martedì 14 agosto 2018

"The End? L'inferno fuori" di Daniele Misischia



The End? L'inferno fuori” dell'esordiente Daniele Misischia è un film italiano di genere. Ok. Partiamo da questo dato scontato. E cioè che dopo un lungo silenzio, qualcuno in terra italica torna a percorrere quei sentieri dell'immaginario perturbante che nel nostro cinema è stato consegnato alla storia da nomi del calibro di Dario Argento e Lucio Fulci (ma prima ancora arrivò Mario Bava), soprattutto negli anni 70 e in parte negli 80. Tempi eroici in cui dire “di genere” aveva una valenza diversa da quella odierna. Principalmente dispregiativa. E in cui venivano prodotte pellicole di una genialità artigianale che spesso sarebbero state rivalutate solo dopo un lungo e colpevole atteggiamento di sufficienza culturale. Il film di Misischia (esordiente alla regia sul grande schermo, ma già rodato alla scuderia dei Manetti Bros) subisce l'ennesima angheria di essere distribuito a Ferragosto, per di più insieme a blockbuster con i quali la partita al botteghino è impari in partenza. E proprio per questo, pur con tutte le sue imperfezioni, è un film che si dovrebbe scoprire, godere e valorizzare. Sempre che – elemento necessario – siate cinefili e soprattutto amiate l'horror. O quel tono di sufficienza, molto anni 70, potrebbe tornare a mordervi come gli zombi di cui stiamo per parlare. Sì, perchè il film di Daniele Misischia si basa tutto su un'idea e sulla tecnica per fare di un limite virtù. E sono sforzi che bisogna sapere apprezzare.

The End? L'inferno fuori” è un film horror, dunque. Anzi, uno zombi-movie, di quelli che ormai fanno etichetta a sé. Ma è anche un esercizio di stile che combina più sottogeneri, tutti ascrivibili alla categoria più ampia del thriller. Il film vive inteamente nel suo spunto di partenza. Un apocalisse zombi (o di infetti furiosi e cannibali, ormai non importa più). Un uomo intrappolato in uno spazio angusto. Una serie di eventi terrificanti che si succedono al di fuori, e di cui c'è dato scoprire solo il punto di vista del protagonista. Quello offerto dalla finestra ricavata dalle ante semiaperte di un ascensore bloccato tra due piani. Rifugio e nello stesso tempo strumento di tortura, che porta lo spettatore a chiedersi dove sarebbe effettivamente meglio trovarsi? Se in trappola con il protagonista o fuori, alla mercé di un'orda di zombi famelici. Se in fuga là dove si può essere sbranati a ogni angolo o rinchiusi dove con molta probabilità si farà la fine del topo.

Potremmo definire questo sottogenere, un “punto di vista relativo”. Una narrazione classica ridotta alla visione soggettiva e parziale di un personaggio defilato. Un po' come nel film “Cloverfield”, dove la classica invasione del mostro gigante che mette a ferro e fuoco una città è raccontata attraverso gli occhi di un pugno di cittadini ignari di quanto sta succedendo, quasi venisse data voce alle comparse che si solito si limitano a correre urlando. Inevitabile è anche pensare aBuried”, film interamente ambientato nel chiuso di una cassa dove un uomo, sepolto vivo, cerca di darsi aiuto con un telefono e pochi altri arnesi. Il tutto collocato nello scenario ormai canonizzato dell'epidemia zombesca, in cui l'appassionato di horror sa perfettamente che cosa sta succedendo, ma dove l'ansia e il senso dello spettacolo è fornito dal crescendo di consapevolezza, terrore e reazione, dell'uomo intrappolato in uno spazio che ne limita i movimenti e la comprensione dei fatti. C'è poi quell'elemento che risale addirittura al teatro del Grand Guignol e agli orrori suggeriti più che mostrati. Sempre attraverso il telefono, come nel classico “Au telephone del drammaturgo francese André De Lorde, in cui un uomo in viaggio, attraverso l'apparecchio telefonico appena installato nelle case del primo novecento, ascolta impotente i suoni che descrivono l'assassinio della sua famiglia.

Il cinema di zombi, a partire dal suo capostipite romeriano, “La notte dei morti viventi”, nasce da subito come cinema della costrizione. Racconto d'assedio, dove l'inferno fuori è catalizzatore di discordia e orrori interni, secondo l'idea infernale immaginata da Jean Paul Sartre in “Porta Chiusa”. Qui l'assedio riguarda un singolo e il catalizzatore della paura non sono tanto gli zombi, quanto l'ignoranza di cosa succede fuori, e gli inesorabili sviluppi della catastrofe che si rivelano in dettagli mostrati dapprima con piccoli squarci di mondo esterno, e poi con una progressiva penetrazione dell'orrore all'interno. Se nella trilogia di George Romero gli zombi assediavano l'ordine costituito, la famiglia, l'istituzione, la società dei consumi, le forze dell'ordine e alla fine dichiaratamente il capitalismo, in “The End?” si scatenano all'interno di un complesso aziendale e tengono emblematicamente in ostaggio un imprenditore cinico e dispotico. Potremmo definirla una miniatura dei topos romeriani, dove sia il luogo dell'assedio (una casa, un ipermercato, un bunker... qui lo spazio angusto di un ascensore) e i totem da abbattere (qui riassunti in un unico personaggio simbolo) sono felicemente concentrati con un ottimo uso del ritmo e dello spazio scenico volutamente ridotto.


Allessandro Roja, volto della serie televisiva “Romanzo criminale” è funzionale al suo personaggio e alla lenta evoluzione (anche quella simbolica che affronterà). La performance non è forse memorabile, ma non necessita di esserlo in quanto il film vive di attese, suggestioni e vampate di terrore che l'interprete è in grado di reggere. Più incisivo è il giovane Claudio Camilli, che riempie lo schermo con la sua mole e il suo carisma non appena entra in scena, ed è il perno di alcuni dei momenti più intensi della pellicola. I comprimari, la maggior parte dei quali appaiono solo di sfuggita, e la moglie del protagonista (Carolina Crescentini, presente solo come voce al telefono) sono veicolo di tutti quei cliché che lo spettatore si aspetta, e che fanno parte del lavoro di attenta miniatura che la regia offre a un pubblico scafato, ma in grado di apprezzare la tecnica del racconto.
In definitiva, “The End? L'inferno fuori” è un riuscito, piacevole giocattolo per mettere paura. Senza esagerazioni, è un'opera prima da promuovere per la forma e la capacità di osare. Una variazione su un tema ormai abusato che trova i suoi punti di forza nella sottrazione anziché nell'eccesso. Un giocattolo che riesce persino a spaventare in più di una scena là dove pellicole mainstream hanno ormai rinunciato, oppure falliscono nel più frustrante dei ja vu. E se dovrà esserci un ritorno al cinema di genere italiano, magari possiamo considerare proprio il film di Daniele Misischia il punto da cui ripartire.

sabato 11 agosto 2018

Riscoprire "52"

 

Ho appena finito di rileggere "52", la saga settimanale che copre le 52 settimane seguenti all'evento DC "Crisi Infinita", e che sostanzialmente reintroduce il concetto di multiverso (cancellato anni prima da "Crisi nelle Terre Infinite"). Pubblicato nel 2006, scritta da Geoff Johns, Mark Waid, Grant Morrison, Greg Rucka e Keith Giffen, "52" illustrava l'anno del cosmo DC durante il quale i personaggi fondamentali di Superman, Batman e Wonder Woman erano scomparsi. I protagonisti, infatti, sono le retroguardie dell'universo narrativo, personaggi secondari o addirittura marginali, alcuni dei quali ripescati dal dimenticatoio editoriale. Un'operazione bizzarra, che si dipana come un grande feuilleton fitto di enigmi ben congegnati, in cui villains storici acquistano un definitivo spessore (soprattutto Black Adam) e nuovi eroi ricevono la loro consacrazione (la nuova Question e la nuova Batwoman). Un dipanarsi di trame e sottotrame intricate, complotti complessi, risvolti fantapolitici e squarci di space opera. Un mistery dove spionaggio e soprannaturale si mischiano, seguendo il cammino del detetive Ralph Dibny (l'ex Elongated Man) che cerca un modo per riportare in vita la moglie defunta, mentre il signore del tempo Rip Hunter (anche lui scomparso) muove dietro le quinte le fila di una machiavellica resistenza. Un storia supereroistica dedicata ai comprimari che è anche un ottima occasione per i neofiti di studiare un compendio di storia DC, e imparare ad amarla. In fondo, un gran bel lavoro nella sua particolarità. Peccato sia difficile recuperare tutti e 52 gli albetti (uno per settimana) che compongono la saga. Ma una ricerca che vale la pena di fare per chi non ha avuto occasione di leggerla.


mercoledì 1 agosto 2018

Hereditary


Ossessione. Infestazione. Possessione.
Visto “Hereditary” di Ari Aster. Film horror che divide il pubblico. Chi lo esalta, chi lo boccia senza appello. E tutto sommato un motivo c'è.

“Hereditary” è un'opera ambiziosa, volta a essere un horror d'autore. Ari Aster, regista giovanissimo al suo esordio, dimostra di non essere un velleitario qualunque, e di possedere delle felici intuizioni visive. Il problema è la confezione generale, la cesura quasi netta che sembra dividere il film in due blocchi narrativi collegati ma sotto certi aspetti non omogenei. Cosa che porta alla nascita di una creatura attraente, ma claudicante. Gioca la sua parte anche un'eccessiva caduta di stile nel finale, in cui la volontà di concludere in fretta sembra mostrare il conto a una regia interessante che giunta a quel traguardo ha però esaurito le cartucce, e si adagia in un manierismo che dopo tanta atmosfera risulta tanto più fastidioso. Parecchio fastidioso. Lacuna ancora più grave quanto tutta la prima parte del film è stata affascinante, sprecando in sostanza un buon potenziale e presentando in definitiva un'opera non del tutto compiuta.


Questo non rende “Hereditary” un film da buttare. Ricordiamoci, soprattutto, che ci troviamo di fronte a un'opera prima. E ad averne. Il giudizio si colloca in una posizione intermedia, una materia potenzialmente buona, una regia suggestiva e soprattutto un ottimo comparto attoriale guidato da una Toni Collette al suo meglio. Se non fosse per quello scotto pagato a una conclusione che se scritta con maggiore cura, se fosse stata più suggerita e meno declamata, magari avrebbe reso di più e conservato la solidità della prima ora. Diciamolo. “Hereditary”, come molti altri film di genere, echeggia spunti già visti, e in questo non c'è niente di insolito né di male. Nella fattispecie, a me ha ricordato “Darkness”, film spagnolo di Jaume Balaguerò del 2002, che presenta più di un dettaglio in comune con la narrazione di base del film di Aster. Dal mio punto di vista, il confronto tra questi due horror è curioso. Infatti, se in “Darkness” la rivelazione dell'intrigo soprannaturale e delle sue dinamiche aveva una sua efficacia drammatica, mostrata più che spiegata, “Hereditary” pecca proprio in questo, ma risulta (sempre a mio parere) più riuscito del film di Balaguerò dal punto di vista del ritmo e del crescendo preparatorio, laddove “Darkness” girava a vuoto senza seminare le suggestioni malate che invece nel film di Aster abbondano.


“Hereditary” si affida molto ai dialoghi, anche quelli che sono apparentemente relegati a rumore di fondo, per suggerire significati e dare un senso a quanto vedremo accadere sullo schermo. I vari riferimenti mitologici, uno scambio di battute tra madre e figlia, il ricordo di tragedie passate. Il racconto di spavento fa leva sulla memoria e sull'attenzione per il dettaglio dello spettatore. Se si guarda a questi elementi con occhio distratto, il film perderà un'altra ampia porzione della sua ragion d'essere. Come dicevo all'inizio, è un'opera ambiziosa che fallisce sul lungo tragitto, ma che è apprezzabile per le buone intenzioni e non lascia del tutto indifferenti. Al contrario, fornisce sequenze e situazioni che generano autentico raccapriccio (in senso emotivo, non come shock visivo, in ogni caso molto ridotto). I rapporti di causa e di effetto, le scelte dei personaggi (che quasi sempre finiscono col produrre un risultato opposto a quello che si proponevano di ottenere) esprimono un sottotesto fatalista e claustrofobico (reso benissimo dalla sovrapposizione con l'arte artigianale cui si dedica la protagonista, che realizza miniature in scala dei momenti cardine nella vita della propria famiglia) trovano la loro ragion d'essere in una verità angosciante espressa chiaramente sin dalle prime battute del film. Per questo “Hereditary”, nonostante l'intrusione non sempre ben gestita del tema demoniaco, potrebbe essere interpretato come la metafora di una malattia ereditaria. Ineluttabile, immeritata, e contro il cui decorso è vano ribellarsi. Un dna malato il cui destino è già stato scritto.


La regia di Aster sceglie un ritmo lento ma scandito, e alcune scelte visive sono realmente inquietanti. Compresa la scelta del volto particolare di Milly Shapiro (cinicamente mi ha fatto ripensare all'uso fatto da Wes Craven dell'attore Michael Berryman in “Le colline hanno gli occhi”), vera e propria maschera del film in un ruolo che non si dimentica.
Poi arriva la parte finale. La corsa (eccessiva) alle rivelazioni, e la scelta di espedienti fin troppo dozzinali per svelare un background che per tutta la prima parte è stato latitante. I riferimenti a “Rosemary's Baby” sono evidenti, ma se il film di Roman Polansky sin dal principio era generoso di indizi che lentamente formavano un mosaico d'angoscia, “Hereditary” si affida a poche sequenze che veramente non reggono per immaturità e faciloneria il confronto con le intuizioni drammatiche del primo tempo. Si legge in rete che in alcune sale il pubblico risponde ridendo a determinate scene. Ci può anche stare, ma lascia il tempo che trova. Al di là della fretta di determinate soluzioni, e quindi alla loro goffaggine, sono abituato a sentire la gente ridere in sala di tutto senza distinzione. Quando è giustificato e anche quando non lo è. Ricordo di aver sentito la platea ridere davanti al cadavere congelato di Leonardo Di Caprio nel finale di “Titanic”, pertanto non do alcun peso a questo fenomeno di massa.

In definitiva, “Hereditary” è un film che gli appassionati di horror dovrebbero vedere con molta attenzione. Giusto per coglierne gli spunti migliori separandoli da quelli palesemente malriusciti, valutando lo stile di alcune variazioni su un tema già affrontato in passato. Non mi sento di condannare l'intero film nel suo complesso, la valutazione si colloca nel mezzo. Come un lavoro che dimostra un potenziale che però dovrà forse esprimersi e confermarsi in produzioni future.
Del resto, l'eredità cinematografica di Ari Aster non era agevole. Bacchettate sulle mani per la chiusura del film, e rimandato a Settembre per portare a compimento tutto quello che di buono ha lasciato intravedere.

martedì 31 luglio 2018

Capitani Meravigliosi - 5



E alla fine arriva... Carol. Il Capitan Marvel femminile attualmente detentore del titolo e destinata a essere protagonista del film in live action omonimo, cosa che lascia supporre una sua rinnovata iconicità e il perdurare del suo ruolo nel cosmo Marvel fumettistico. Abbiamo detto “alla fine”, ma non per ultima. Carol Danvers, al contrario, arrivò proprio in principio, nelle primissime storie del Capitano Marvelliano. Carol era un ufficiale dell'aeronautica americana e responsabile della sicurezza di un'importante base militare. Il suo ruolo la portò precocemente a incrociare la strada con Mar-Vell (che all'epoca era venuto sulla terra come spia) e a essere salvata da questi, innamorandosene senza speranza (l'amore della vita di Mar-Vell era la dottoressa Kree Una, al centro di un classico triangolo fanta-soap-operistico). Carol rimase comunque a lungo un comprimario importante del Capitano per buona parte della sua carriera, finché non fu coinvolta in una battaglia che la vide investire da un'onda energetica, e quindi sparire temporaneamente di scena. Qualche tempo dopo, si scoprì che l'esplosione del dispositivo alieno aveva alterato la sua struttura fondendola con quella di Mar-Vell, trasformandola di fatto in un ibrido terrestre-Kree e dotandola degli stessi poteri del Capitano. La Marvel (la casa editrice) stava pianificando una versione femminile di Mar-Vell (come già nel mondo Fawcett esisteva Mary Marvel, controparte di Marvel-Shazam) e la scelta cadde su Carol che diventò così Miss Marvel.


Era l'inizio di una gavetta supereroistica che sarebbe durata circa 35 anni, e avrebbe fatto passare Carol attraverso una lunga serie di trasfigurazioni. All'inizio delle sue avventure, il rapporto tra Carol e la sua nuova natura Kree aveva dello schizofrenico. Le due identità condividevano il corpo, ma agivano ognuna per proprio conto (come il personaggio DC della Spina). Presto le due nature di Carol si fusero e Miss Marvel iniziò una lunga militanza tra gli Avengers. Il personaggio, però, era irrequieto. Lo erano gli sceneggiatori, e i lettori anche. Una serie di intrighi incrinò il rapporto di Carol con i compagni di squadra, ma soprattutto, per intervento dello scrittore Chris Claremont, la scena le fu rubata (letteralmente) da un nuovo personaggio che i lettori avrebbero amato molto di più. Rogue, futura punta di diamante degli X-Men, ma inizialmente membro della Confraternita di Mystica, aggredì Carol e ne assorbì integralmente i poteri e la mente. Il risultato fu per Carol il coma, per Rogue l'acquisizione di tutti i poteri dell'altra e la presenza della sua identità dentro di sé, pronta a emergere senza preavviso, realizzando la convivenza in un solo corpo tra una ragazzina arrabbiata e un'esperta donna con addestramento militare (tornava il tema della schizofrenia).

Mentre Rogue intraprendeva il suo cammino di redenzione tra le fila degli X-Men, Carol fu in qualche modo curata dal telepate Charles Xavier, che tentò di ripristinarne i ricordi e la personalità. Il risultato fu una donna nuova che conservava i ricordi di Carol, ma non poteva condividerne del tutto le emozioni («Forse un giorno, Rogue proverà per voi quello che dovrei provare io» ...esattamente). Ad ogni modo, la appena risvegliata Carol Danvers condivise con gli X-Men l'avventura nello spazio contro la genia di alieni noti come la Covata. E siccome piove sempre sul bagnato, fu sottoposta a degli esperimenti che si innestarono sulle tracce rimaste della precedente influenza Kree. Carol attinge ai poteri di un'entità cosmica definita Buco Bianco e diventa Binary, un essere spaziale che andrà a cercare una nuova ragione di esistenza tra le stelle.
Ma come cantano gli After Hours: non c'è niente che sia per sempre (e soprattutto la Marvel è incostante da paura). Nel tempo, il potere di Binary si affievolirà lasciando riemergere le originali caratteristiche di Miss Marvel. Insomma, lo status quo di Carol Danvers viene praticamente ripristinato. Oddio, almeno in parte, visto che tutti glie eroi Marvel sono nati per soffrire.


Tornata a militare con gli Avengers, Carol (spinta dagli editor) decide che il nome Miss Marvel è stucchevole, soprattutto se attribuito a una virago forzuta e volante. Ed ecco cambiare il nome di battaglia in Warbird. Ma non tutto oro è quel quel riluce. I trascorsi di Carol (le esperienze nello spazio come Binary, le continue cicliche trasformazioni, i fallimenti editoriali, vorrei vedere voi...) le inducono una forma di depressione che la spingono sulla strada dell'alcolismo. Cosa che la farà nuovamente allontanare dagli Avengers. Seguono una serie di rimpasti, narrativi ed editoriali, con ritorni e ulteriori uscite dalla squadra ammiraglia di casa Marvel. Alla fine (per ora), dopo altre cento battaglia anche interiori, Carol decide di prendere il nome di Capitan Marvel in memoria dell'eroe Kree che tanta influenza ha avuto sulla sua vita, e indossa un'uniforme che ne recupera lo stemma (ma con un design più contemporaneo). Attualmente è anche a capo di una squadra di Avengers ed è ritenuta una delle personalità più influenti del cosmo Marvel. La sua lunga esperienza, militare e di super-eroina, le conferiscono autorità, e pare che per lungo tempo rimarrà l'unico Capitano Meraviglioso della Casa delle Idee. 

L'accento, oggi, è posto sul concetto di eredità, il cammino di Mar-Vell da spia a difensore della terra, i suoi legami con l'impero Kree, si specchiano nelle vicissitudini, nelle crisi e nelle rinascite di Carol, che per prima lo ha conosciuto. La meraviglia, attualmente, è la pertinacia di un personaggio che ha cambiato pelle molte volte, tuttora resiste e che oggi si prepara a conquistare il cinema.
Per concludere, come cantava Domenico Modugno: «Meraviglioso!»

lunedì 30 luglio 2018

Capitani Meravigliosi - 4



Dopo la morte del primo Capitan Marvel propriamente marvelliano (in senso editoriale), le cose si fanno confuse (e a tratti anche ridicola). Infatti, il nome di battaglia di quello che nelle intenzioni dell'azienda avrebbe dovuto essere l'eroe portabandiera inizia a rimbalzare tra più personaggi, nessuno dei quali eguaglia il carisma del capostipite. Prima erede del titolo di Capitan Marvel è la poliziotta afroamericana Monica Rambeau, personaggio che non aveva nessun legame con Mar-Vell se non la scelta del titolo. L'eroina militò tra gli Avengers e arrivò a diventarne anche il leader per qualche tempo, quando si vide “plagiato” il nome d'arte da Genis-Vell, il figlio del Capitan Marvel originale. 


Questi (inizialmente chiamato Legacy) era stato concepito in provetta partendo dalle cellule del soldato Kree, e ne condivideva l'aspetto e i poteri. A differenza del padre biologico, però, il terzo Capitan Marvel è parecchio instabile. E col tempo finisce col rivelarsi una minaccia per l'universo, morendo e resuscitando ben due volte tra perdite di controllo e temporanei ravvedimenti. La cosa buffa è che, dopo la sua prima resurrezione, il personaggio decise di cambiare nome in Photon. Stesso nome adottato dalla Rambeau dopo che le era stato soffiato l'appellativo di Capitan Marvel (povera stella!). Ad ogni modo, Genis-Vell a un certo punto si decise a morire per davvero e uscì di scena come si conveniva a un fallimentare succedaneo.


Ad assumere il manto di Capitan Marvel è allora Phyla-Vell. Una... ipotetica sorella di Genis-Vell. In realtà inesistente fino a qualche tempo prima, ma generata dai giochetti del fratello con l'universo che avevano finito con alterare la realtà (Aaaaarg! Che bordello!). Phyla-Vell è dunque la prima versione femminile di questo Capitan Marvel, del quale ereditava tutte le caratteristiche e il ruolo di paladino cosmico. Ma come Marvel ha vita breve, evolve assumendo il nome di secondo Quasar (Capitan Marvel non è l'unico a ispirare successori) e viene infine uccisa da Thanos durante una delle sue tante performance in cui fa terra bruciata in giro per l'universo.

La storia del quinto Capitan Marvel è, se possibile, ancora più incasinata. Creato dallo scrittore Grant Morrison con il nome di Marvel Boy, Noh-Varr era un alieno Kree, ma giunto sulla nostra terra da una dimensione alternativa e quindi digiuno di tutte le relazioni inerenti alla realtà condivisa fino a quel momento. Appena giunto sul pianeta è coinvolto in vari intrighi di potere e il suo carattere bellicoso lo porta inizialmente a sviluppare un discreto risentimento nei confronti dei terrestri (un po' come il Sub-Mariner dei primi tempi). Il personaggio è preso in mezzo a vari crossover marvelliani, quali Secret Invasion (l'invasione segreta degli alieni mutaforma Skrull) e Dark Reign, durante il quale entra a far parte dei Dark Avengers di Norman Osborn in cui ogni membro era una versione distorta e perversa dei veri eroi. Osborn affida così a lui il ruolo di Capitan Marvel (aridaje!). Ma nonostante la testa calda, Noh-Varr è fondamentalmente una brava persona, e compresi i malvagi piani di Osborn diserta per diventare un vero eroe. Non sarà tuttavia l'ultimo, né il definitivo Capitan Marvel a portare questo nome.

Nel frattempo, ha luogo l'evento editoriale “Marvel contro DC”, in cui gli eroi di entrambe le ditte concorrenti si incontrano e si scontrano... finendo a un certo punto per amalgamarsi temporaneamente. In quell'esperimento goliardico che è definito “Universo Amalgam”, tra le file della JLX (la fusione di Justice League e X-Men) incontriamo... Capitan Marvel. Sintesi tra il primo Marvel-Shazam e il soldato Kree marvelliano.
In qualche modo, il cerchio si stava chiudendo...




domenica 29 luglio 2018

Tributo a Renato Tosini


Renato Tosini lo incontrai ed ebbi modo di parlargli nel 2001, durante quella che credo fosse la sua prima mostra a Palermo, sua città natale, nella Galleria d'Arte Moderna. Ricordo che oltre me e Salvatore, quel giorno, lo spazio espositivo non era particolarmente affollato. Fino a pochi giorni prima non conoscevo l'artista e le sue opere, ci trovavamo lì dietro suggerimento di un conoscente. Lui ci chiese se avevamo visitato in passato altre sue mostre, dovemmo rispondergli sinceramente di no. A incuriosirmi, facendo leva sul mio personale immaginario, era quel mondo sospeso popolato esclusivamente da omoni paffuti, spesso avvolti in un cappotto e con bombetta in testa. Rappresentati come tangibili fantasmi di un'epoca trascorsa che ancora traspariva dal tessuto del presente, incapaci di abbandonarlo. Una commistione di vecchio e nuovo, nostalgico e sognante. Una malinconia di fondo che trasmetteva comunque serenità. Renato Tosini ci ha lasciato oggi all'età di 91 anni. Tributargli il ricordo, sovrapposto con la mia storia personale, in cui le nostre strade si sono brevemente incrociate, mi sembrava opportuno.



sabato 28 luglio 2018

Capitani Meravigliosi - 3


 

Nel 1967, la Marvel Comics si era ormai aggiudicata il diritto di usare quello che era diventato il proprio nome editoriale (la casa, nel tempo, si era chiamata prima Timely e poi Atlas) preceduto dall'appellativo di capitano. Era giunto dunque il momento di lanciare un personaggio che portasse il nome di famiglia e rimpiazzasse nella memoria dei lettori più maturi i vari “Marvel” delle defunte edizioni Fawcett (il primo Capitan Marvel-Shazam, aveva infatti uno stuolo di comprimari, tutti radunati sotto il nome di Marvel Family). Ecco nascere dunque il marvelliano (tautologico) Capitan Marvel, su testi di Stan Lee e disegni di Gene Colan. Stavolta si trattava di un alieno Kree, razza extraterrestre che si era già affacciata molte volta nella continuity condivisa dei supereroi del rampante colosso editoriale. Il suo vero nome era Mar-Vell, nome alieno che per un capriccio del caso faceva assonanza con la parola inglese “Marvel”, mentre la qualifica di capitano era il suo effettivo grado militare nella flotta Kree. Mar-vell, inizialmente, era una spia inviata dal suo governo per tenere d'occhio gli infidi terrestri e per eseguire ai danni del pianeta dei veri e propri sabotaggi. La natura nobile di Mar-Vell, però, insieme all'avversione per gli intrighi politici e personali dei suoi superiori, lo portò a tradire la propria razza e a usare le sue capacità per difendere i terrestri, diventando un rinnegato interplanetario. Qui la storia di Superman è sostanzialmente specchiata e riscritta. In origine abbiamo un bambino alieno superstite di un pianeta distrutto che allevato sulla Terra ne diviene il protettore essenzialmente per influenze culturali. Mar-Vell arriva sulla terra da adulto, indottrinato dal proprio sistema imperialista, e inizialmente non ha il ruolo di paladino, ma di agente infiltrato. In teoria, quindi, è una minaccia. Ma è la vicinanza con i terrestri, la fondamentale rettitudine e il senso critico nei confronti dell'autorità, che lo portano a cambiare bandiera e a rivestire il ruolo di campione terrestre.


La prima versione di Capitan Marvel vestiva un'uniforme verde e bianca, modello standard della flotta Kree, completo di elmetto che faceva da maschera. Poteva volare e nelle prime storie usava una pistola che sparava raggi energetici, presto sostituita da un dispositivo da polso con la stessa funzione (non sia mai che un supereroe impugni dichiaratamente un'arma, anche se il surrogato produce i medesimi effetti).
Dopo un primo ciclo di storie, il personaggio subì una trasfigurazione di look e status quo, a opera dello sceneggiatore Roy Thomas. Le entità cosmiche Suprema Intelligenza, e in seguito Eon, interferiscono con il suo abbigliamento e le sue attitudini. E' così che arriviamo al costume rosso-bluastro-giallo con il marchio stellare sul petto (prima era un pianeta Saturno stilizzato) che oggi conosciamo. La Marvel qui gioca sporco, e ricicla in modo malizioso una caratteristica fondamentale del primo Capitan Marvel-Shazam. La trasformazione fisica e il legame con un ragazzo normale. Mar-Vell, rimasto intrappolato nella Zona Negativa (celebre dimensione fittizia descritta per la prima volta nelle storie dei Fantastici Quattro) si collega al giovane Rick Jones (avventuroso adolescente che in passato era già stato comprimario di Hulk e Capitan America) mediante l'uso di due fantascientifici braccialetti. Facendo sbattere tra loro questi orpelli, il giovane Rick scambiava gli atomi del suo corpo con quelli dell'esiliato Mar-Vell, finendo diritto nella Zona Negativa al posto dell'eroe che si materializzava al suo posto. Una contorta variante di metamorfosi che echeggiava l'effetto della parola magica “Shazam” e la trasformazione di Billy Batson nell'omone mitologico. Uno sberleffo marvelliano a una pagina di storia del fumetto che fu, in verità già praticato sulle pagine di Thor, inizialmente legato al mortale Donald Blake che cambiava nel dio del tuono (con la trasformazione sottolineata da fulmine e boato) ogni volta che percuoteva il terreno con il suo bastone.

Il nuovo Capitan Marvel ebbe vita abbastanza lunga, venendo anche investito del vago e difficilmente comprensibile potere definito “coscienza cosmica”, e promosso a sorta di messia spaziale. Fu proprio Capitan Marvel a contrastare i primi piani malefici del titano pazzo Thanos (che aveva esordito in una storia di Iron Man) e a guidare l'alleanza di tutti i supereroi contro i progetti nichilisti del temibile villain. Dopo lunga e onorata carriera, Mar-Vell lasciò questa valle di lacrime non sul campo di battaglia, ma vittima del cancro, in una memorabile storia scritta da Jim Starlin.
Ma la Marvel non era pronta a rinunciare al proprio Capitano di rappresentanza. Si apriva un nuovo capitolo fumettistico, fatto di emulazione e di eredità. Senza dimenticare che, sin dalle primissime avventure di Mar-Vell, avevamo incontrato una certa Carol Danvers. Personaggio che avrebbe fatto mooolta strada...