martedì 14 agosto 2018

"The End? L'inferno fuori" di Daniele Misischia



The End? L'inferno fuori” dell'esordiente Daniele Misischia è un film italiano di genere. Ok. Partiamo da questo dato scontato. E cioè che dopo un lungo silenzio, qualcuno in terra italica torna a percorrere quei sentieri dell'immaginario perturbante che nel nostro cinema è stato consegnato alla storia da nomi del calibro di Dario Argento e Lucio Fulci (ma prima ancora arrivò Mario Bava), soprattutto negli anni 70 e in parte negli 80. Tempi eroici in cui dire “di genere” aveva una valenza diversa da quella odierna. Principalmente dispregiativa. E in cui venivano prodotte pellicole di una genialità artigianale che spesso sarebbero state rivalutate solo dopo un lungo e colpevole atteggiamento di sufficienza culturale. Il film di Misischia (esordiente alla regia sul grande schermo, ma già rodato alla scuderia dei Manetti Bros) subisce l'ennesima angheria di essere distribuito a Ferragosto, per di più insieme a blockbuster con i quali la partita al botteghino è impari in partenza. E proprio per questo, pur con tutte le sue imperfezioni, è un film che si dovrebbe scoprire, godere e valorizzare. Sempre che – elemento necessario – siate cinefili e soprattutto amiate l'horror. O quel tono di sufficienza, molto anni 70, potrebbe tornare a mordervi come gli zombi di cui stiamo per parlare. Sì, perchè il film di Daniele Misischia si basa tutto su un'idea e sulla tecnica per fare di un limite virtù. E sono sforzi che bisogna sapere apprezzare.

The End? L'inferno fuori” è un film horror, dunque. Anzi, uno zombi-movie, di quelli che ormai fanno etichetta a sé. Ma è anche un esercizio di stile che combina più sottogeneri, tutti ascrivibili alla categoria più ampia del thriller. Il film vive inteamente nel suo spunto di partenza. Un apocalisse zombi (o di infetti furiosi e cannibali, ormai non importa più). Un uomo intrappolato in uno spazio angusto. Una serie di eventi terrificanti che si succedono al di fuori, e di cui c'è dato scoprire solo il punto di vista del protagonista. Quello offerto dalla finestra ricavata dalle ante semiaperte di un ascensore bloccato tra due piani. Rifugio e nello stesso tempo strumento di tortura, che porta lo spettatore a chiedersi dove sarebbe effettivamente meglio trovarsi? Se in trappola con il protagonista o fuori, alla mercé di un'orda di zombi famelici. Se in fuga là dove si può essere sbranati a ogni angolo o rinchiusi dove con molta probabilità si farà la fine del topo.

Potremmo definire questo sottogenere, un “punto di vista relativo”. Una narrazione classica ridotta alla visione soggettiva e parziale di un personaggio defilato. Un po' come nel film “Cloverfield”, dove la classica invasione del mostro gigante che mette a ferro e fuoco una città è raccontata attraverso gli occhi di un pugno di cittadini ignari di quanto sta succedendo, quasi venisse data voce alle comparse che si solito si limitano a correre urlando. Inevitabile è anche pensare aBuried”, film interamente ambientato nel chiuso di una cassa dove un uomo, sepolto vivo, cerca di darsi aiuto con un telefono e pochi altri arnesi. Il tutto collocato nello scenario ormai canonizzato dell'epidemia zombesca, in cui l'appassionato di horror sa perfettamente che cosa sta succedendo, ma dove l'ansia e il senso dello spettacolo è fornito dal crescendo di consapevolezza, terrore e reazione, dell'uomo intrappolato in uno spazio che ne limita i movimenti e la comprensione dei fatti. C'è poi quell'elemento che risale addirittura al teatro del Grand Guignol e agli orrori suggeriti più che mostrati. Sempre attraverso il telefono, come nel classico “Au telephone del drammaturgo francese André De Lorde, in cui un uomo in viaggio, attraverso l'apparecchio telefonico appena installato nelle case del primo novecento, ascolta impotente i suoni che descrivono l'assassinio della sua famiglia.

Il cinema di zombi, a partire dal suo capostipite romeriano, “La notte dei morti viventi”, nasce da subito come cinema della costrizione. Racconto d'assedio, dove l'inferno fuori è catalizzatore di discordia e orrori interni, secondo l'idea infernale immaginata da Jean Paul Sartre in “Porta Chiusa”. Qui l'assedio riguarda un singolo e il catalizzatore della paura non sono tanto gli zombi, quanto l'ignoranza di cosa succede fuori, e gli inesorabili sviluppi della catastrofe che si rivelano in dettagli mostrati dapprima con piccoli squarci di mondo esterno, e poi con una progressiva penetrazione dell'orrore all'interno. Se nella trilogia di George Romero gli zombi assediavano l'ordine costituito, la famiglia, l'istituzione, la società dei consumi, le forze dell'ordine e alla fine dichiaratamente il capitalismo, in “The End?” si scatenano all'interno di un complesso aziendale e tengono emblematicamente in ostaggio un imprenditore cinico e dispotico. Potremmo definirla una miniatura dei topos romeriani, dove sia il luogo dell'assedio (una casa, un ipermercato, un bunker... qui lo spazio angusto di un ascensore) e i totem da abbattere (qui riassunti in un unico personaggio simbolo) sono felicemente concentrati con un ottimo uso del ritmo e dello spazio scenico volutamente ridotto.


Allessandro Roja, volto della serie televisiva “Romanzo criminale” è funzionale al suo personaggio e alla lenta evoluzione (anche quella simbolica che affronterà). La performance non è forse memorabile, ma non necessita di esserlo in quanto il film vive di attese, suggestioni e vampate di terrore che l'interprete è in grado di reggere. Più incisivo è il giovane Claudio Camilli, che riempie lo schermo con la sua mole e il suo carisma non appena entra in scena, ed è il perno di alcuni dei momenti più intensi della pellicola. I comprimari, la maggior parte dei quali appaiono solo di sfuggita, e la moglie del protagonista (Carolina Crescentini, presente solo come voce al telefono) sono veicolo di tutti quei cliché che lo spettatore si aspetta, e che fanno parte del lavoro di attenta miniatura che la regia offre a un pubblico scafato, ma in grado di apprezzare la tecnica del racconto.
In definitiva, “The End? L'inferno fuori” è un riuscito, piacevole giocattolo per mettere paura. Senza esagerazioni, è un'opera prima da promuovere per la forma e la capacità di osare. Una variazione su un tema ormai abusato che trova i suoi punti di forza nella sottrazione anziché nell'eccesso. Un giocattolo che riesce persino a spaventare in più di una scena là dove pellicole mainstream hanno ormai rinunciato, oppure falliscono nel più frustrante dei ja vu. E se dovrà esserci un ritorno al cinema di genere italiano, magari possiamo considerare proprio il film di Daniele Misischia il punto da cui ripartire.

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