Palermo. Linea 103.
E’ frequente, spostandosi con l’autobus, di incontrare (e soprattutto ascoltare) una figura che ormai da tempo fa parte integrante del folklore dei mezzi di trasporto pubblici. Io li chiamo grilli sparlanti, ma la loro densità e frequenza li rende più simili a delle fameliche cavallette. Almeno è così a Palermo, dove non è affatto raro che signori (infatti per lo più si tratta di uomini) trascorrano tutto il viaggio in piedi vicino all’autista, concionando, speculando, filosofeggiando, in un modo più o meno fluente e sonoro. Insomma, il sistema più veloce per rendere obsoleto e surreale il classico avvertimento “Non parlate al conducente”, che ancora continua a essere appeso sulla testa di autisti e loro confidenti con una funzione molto simile a quella del povero crocifisso, tenuto ancora devotamente appeso alla parete, ma solo per essere reso testimone delle peggiori sconcezze.
I grilli sparlanti, dicevamo, sono spesso maschi, solitamente di mezza età, spigliati e ovviamente chiacchieroni. A volte si tratta di pensionati in cerca di un’anima con cui comunicare, magari un poveraccio con le chiappe incollate alla sedia da un contratto di lavoro. Altre volte si tratta di poveri pazzi, più o meno farneticanti. In molti casi, si tratta invece di veri e propri habitué, se non amici personali dell’autista. Gente che, percorrendo quotidianamente il medesimo tragitto, lo impiega nel modo più naturale, facendo conversazione con qualcuno con cui hanno (o hanno stabilito con la frequenza) un minimo di confidenza e affinità.
Nel caso della linea 103 di Palermo, il fenomeno si fa particolarmente marcato. Soprattutto in determinati orari, come il primo pomeriggio, alla partenza dal capolinea di fronte alla Stazione Notarbartolo. Il tragitto contorto e la scarsa affluenza di passeggeri, per non parlare delle dimensioni delle vetture, spesso molto ridotte, fanno di questo bus qualcosa di facilmente confondibile con un piccolo salotto. Il primo risultato è che il volume della conversazione tra grillo sparlante e ascoltatore al volante si alza in modo pernicioso, i freni inibitori cadono, e i passeggeri si trovano costretti, senza possibilità di scelta, a essere testimoni di conversazioni cui, forse, preferirebbero non assistere. Comprensibilmente, l’argomento più frequente è il calcio, le sorti del Palermo, e non solo di quello. E’ incredibile per un profano quanto un fitto discutere di sport (condito con colorite maledizioni ed elogi) possa assomigliare a una lingua straniera. Quel che resta è un vago «dovrebbero rompere le ossa a quel giocatore lì», «quello ormai è finito» e cosette del genere, noiose e incomprensibili, ma tutto sommato innocue. Poi si sconfina nel territorio minato del commento politico... e lì l’intelligenza inizia a patire il martirio di San Sebastiano. Il volume è alto. L’ambiente su quattro ruote chiuso. L’orrore incombe.
Lui si fa notare perché sembra un muppet ossuto e dalla voce squillante. Il tipico anziano ragazzino siciliano che non le manda a dire. Mattatore sulla maggior parte delle corse della gloriosa linea di trasporti urbani. Una voce che ormai si riconosce a occhi chiusi, tanto è presente, chiassosa, sicura di sé e che il proprio sparlare a ruota libera, tanto vicino a orecchie estranee, sia una cosa davvero di poco conto.
Inevitabile, quindi, non notarlo. Non notare lui, e non notare il suo comportamento in quel particolare pomeriggio.
Sorvolando sul consueto minestrone di analisi politica d’accatto, fatto di luoghi comuni e slogan predigeriti di una destra ormai in pieno delirium tremens. Guadando stoicamente paludi ideologiche dove fioriscono gemme come «quando Berlusconi non ci sarà più, per loro andrà tutto bene, e smetteranno di fare manifestazioni», o «tutte queste donne che si stanno facendo strumentalizzare dalla sinistra», ci si avvicina alla vera savana. Quella dove ci sono i leoni, quella che – forse, vuoi vedere? – ancora suscita soggezione in qualcuno...
Parliamo di immigrazione. Anzi, di immigrati. Anzi di clandestini (ma dov’è la differenza, si chiede qualcuno sull’autobus)...
Il muppet calvo, dalla faccia tonda, dalla parlata a mitraglia, sonora e impudente, esprime la sua ennesima grande verità.
«Riguardo questi immigrati, questi clandestini... C’è poco da fare! Io sono d’accordo con quello che diceva mio suocero! Mio suocero aveva ragione, certo! Diceva...»
Ehi! Che cavolo è successo?!
D’un tratto il volume di quella macchinetta cinese da cui scaturiva una vocetta fessa in grado di spaccare timpani e santissimi si era abbassato di colpo. Non tanto da non fare udire quali fossero le sagge, immense parole del venerato suocero, ma abbastanza per far notare il brusco cambiamento di registro. Sulla vettura saremmo stati seduti in cinque, forse meno. Non so se i passeggeri più distanti siano riusciti a cogliere questa perla come il sottoscritto, pericolosamente vicino al retore in viaggio. Fatto sta che questo improvviso abbassamento dei toni, suscitò per contrasto una fulminea impennata di attenzione nell’uditorio. Almeno per me funzionò così.
A voce bassa, quasi sussurrata, come in confessione. Un sussurro...
«Mio suocero diceva che sono stati ‘sti nivuri a portare in Italia delinquenza e tutte le malattie e i virus che ci fanno ammalare adesso. E aveva ragione, mio suocero!»
Ma allora, cazzo, perché disonori la memoria di quel povero vecchio reazionario abbassando la voce? Proprio mentre affermi che aveva ragione, poi. Inizi facendo squillare le trombe, e poi? Giù, giù... come un sorcio avvistato da un gatto che se ne torna strisciando nella tana.
Non mi dirai che, dopotutto, nascosta da qualche parte nei recessi della tua mente, provavi vergona per quanto stavi per dire? Non sarà che articolare quelle parole ignoranti, semplicistiche e sciocche, uscite dalla bocca di un vecchio fascista ti ha provocato un riflusso di pudore? Non fosse altro perché ti trovavi in pubblico, e sapevi che dire certe cose, anche se ne sei persuaso, è un po’ come ruttare rumorosamente e non ti fa fare bella figura?
Sia chiaro. Io penso che tu abbia fatto bene. A vergognarti, intendo. E trovo che il fatto di avere abbassato istintivamente la voce, suggerisca, che forse c’è una vaga speranza.
No, non per il grillaccio in questione. Troppo avanti negli anni. Mi piace pensare che forse c’è speranza per il sentire italiano. Che per quanto ammorbato da un clima culturale retrivo e volgare, le viscere di qualche soggetto, forse, riescono ancora a produrre una scintilla, magari non del tutto consapevole, di genuina vergona. Quella vergogna che ti fa abbassare la voce, perché in fondo sai che intorno a te potrebbe esserci qualcuno che ti guarderà come si guarda uno stronzo di cane, e sotto sotto non sei del tutto sicuro che abbia torto. Quella vergogna sana che prelude alla possibilità di maturare, e che non si adagia sull’attuale sdoganamento dell’indicibile e delle porcate.
Oriana Fallaci, dopo aver pubblicato nel 2001 sul Corriere della Sera la sua nota invettiva contro l’Islam intitolata La rabbia e l’orgoglio, rintuzzò pubblicamente le polemiche che il suo articolo aveva suscitato dichiarando: «Io dico cose che tutti pensano, ma che nessuno ha il coraggio di dire!»
Non si fece attendere troppo la risposta di una cabarettista arguta come Sabina Guzzanti, che replicò: «Se nessuno ha il coraggio di dire certe cose, una ragione dovrà esserci. Tu andresti in giro a dire: “ho appena scoreggiato, speriamo che nessuno se ne accorga”? Eppure è una cosa che a tutti capita di pensare.»
Al di là delle battute, Oriana Fallaci si sbagliava. Di più. La sua affermazione sul coraggio di esprimere la propria opinione per quanto impopolare, era di un’ingenuità sproporzionata per una giornalista della sua caratura. In verità, era ed è sufficiente entrare in qualunque bar, o semplicemente prendere l’autobus, per scoprire che l’orgoglio della Fallaci era una virtù già radicata nel popolo. La capacità virtuosa di scoreggiare dalle fauci e non dal più prosaico buco del culo può rendere, secondo alcuni, i miasmi della propria lordura interiore più presentabili. E per questo lo fanno, senza vergogna, senza misura e senza pietà per nessuno. Incoraggiati da un clima che inneggia all’impudenza e premia la volgarità. Oriana Fallaci era stata semplicemente in grado di mettere determinati contenuti in bella forma secondo il mestiere che le competeva. Non certo di mutarne la natura, il colore, l’odore.
Tuttavia, c’è forse una pallida speranza, se qualcuno si vergogna ancora. Se qualcuno non riuscendo a trattenersi in pubblico, si lascia andare, ma spetazzando a mezza bocca, con una puzzetta da signorina di buona famiglia. Proprio come il grillaccio sul bus, che elogia e afferma di condividere il razzismo del suocero, ma con una timida flatulenza, un alone suggerito di fetore reazionario.
Peccato, però, che puzzi lo stesso. Tanto. E che la maggiore discrezione non ne mitighi a sufficienza la capacità di appestare.
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