, vedrebbe forse il vero Necronomicon.
martedì 26 aprile 2011
Linea 103: Parole in libertà
Palermo. Linea 103.
E’ frequente, spostandosi con l’autobus, di incontrare (e soprattutto ascoltare) una figura che ormai da tempo fa parte integrante del folklore dei mezzi di trasporto pubblici. Io li chiamo grilli sparlanti, ma la loro densità e frequenza li rende più simili a delle fameliche cavallette. Almeno è così a Palermo, dove non è affatto raro che signori (infatti per lo più si tratta di uomini) trascorrano tutto il viaggio in piedi vicino all’autista, concionando, speculando, filosofeggiando, in un modo più o meno fluente e sonoro. Insomma, il sistema più veloce per rendere obsoleto e surreale il classico avvertimento “Non parlate al conducente”, che ancora continua a essere appeso sulla testa di autisti e loro confidenti con una funzione molto simile a quella del povero crocifisso, tenuto ancora devotamente appeso alla parete, ma solo per essere reso testimone delle peggiori sconcezze.
I grilli sparlanti, dicevamo, sono spesso maschi, solitamente di mezza età, spigliati e ovviamente chiacchieroni. A volte si tratta di pensionati in cerca di un’anima con cui comunicare, magari un poveraccio con le chiappe incollate alla sedia da un contratto di lavoro. Altre volte si tratta di poveri pazzi, più o meno farneticanti. In molti casi, si tratta invece di veri e propri habitué, se non amici personali dell’autista. Gente che, percorrendo quotidianamente il medesimo tragitto, lo impiega nel modo più naturale, facendo conversazione con qualcuno con cui hanno (o hanno stabilito con la frequenza) un minimo di confidenza e affinità.
Nel caso della linea 103 di Palermo, il fenomeno si fa particolarmente marcato. Soprattutto in determinati orari, come il primo pomeriggio, alla partenza dal capolinea di fronte alla Stazione Notarbartolo. Il tragitto contorto e la scarsa affluenza di passeggeri, per non parlare delle dimensioni delle vetture, spesso molto ridotte, fanno di questo bus qualcosa di facilmente confondibile con un piccolo salotto. Il primo risultato è che il volume della conversazione tra grillo sparlante e ascoltatore al volante si alza in modo pernicioso, i freni inibitori cadono, e i passeggeri si trovano costretti, senza possibilità di scelta, a essere testimoni di conversazioni cui, forse, preferirebbero non assistere. Comprensibilmente, l’argomento più frequente è il calcio, le sorti del Palermo, e non solo di quello. E’ incredibile per un profano quanto un fitto discutere di sport (condito con colorite maledizioni ed elogi) possa assomigliare a una lingua straniera. Quel che resta è un vago «dovrebbero rompere le ossa a quel giocatore lì», «quello ormai è finito» e cosette del genere, noiose e incomprensibili, ma tutto sommato innocue. Poi si sconfina nel territorio minato del commento politico... e lì l’intelligenza inizia a patire il martirio di San Sebastiano. Il volume è alto. L’ambiente su quattro ruote chiuso. L’orrore incombe.
Lui si fa notare perché sembra un muppet ossuto e dalla voce squillante. Il tipico anziano ragazzino siciliano che non le manda a dire. Mattatore sulla maggior parte delle corse della gloriosa linea di trasporti urbani. Una voce che ormai si riconosce a occhi chiusi, tanto è presente, chiassosa, sicura di sé e che il proprio sparlare a ruota libera, tanto vicino a orecchie estranee, sia una cosa davvero di poco conto.
Inevitabile, quindi, non notarlo. Non notare lui, e non notare il suo comportamento in quel particolare pomeriggio.
Sorvolando sul consueto minestrone di analisi politica d’accatto, fatto di luoghi comuni e slogan predigeriti di una destra ormai in pieno delirium tremens. Guadando stoicamente paludi ideologiche dove fioriscono gemme come «quando Berlusconi non ci sarà più, per loro andrà tutto bene, e smetteranno di fare manifestazioni», o «tutte queste donne che si stanno facendo strumentalizzare dalla sinistra», ci si avvicina alla vera savana. Quella dove ci sono i leoni, quella che – forse, vuoi vedere? – ancora suscita soggezione in qualcuno...
Parliamo di immigrazione. Anzi, di immigrati. Anzi di clandestini (ma dov’è la differenza, si chiede qualcuno sull’autobus)...
Il muppet calvo, dalla faccia tonda, dalla parlata a mitraglia, sonora e impudente, esprime la sua ennesima grande verità.
«Riguardo questi immigrati, questi clandestini... C’è poco da fare! Io sono d’accordo con quello che diceva mio suocero! Mio suocero aveva ragione, certo! Diceva...»
Ehi! Che cavolo è successo?!
D’un tratto il volume di quella macchinetta cinese da cui scaturiva una vocetta fessa in grado di spaccare timpani e santissimi si era abbassato di colpo. Non tanto da non fare udire quali fossero le sagge, immense parole del venerato suocero, ma abbastanza per far notare il brusco cambiamento di registro. Sulla vettura saremmo stati seduti in cinque, forse meno. Non so se i passeggeri più distanti siano riusciti a cogliere questa perla come il sottoscritto, pericolosamente vicino al retore in viaggio. Fatto sta che questo improvviso abbassamento dei toni, suscitò per contrasto una fulminea impennata di attenzione nell’uditorio. Almeno per me funzionò così.
A voce bassa, quasi sussurrata, come in confessione. Un sussurro...
«Mio suocero diceva che sono stati ‘sti nivuri a portare in Italia delinquenza e tutte le malattie e i virus che ci fanno ammalare adesso. E aveva ragione, mio suocero!»
Ma allora, cazzo, perché disonori la memoria di quel povero vecchio reazionario abbassando la voce? Proprio mentre affermi che aveva ragione, poi. Inizi facendo squillare le trombe, e poi? Giù, giù... come un sorcio avvistato da un gatto che se ne torna strisciando nella tana.
Non mi dirai che, dopotutto, nascosta da qualche parte nei recessi della tua mente, provavi vergona per quanto stavi per dire? Non sarà che articolare quelle parole ignoranti, semplicistiche e sciocche, uscite dalla bocca di un vecchio fascista ti ha provocato un riflusso di pudore? Non fosse altro perché ti trovavi in pubblico, e sapevi che dire certe cose, anche se ne sei persuaso, è un po’ come ruttare rumorosamente e non ti fa fare bella figura?
Sia chiaro. Io penso che tu abbia fatto bene. A vergognarti, intendo. E trovo che il fatto di avere abbassato istintivamente la voce, suggerisca, che forse c’è una vaga speranza.
No, non per il grillaccio in questione. Troppo avanti negli anni. Mi piace pensare che forse c’è speranza per il sentire italiano. Che per quanto ammorbato da un clima culturale retrivo e volgare, le viscere di qualche soggetto, forse, riescono ancora a produrre una scintilla, magari non del tutto consapevole, di genuina vergona. Quella vergogna che ti fa abbassare la voce, perché in fondo sai che intorno a te potrebbe esserci qualcuno che ti guarderà come si guarda uno stronzo di cane, e sotto sotto non sei del tutto sicuro che abbia torto. Quella vergogna sana che prelude alla possibilità di maturare, e che non si adagia sull’attuale sdoganamento dell’indicibile e delle porcate.
Oriana Fallaci, dopo aver pubblicato nel 2001 sul Corriere della Sera la sua nota invettiva contro l’Islam intitolata La rabbia e l’orgoglio, rintuzzò pubblicamente le polemiche che il suo articolo aveva suscitato dichiarando: «Io dico cose che tutti pensano, ma che nessuno ha il coraggio di dire!»
Non si fece attendere troppo la risposta di una cabarettista arguta come Sabina Guzzanti, che replicò: «Se nessuno ha il coraggio di dire certe cose, una ragione dovrà esserci. Tu andresti in giro a dire: “ho appena scoreggiato, speriamo che nessuno se ne accorga”? Eppure è una cosa che a tutti capita di pensare.»
Al di là delle battute, Oriana Fallaci si sbagliava. Di più. La sua affermazione sul coraggio di esprimere la propria opinione per quanto impopolare, era di un’ingenuità sproporzionata per una giornalista della sua caratura. In verità, era ed è sufficiente entrare in qualunque bar, o semplicemente prendere l’autobus, per scoprire che l’orgoglio della Fallaci era una virtù già radicata nel popolo. La capacità virtuosa di scoreggiare dalle fauci e non dal più prosaico buco del culo può rendere, secondo alcuni, i miasmi della propria lordura interiore più presentabili. E per questo lo fanno, senza vergogna, senza misura e senza pietà per nessuno. Incoraggiati da un clima che inneggia all’impudenza e premia la volgarità. Oriana Fallaci era stata semplicemente in grado di mettere determinati contenuti in bella forma secondo il mestiere che le competeva. Non certo di mutarne la natura, il colore, l’odore.
Tuttavia, c’è forse una pallida speranza, se qualcuno si vergogna ancora. Se qualcuno non riuscendo a trattenersi in pubblico, si lascia andare, ma spetazzando a mezza bocca, con una puzzetta da signorina di buona famiglia. Proprio come il grillaccio sul bus, che elogia e afferma di condividere il razzismo del suocero, ma con una timida flatulenza, un alone suggerito di fetore reazionario.
Peccato, però, che puzzi lo stesso. Tanto. E che la maggiore discrezione non ne mitighi a sufficienza la capacità di appestare.
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