mercoledì 1 agosto 2018

Hereditary


Ossessione. Infestazione. Possessione.
Visto “Hereditary” di Ari Aster. Film horror che divide il pubblico. Chi lo esalta, chi lo boccia senza appello. E tutto sommato un motivo c'è.

“Hereditary” è un'opera ambiziosa, volta a essere un horror d'autore. Ari Aster, regista giovanissimo al suo esordio, dimostra di non essere un velleitario qualunque, e di possedere delle felici intuizioni visive. Il problema è la confezione generale, la cesura quasi netta che sembra dividere il film in due blocchi narrativi collegati ma sotto certi aspetti non omogenei. Cosa che porta alla nascita di una creatura attraente, ma claudicante. Gioca la sua parte anche un'eccessiva caduta di stile nel finale, in cui la volontà di concludere in fretta sembra mostrare il conto a una regia interessante che giunta a quel traguardo ha però esaurito le cartucce, e si adagia in un manierismo che dopo tanta atmosfera risulta tanto più fastidioso. Parecchio fastidioso. Lacuna ancora più grave quanto tutta la prima parte del film è stata affascinante, sprecando in sostanza un buon potenziale e presentando in definitiva un'opera non del tutto compiuta.


Questo non rende “Hereditary” un film da buttare. Ricordiamoci, soprattutto, che ci troviamo di fronte a un'opera prima. E ad averne. Il giudizio si colloca in una posizione intermedia, una materia potenzialmente buona, una regia suggestiva e soprattutto un ottimo comparto attoriale guidato da una Toni Collette al suo meglio. Se non fosse per quello scotto pagato a una conclusione che se scritta con maggiore cura, se fosse stata più suggerita e meno declamata, magari avrebbe reso di più e conservato la solidità della prima ora. Diciamolo. “Hereditary”, come molti altri film di genere, echeggia spunti già visti, e in questo non c'è niente di insolito né di male. Nella fattispecie, a me ha ricordato “Darkness”, film spagnolo di Jaume Balaguerò del 2002, che presenta più di un dettaglio in comune con la narrazione di base del film di Aster. Dal mio punto di vista, il confronto tra questi due horror è curioso. Infatti, se in “Darkness” la rivelazione dell'intrigo soprannaturale e delle sue dinamiche aveva una sua efficacia drammatica, mostrata più che spiegata, “Hereditary” pecca proprio in questo, ma risulta (sempre a mio parere) più riuscito del film di Balaguerò dal punto di vista del ritmo e del crescendo preparatorio, laddove “Darkness” girava a vuoto senza seminare le suggestioni malate che invece nel film di Aster abbondano.


“Hereditary” si affida molto ai dialoghi, anche quelli che sono apparentemente relegati a rumore di fondo, per suggerire significati e dare un senso a quanto vedremo accadere sullo schermo. I vari riferimenti mitologici, uno scambio di battute tra madre e figlia, il ricordo di tragedie passate. Il racconto di spavento fa leva sulla memoria e sull'attenzione per il dettaglio dello spettatore. Se si guarda a questi elementi con occhio distratto, il film perderà un'altra ampia porzione della sua ragion d'essere. Come dicevo all'inizio, è un'opera ambiziosa che fallisce sul lungo tragitto, ma che è apprezzabile per le buone intenzioni e non lascia del tutto indifferenti. Al contrario, fornisce sequenze e situazioni che generano autentico raccapriccio (in senso emotivo, non come shock visivo, in ogni caso molto ridotto). I rapporti di causa e di effetto, le scelte dei personaggi (che quasi sempre finiscono col produrre un risultato opposto a quello che si proponevano di ottenere) esprimono un sottotesto fatalista e claustrofobico (reso benissimo dalla sovrapposizione con l'arte artigianale cui si dedica la protagonista, che realizza miniature in scala dei momenti cardine nella vita della propria famiglia) trovano la loro ragion d'essere in una verità angosciante espressa chiaramente sin dalle prime battute del film. Per questo “Hereditary”, nonostante l'intrusione non sempre ben gestita del tema demoniaco, potrebbe essere interpretato come la metafora di una malattia ereditaria. Ineluttabile, immeritata, e contro il cui decorso è vano ribellarsi. Un dna malato il cui destino è già stato scritto.


La regia di Aster sceglie un ritmo lento ma scandito, e alcune scelte visive sono realmente inquietanti. Compresa la scelta del volto particolare di Milly Shapiro (cinicamente mi ha fatto ripensare all'uso fatto da Wes Craven dell'attore Michael Berryman in “Le colline hanno gli occhi”), vera e propria maschera del film in un ruolo che non si dimentica.
Poi arriva la parte finale. La corsa (eccessiva) alle rivelazioni, e la scelta di espedienti fin troppo dozzinali per svelare un background che per tutta la prima parte è stato latitante. I riferimenti a “Rosemary's Baby” sono evidenti, ma se il film di Roman Polansky sin dal principio era generoso di indizi che lentamente formavano un mosaico d'angoscia, “Hereditary” si affida a poche sequenze che veramente non reggono per immaturità e faciloneria il confronto con le intuizioni drammatiche del primo tempo. Si legge in rete che in alcune sale il pubblico risponde ridendo a determinate scene. Ci può anche stare, ma lascia il tempo che trova. Al di là della fretta di determinate soluzioni, e quindi alla loro goffaggine, sono abituato a sentire la gente ridere in sala di tutto senza distinzione. Quando è giustificato e anche quando non lo è. Ricordo di aver sentito la platea ridere davanti al cadavere congelato di Leonardo Di Caprio nel finale di “Titanic”, pertanto non do alcun peso a questo fenomeno di massa.

In definitiva, “Hereditary” è un film che gli appassionati di horror dovrebbero vedere con molta attenzione. Giusto per coglierne gli spunti migliori separandoli da quelli palesemente malriusciti, valutando lo stile di alcune variazioni su un tema già affrontato in passato. Non mi sento di condannare l'intero film nel suo complesso, la valutazione si colloca nel mezzo. Come un lavoro che dimostra un potenziale che però dovrà forse esprimersi e confermarsi in produzioni future.
Del resto, l'eredità cinematografica di Ari Aster non era agevole. Bacchettate sulle mani per la chiusura del film, e rimandato a Settembre per portare a compimento tutto quello che di buono ha lasciato intravedere.

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