martedì 29 agosto 2017
...e andiamo di meme
...e niente. Mi devo rassegnare, per adesso è il trend di tutti i pischelli che mi vedono per la prima volta. Esclamare: «Ma è George R. R. Martin?!» 🤪
Dopo una vita trascorsa a essere stato associato a:
Lucio Dalla (versione giovane, barbuto e senza parrucchino)
Luciano Pavarotti (in versione accorciata)
Giuliano Ferrara (di solito rispondo: "accetto di essere paragonato a un porco solo a proposito delle cose di letto".)
...per dirla alla siciliana, il buon Martin è "stidda ca mi curri".
Nessun problema, eh! Solo vent'anni di meno. Nessun problema. ☺️
Conferma a una gestalt che conosco da tempo. Per molta gente, i ciccioni barbuti si assomigliano tutti come per altri i neri e gli asiatici. 😏
Valar Morghulis.
lunedì 28 agosto 2017
Biblioteca autogestita: i lavori procedono e intanto si cresce
Un sincero ringraziamento ai ragazzi che ieri, in mezzo a tanti altri libri e fumetti che pian piano sveleremo e catalogheremo, hanno donato alla Biblioteca Salvatore Rizzuto Adelfio dei pezzi importanti della storia del fumetto italiano. Andrea Pazienza, grande commentatore degli anni 80 e rappresentante di un capitolo importante per la nona arte (e tutta l'arte in generale). Davvero grazie. Potrete leggerli gratuitamente presso la nostra biblioteca, attualmente in fase di riorganizzazione, con la riapertura al pubblico il prossimo autunno. Stay tuned. Ci sarà sempre un Altroquando.
Per informarsi su Andrea Pazienza, segnalo gli interessanti video di Carlo Procaccini.
domenica 27 agosto 2017
Un coccodrillo per Tobe Hooper
Un coccodrillo.
Sì. Un coccodrillo per Tobe Hooper.
Un pizzico di humor nero per
salutare uno dei padri dell'horror moderno che ci ha appena
lasciato.
La battuta è contorta. Necessita di un'infarinatura di gergo giornalistico e di conoscenza della filmografia del regista per essere compresa. Coccodrillo. Come gli articoli che si scrivono per omaggiare qualcuno che muore, spesso una celebrità. Un'etichetta senza mezze misure, per indicare qualcosa che si ritiene “vada fatto”, ma che nello stesso tempo non riesce a sottrarsi da sospetti di cinismo. Il tutto riferito, ovviamente, alle proverbiali lacrime del grande rettile.
La battuta è contorta. Necessita di un'infarinatura di gergo giornalistico e di conoscenza della filmografia del regista per essere compresa. Coccodrillo. Come gli articoli che si scrivono per omaggiare qualcuno che muore, spesso una celebrità. Un'etichetta senza mezze misure, per indicare qualcosa che si ritiene “vada fatto”, ma che nello stesso tempo non riesce a sottrarsi da sospetti di cinismo. Il tutto riferito, ovviamente, alle proverbiali lacrime del grande rettile.
Coccodrillo. Come il mostro (secondario?) di “Eaten Alive” (“Quel motel vicino alla palude”, in Italia) suo secondo film (1977), che in realtà sarebbe il terzo, ma è il secondo a restare nella memoria del pubblico dopo il successo di “Non aprite quella porta” e il flop della sua prima incursione nel dramma indipendente con “Eggshells” del 1969. “Eaten Alive” si ispirava liberamente alle imprese del serial killer Joe Ball, in azione nell'America degli anni trenta. Si racconta che Ball si sbarazzasse dei corpi delle sue vittime dandole in pasto a degli alligatori. Nel film, il protagonista nutre un famelico coccodrillo con il quale ha un rapporto quasi simbiotico, secondo le allegorie care al regista.
Ma Tobe Hooper, che pure diresse diversi
altri film (sebbene con meno fortuna e mano meno ispirata, anche per
via delle ingerenze produttive che non gli diedero mai tregua) sarà ricordato (e merita di esserlo)
soprattutto per il rivoluzionario “Non aprite quella porta”
(titolo italiano di “The Texas Chainsaw Massacre”) del
1974. Perché ricordarlo? Perché semplicemente ha fatto la storia
del cinema horror, contribuendo a modificarne le regole come “La
notte dei morti viventi” di George Romero (altro maestro
recentemente scomparso... anno gramo per il cinema del perturbante).
E come il film di Romero ha infuso nella sua fiaba nerissima un
sottotesto politico di grande impatto. Non è un caso che la recente
elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti ha spinto
qualcuno a commentare che l'America, e quindi il suo corpo
elettorale, non è solo quella che vediamo nelle patinate commedie
hollywoodiane. L'America è fatta anche (se non soprattutto) di ampie
province rurali. Veri e propri mondi separati, dove ancora oggi è
possibile imbattersi in zone fuori dal tempo e forme preoccupanti di
arretratezza. La famiglia cannibale di “Non aprite quella porta”
rappresenta in modo esemplare, per quanto estremizzato, il
proletariato campestre statunitense, incattivito e degenerato dal
disagio e dallo strapotere delle multinazionali che lo riducono a uno
stato di animalità. Costretto a vivere ai margini del mondo
civilizzato, sopravvivendo come un predatore primordiale che finisce
col rivoltarsi contro i suoi simili e trasformare in alimento chi non
riconosce come parte del suo gruppo ristretto. I suppellettili della
casa realizzati con ossa umane, il laboratorio da macellaio, il
gancio a cui la giovane vittima viene appesa con metodica, ottusa
diligenza, sono metafore disturbanti che non si dimenticano più. Con
il film di Tobe Hooper, gli Snopes raccontati da William Faulkner
incontravano l'horror, e il cocktail aveva un sapore amarissimo, ma
eccitante.
Per il 1974 (ma ancora oggi) “Non
aprite quella porta” era un film davvero sconvolgente. Seminale
per quello che sarebbe diventato il sottogenere horror definito
“slasher”, insieme con il meraviglioso “Halloween” di
John Carpenter, di cui rappresenta l'altro lato della medaglia.
Quello più sporco, laido e rumoroso. Non è possibile omaggiare
Hooper senza ricordare anche l'icona cinematografica di Leatherface,
personaggio chiave di “The Texas Chainsaw Massacre”. Un
gigante mentalmente ritardato, probabilmente sfigurato (nel film
originale il suo volto non viene mai mostrato), che cela i suoi
lineamenti sotto grottesche maschere di pelle umana.
E poi c'è la motosega.
E' vero. La motosega (almeno così sembra) fu usata come arma per la prima volta nel film di Wes Craven “L'ultima casa a sinistra”, ma è con Leatherface e “Non aprite quella porta” che è diventata un feticcio horror fondamentale. Più per l'ossessionante rumore del suo motorino che per gli scempi compiuti dalla lama. Quel rumore che già da solo comunica una disturbante senzazione di follia, di ossessione, che fa sentire lo spettatore assediato e gli fa salire le viscere su per la gola.
Una nota amara consiste, per chi
scrive, nel ricordo dell'inutile remake di Marcus Nispel del 2003. Un
remake, volendo non tra i più spregevoli, ma che tradiva
completamente lo spirito dell'opera originale, facendone un horror
patinato e convenzionale fino al midollo. Rammento la conversazione
avuta riguardo la pellicola di Nispel con altri spettatori più
giovani, e gli insensati confronti che emersero quando mostrai loro
il film culto di Tobe Hooper.
Nella loro percezione, il film del '74 sprecava tempo e potenziale, eliminando troppo velocemente un quantità di personaggi per poi concentrarsi sull'odissea di un'unica protagonista. A loro parere, Hooper avrebbe dovuto centellinare gli omicidi lungo tutto il film, e non puntare il riflettore su un soggetto specifico, in quanto il risultato – per loro – era la noia. Rischiai di sentirmi male.
Nella loro percezione, il film del '74 sprecava tempo e potenziale, eliminando troppo velocemente un quantità di personaggi per poi concentrarsi sull'odissea di un'unica protagonista. A loro parere, Hooper avrebbe dovuto centellinare gli omicidi lungo tutto il film, e non puntare il riflettore su un soggetto specifico, in quanto il risultato – per loro – era la noia. Rischiai di sentirmi male.
Quando si dice che il trend commerciale diseduca all'arte. E stavo assistendo a uno di quei casi. La sostanza era che i giovani spettatori erano ormai viziati da un canone dell'horror slasher pensato in termini di catena di montaggio, mentre il film di Hooper... per quanto antenato dello slasher... non era propriamente uno slasher. Non solo, almeno. E l'inferno vissuto dall'attrice Marilyn Burns, un ruolo in cui più che parlare urlava disperatamente, sottoposta a sevizie fisiche e psicologiche (vogliamo parlare dell'insopportabile, lunga scena del pranzo?) reappresentava l'apice di uno dei film più spaventosi della storia. “Non aprite quella porta” del 1974 è un film con una personalità fortissima, e il remake degli anni 2000 non era che la banalizzazione, appiattita su uno standard ormai trito, di un classico che era stato a suo modo un pioniere.
A motoseghe e coccodrilli più o meno
domestici, sarebbero seguiti altri film. Raramente all'altezza dei
precedenti, soprattutto per i limiti imposti a Hooper dalle
produzioni che nel tempo lo avrebbero sempre più ostracizzato,
praticamente fino a farlo scomparire dalle scene. Non parlerò di
“Poltergeist”, altra pellicola nota firmata da Hooper, se
non per sottolineare quanto possano essere evidenti le ingerenze
produttive nella realizzazione di un film che porta la firma di una
personalità dal potenziale sovversivo qual era quella del regista di
“The Texas Chainsaw Massacre”. La mano di Steven Spielberg
e la sua cifra stilistica traspaiono da ogni fotogramma, e
paradossalmente potremmo dire che “Poltergeist” sia un
titolo riconducibile più al regista di “E.T.” che al
discorso iniziato da Hooper, che possibilmente avrebbe realizzato una pellicola più malata e meno adatta a un pubblico generalista.
Un peccato, quindi. Peccato per quello
che avrebbe potuto essere e a causa delle dinamiche hollywoodiane
non è stato. Peccato perché la storia è finita qui. Peccato, come
ogni volta che sentiamo la necessità di scrivere un
coccodrillo.
Già! Il coccodrillo.
Già! Il coccodrillo.
Non lo sentite? Che strano
ticchettio!
E' il primo allarme, poi dopo arrivo io.
E' il primo allarme, poi dopo arrivo io.
Non voglio alcun vantaggio.
Ma non è per coraggio.
E' perché sono il più cattivo.
E mi diverte il fatto di inseguirvi.
Grazie per gli incubi, Tobe Hooper. Quelli intelligenti.
Quelli che ti fanno svegliare.
E' perché sono il più cattivo.
E mi diverte il fatto di inseguirvi.
Grazie per gli incubi, Tobe Hooper. Quelli intelligenti.
Quelli che ti fanno svegliare.
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sabato 26 agosto 2017
Fumetti in soffitta: Il Maestro, di Mino Milani e Aldo Di Gennaro
Ecco
una grossa lacuna nel mio lavoro (video) di riassumere la storia dei personaggi magici dei fumetti. Beh, andavo per linee di massima e il
materiale era già tanto. Eppure oggi mi chiedo perché ho mancato di
includere "Il Maestro", fumetto di Mino Milani e Aldo Di
Gennaro che esordì sullo storico "Corriere dei Ragazzi"
nel 1974 (anno in cui lo lessi anch'io... ebbene sì, ero già in
circolazione anche se piccolino). "Il Maestro" come fumetto
aveva tutte le caratteristiche delle serie del suo tempo che venivano
raccolte nel popolare contenitore. E cioè poche pagine, trame
concentrate ricche di didascalie, e una storyline semplice che si
dipanava come filo conduttore, generando tensione e attesa da un
episodio (più o meno conclusivo) all'altro. Il Maestro era un
occultista di cui niente era dato sapere. La sua origine non fu mai
rivelata, e probabilmente neppure l'effettiva portata dei suoi
poteri, che spaziavano in tutto lo scibile della tradizione magica.
Una magia potente, ma rappresentata con taglio minimalista,
silenzioso, senza bagliori spettacolari o fenomeni appariscenti. Cosa
che rendeva il Maestro e i suoi sortilegi forse ancora più
inquietante. La trama principale era il duello con Jaga, ex
assistente di un egittologo che aveva scoperto un misterioso
manufatto chiamato con il nome esotico e un po' buffo di Scarabeo di
Ara Tutna.
Lo "scarabeo", era in realtà un dispositivo di
origine aliena, trovato nell'antichità sul corpo di un visitatore
extraterrestre morente, e capace di materializzare i pensieri e
desideri di chi lo possedeva. Ricordo con emozione l'episodio in cui
Jaga ricattava il mondo facendo cadere una pioggia torrenziale sul
deserto egiziano, minacciando di sommergerlo. Le vignette d'apertura
di quella storia in cui improvvisamente sulla sabbia rovente cadeva
una goccia d'acqua. Poi un'altra, un'altra ancora e quindi iniziava
il diluvio.
Difficile
confrontarsi con qualcuno che può rendere reali le proprie fantasie
(spunto che Milani e Di Gennaro suggerivano in modo abbastanza
pauroso). Ma il Maestro era l'eroe giusto per questa serie di
avventure brevi, in cui la risoluzione di ogni minaccia portava
sempre più vicini all'incontro effettivo (e quindi allo scontro
finale) tra il protagonista e la malefica Jaga, che per la maggior
parte del tempo si sfidavano da lontano, per mezzo di telepatia,
psicometria e anche l'aiuto (per Jaga) di ordinari sicari e (per il
Maestro) della sua gatta mistica Nardy e della poliziotta Velda
Morris. Per il tempo, l'atmosfera era tutto. Levitare a pochi
centimetri da terra per superare una trappola elettrica era
un'impresa sufficiente a suggestionare noi lettori dell'epoca. Così
come l'ipnosi (di quelle che basta che incroci lo sguardo e sei
inguaiato) e la capacità di rintracciare cose e persone grazie a
percezioni paranormali. Insomma, "Il Maestro" è una lacuna
nel mio lavoro sui maghi dei fumetti. Soprattutto considerando quanto
lo amai da ragazzo.
Oggi, magari, verrebbe considerato troppo poco
spettacolare. Ma a suo tempo, fu proprio quella magia semplice e
minimale (quasi credibile se confrontata agli incantesimi del Doctor
Strange) che mi conquistò. Va da sé che oggi sente tutto il peso
dei suoi anni. Ma il lavoro di Milani e Di Gennaro (cui nel tempo
lasciarono un'impronta anche altri disegnatori, tra cui un giovane
Giancarlo Alessandrini) è semplicemente... storia. E conserva il
fascino di un immaginario che fu, un modo di raccontare, prendere per
mano i giovanissimi lettori e portarli in un mondo fantastico che
riusciva a sembrare quotidiano.
Insomma,
il Maestro continua a essere ancora oggi una ficata.
In
anni recenti, Re Noir - Nona Arte ne ha ristampato il ciclo integrale
in volume. Varrebbe la pena recuperarlo, sebbene i dialoghi possano
apparire oggi alquanto polverosi. Un esempio? Una frase mormorata dal
Maestro a Velda che mi rimase stampata nella memoria:
«Siete
adorabile, mia cara. E forse un giorno vi chiederò di amarmi.»
Nella
vignetta successiva, lei abbassava gli occhi sorridendo e "pensava":
«GULP!»
Il
mondo cambia. Ma senza la storia alle nostre spalle non andiamo da
nessuna parte. E' questa la magia.
venerdì 25 agosto 2017
Quattro anni di immortalità: un pensiero a Salvatore Rizzuto Adelfio
25 Agosto 2013, quattro anni oggi.
Ciao, Salvatore. Il tuo Altroquando, con le tue idee, la tua volontà di condivisione della cultura e di sostegno alle realtà indipendenti, continuerà a esistere. Mutato, rigenerato, rinnovato. Ma cresciuto sulle tue radici. Senza quello, ogni memoria diverrebbe inutile.
giovedì 24 agosto 2017
Dylan – Dream of the Living Dead
C'è poco da fare. Sembra che Dylan Dog sia destinato a vivere più nei sogni e negli sforzi dei fans, con tutti i limiti del caso, che in una grossa produzione televisiva e cinematografica. Inutile continuare ad accanirsi contro il pessimo film statunitense con Brandon Routh. Quello semplicemente... non era Dylan Dog. Ancora meno di quanto Ben Affleck fosse Daredevil nel film del 2003 e in seguito Batman nel controverso “Batman v. Superman”, diventato ormai un vero e proprio simbolo dello snaturamento possibile nel passaggio dalla carta allo schermo.
Ricordiamo anche che una trasposizione
“ufficiale” risente di una serie di paletti legali. Le norme sul
diritto d'autore variano da paese a paese, e in America la “maschera”
di Groucho Marx non può essere riprodotta senza sborsare una cifra
astronomica. Ragione per cui, il personaggio è stato rimosso dal
film in cui Routh interpretava un “omonimo” del personaggio creato da Tiziano Sclavi.
Uno scoglio simile hanno dovuto affrontarlo (anzi, circumnavigarlo) la crew austriaca che ha prodotto “Dylan - Dream of the Living Dead”, un mediometraggio – anche questo senza scopo di lucro – che si propone come un possibile Pilot di una serie. E' stato infatti necessario modificare i nomi e alcune caratteristiche dei personaggi principali per non incorrere in spiacevoli incidenti legali. Ma le varianti non pesano (anzi, alcune sono pure divertenti e riescono a farsi accettare con simpatia), e l'atmosfera generale riesce a rendere con grande rispetto la “mitologia” dell'indagatore dell'incubo, anglosassone per scelta narrativa, ma di anima italianissima.
Uno scoglio simile hanno dovuto affrontarlo (anzi, circumnavigarlo) la crew austriaca che ha prodotto “Dylan - Dream of the Living Dead”, un mediometraggio – anche questo senza scopo di lucro – che si propone come un possibile Pilot di una serie. E' stato infatti necessario modificare i nomi e alcune caratteristiche dei personaggi principali per non incorrere in spiacevoli incidenti legali. Ma le varianti non pesano (anzi, alcune sono pure divertenti e riescono a farsi accettare con simpatia), e l'atmosfera generale riesce a rendere con grande rispetto la “mitologia” dell'indagatore dell'incubo, anglosassone per scelta narrativa, ma di anima italianissima.
Dopo “La morte puttana” di Denis
Frison, “Il trillo del diavolo” di Roberto D'Antona e “Vittima degli eventi” di Claudio Di Biagio e Luca Vecchi (cui si aggiungono tanti altri esempi amatoriali meno noti), ecco dunque questo ulteriore
omaggio a un'icona fumettistica che, sebbene la sua vita editoriale
stia patendo il fisiologico invecchiamento e gli immancabili lifting,
resta e resterà stampato nell'immaginario di molti lettori di più
generazioni. Dylan Dog, come recitava uno strillo pubblicitario della
stessa casa Bonelli tempo fa, è ormai un mito moderno.
Il regista Kevin Kopacka e la sua squadra dimostrano una profonda conoscenza della materia che affrontano
(Kopacka firma anche i divertenti dialoghi insieme con Alex Bakashev)
e la scelta non si discosta (giustamente) da quella fatta dai fimaker
italiani che si sono già immersi nel mondo di Dylan. E cioè dall'intento di creare
una sintesi del suo universo, condensando in un tempo limitato
personaggi, citazioni, scene iconiche, e il surrealismo che permette
di rompere ogni logica e avventurarsi nel territorio della fantasia
più sbrigliata. Insomma, il Dylan Dog più classico. Anche se qui è chiamato Dylan Dawn.
Anche se Groucho (che non è Groucho) è un attore asiatico (ma in
qualche modo riesce a essere Groucho lo stesso), Bloch è tutto
sommato Bloch, e la Trelkovsky...
No, questo è meglio che lo scopriate
da soli. Noi abbiamo trovato questa lettura fottutamente divertente e azzeccatissima.
I precedenti fanmovies avevano i loro
pregi e difetti. Chi più chi meno. “La morte puttana” era un
grosso sforzo produttivo per un'opera amatoriale, che riusciva a
inanellare una quantità di citazioni, e sostanzialmente vedeva
il suo neo più grande in una durata forse eccessiva. “Il Trillo del
Diavolo” era un'opera più breve e diversa. Riuscita, ma che forse
sacrificava troppo la componente ironica al gusto estetico. Un
discorso a parte meriterebbe “Vittima degli eventi”, progetto che
si proponeva (anche in quel caso) come pilota di una serie di cui,
allo stato delle cose, non si ha notizia. Anche in quel caso il
lavoro svolto puntava alla sintesi di icone e atmosfere, sebbene la
trasferta romana di Dylan non riusciva a convincere del tutto.
“Dylan – Dream of the Living Dead”
accentua la componente onirica e “meta” presente negli
esperimenti precedenti. Potremmo anche dire che la esaspera (in senso
positivo) e produce un piccolo incubo fumettistico di trenta minuti
dove non conta quello che viene narrato, ma il modo in cui lo si
narra. E' probabile che il trend contemporaneo dei cinecomics miliardari induca molti lettori di fumetti a storcere il naso davanti
al budget contenuto e a certe soluzioni artigianali. Ma torniamo al
punto di partenza. Il cinema, i professionisti, non hanno certo
mostrato di saper fare di meglio. E per un vecchio lettore italiano
calarsi, sia pure per poco, nelle classiche suggestioni ideate da
Tiziano Sclavi, in un racconto composto da un intreccio di incubi,
morti viventi e continue citazioni può essere molto piacevole. Gli
attori se la cavano in modo più che diligente, i dialoghi sono ben
confezionati. E... quel prologo? Pochi minuti che già contengono
buona parte del mondo dylaniato. Dylan e Groucho, quelli “veri”,
che non vediamo in faccia mentre si preparano a guardare questo
inusuale prodotto austriaco che li riguarda, i loro commenti, le loro
allusioni... colgono già tutto quel citare e la
volontà di ibridare i codici che è stato alla base del successo del
fumetto di Sclavi nell'ormai lontano 1986.
Complimento, intanto, a Kevin Kopacka e ai suoi collaboratori per il gradevole lavoro svolto. Vedere appassionati così creativi con i loro poveri mezzi, scalda il cuore.
Vi pare poco, Giuda ballerino?!
martedì 22 agosto 2017
DC Comics - L'orologio dell'apocalisse rintocca (ancora l'ombra di Watchmen)
E
alla fine ci stiamo arrivando. Doomsday Clock, il cui primo numero
uscirà in America il prossimo Novembre, segnerà l'apice del
Rinascimento (o Restaurazione?) in casa DC Comics. Evento che sarà
segnato dall'interazione, annunciata da tempo, tra gli eroi della
Distinta Concorrenza con l'universo di Watchmen. Per usare le parole
dello sceneggiatore Geoff Johns, non si tratterà di un crossover, ma
di una storia a sé stante che ridefinirà il cosmo DC. Il nocciolo
della questione dovrebbe essere il confronto (anche simbolico) tra
Superman e Dottor Manhattan. In sostanza, l'alieno che ha imparato a
essere più umano degli umani e l'umano nativo che ha
progressivamente perso la propria umanità diventando sempre più
alieno e distante. Siamo in presenza di uno di quegli eventi
fumettistici destinati a fare discutere. I semi piantati da Johns
sembrano interessanti. E neppure scontati come può sembrare. C'è un
tempo per ogni cosa. Watchmen rappresentò non tanto l'ingresso dei
supereroi nell'età adulta, quanto un punto di arrivo. Il brusco
risveglio da un sogno nell'incubo di una realtà dove non esistevano
veri eroi e dove poteva non esserci un lieto fine. Da quel momento, i
punti cardine del mercato sono andati cambiando. E l'opera di Alan
Moore ha suscitato una lunga serie di varianti, omaggi, e presunte
evoluzioni di un discorso che l'autore inglese considerava già
concluso quando aveva messo la parola fine al suo lavoro.
Ormai
da anni, il genere supereroistico soffre il peso di una pietanza mal
digerita. Un trend scaturito da un'opera (Watchmen) che non aveva mai
voluto essere una ricetta per sfornare altri piatti, ma solo un punto
di vista, storico e culturale. Per quanto i prodotti derivati
interessanti non siano mancati, l'elemento del dark coatto ha finito
col diventare a sua volta macchietta, spesso affossando le tematiche
che si proponeva di elevare. Quel che Geoff Johns sembra prepararsi a
fare è portare in scena una sorta di cortocircuito estetico dal
quale ripartire con le successive narrazioni. Non sappiamo ancora in
che misura funzionerà, ma il progetto di sicuro incuriosisce. La
maturità, del resto, non s'identifica necessariamente con la
truculenza, con l'amarezza e una visione pessimista del futuro (per
quanto i tempi che corrono non ci incoraggino esattamente nel senso
opposto). Se Geoff Johns riuscirà nella sua opera di livellamento,
operando scelte narrative intelligenti, potremmo trovarci davanti a
un'opera metafumettistica particolare come non la vedevamo dai tempi
della prima Crisis. Una lettura antropologica dei corsi e ricorsi
storici applicati a un genere fumettistico. Ne sentiremo tante, nei
prossimi mesi. Prima, durante e dopo l'uscita di questa ennesima
miniserie.
Chissà!
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