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giovedì 5 gennaio 2012

Lovecraft



Il nome dovrebbe essere già abbastanza evocativo, ma per quanti non lo sapessero, Howard Phillips Lovecraft è senza ombra di dubbio uno dei più grandi scrittori della letteratura horror – fantasy. Forse neanche il suo maestro, Edgar Allan Poe, è riuscito con la sua opera a creare un immaginario narrativo tanto variegato e coinvolgente. Il punto è che, in passato e anche oggi, sono sorti e sorgono non pochi dubbi sul fatto che il suo non fosse un semplice esercizio di fantasia. Sono innumerevoli gli autori che si sono ispirati alle sue storie, e si può dire che tutto il panorama fantascientifico e horror della letteratura contemporanea, con pochissime eccezioni, può considerarsi una propaggine di Lovecraft.
Non stupisce quindi che sia diventato lui stesso il protagonista di una storia, nella fattispecie di questa bella e particolare graphic novel ad opera di Hans Rodionoff ed Enrique Breccia. Il primo in realtà è autore di una sceneggiatura cinematografica, essendo questa la sua vera occupazione nella vita, e il suo testo è stato adattato per il fumetto da Keith Giffen, pilastro della DC Comics. Di Enrique Breccia non conoscevo nulla, se non il nome, ma ho piacevolmente scoperto il suo stile artistico molto particolare.




La storia è una vera e propria biografia di Lovecraft, dall’infanzia agli ultimi anni della sua vita, e bisogna dire che, sia nella storia che nella vita, il confine tra realtà e fantasia si assottiglia al punto che i due mondi finiscono per confondersi. Fin dalle prime pagine facciamo la conoscenza del piccolo Howard e dello strano mondo che lo circonda nel suo ambiente familiare. Una madre che lo veste e lo trucca come una bambina, un padre internato in manicomio, dove morirà dopo pochi anni, un nonno che gli fa trascorrere le serate raccontandogli storie terrificanti. Già questo basterebbe a turbare la psiche di un bambino che tutto può dirsi fuorché forte e sicuro di sé e del mondo. Ma a questo punto entra in scena l’elemento fantastico, rappresentato da un misterioso libro, il Necronomicon, appartenuto al padre e forse responsabile della sua follia. Il piccolo Howard non resiste alla tentazione di leggerlo, e da quel momento la realtà davanti ai suoi occhi si trasforma. Apparentemente senza alcuna ragione, il suo mondo comincia ad essere tormentato da spaventose creature che lo cercano spasmodicamente, portandolo molto vicino ad un baratro di follia. Howard è però una persona intelligente, e sfrutta queste sue visioni come protagonisti delle storie che scrive. In realtà, nel suo scrivere si limita a riportare fedelmente quello che vede in quelli che lui stesso definisce viaggi nel sonno. E in effetti le sue opere ricevono un discreto apprezzamento da parte del pubblico e dell’editoria. Poi, durante una delle sue visioni ad occhi aperti, conosce Sonia, di cui si innamora e con la quale comincia a concepire un progetto di vita che non
prevede quel mondo immaginario e terrificante che ha scandito fino ad allora la sua esistenza. Ma ben presto si renderà conto che non è così facile, che quelle che lui crede siano creature senza ragione hanno in realtà uno scopo ben preciso, legato al Necronomicon, il libro con cui tutto è cominciato e con cui tutto deve finire. Solo attraverso un ultimo viaggio in quel mondo fantastico, Howard e Sonia riusciranno finalmente a scongiurare il pericolo per la loro realtà e a ritornare al loro mondo. Anche se questo costringerà Lovecraft a continuare nella sua opera, che da adesso avrà un compito fondamentale: impedire che il varco si riapra e mantenere sigillata quella realtà.

Storia interessante su un uomo altrettanto interessante, uno scrittore la cui vita è stata certamente ai limiti della surrealtà tanto quanto le storie che ha scritto, al punto che sulla sua figura si sono fatte molte ipotesi, tra le quali quella che lui fosse veramente convinto dell’esistenza delle creature e dei luoghi di cui scriveva, e che quelli considerati viaggi con la fantasia fossero in realtà deliri di uno schizofrenico che ha perso il contatto con la realtà. Di sicuro c’è che la sua opera è stata fonte di ispirazione per moltissimi autori, non solo di romanzi horror e fantasy, ma anche di fumetti. Ad esempio, è interessante che il luogo popolato dalle sue creature si chiami Arkham, e che proprio in quella città vi sia un manicomio, corrispettivodi quello in cui venne internato e dove poi troverà la morte il padre. Il parallelismo con il famigerato Arkham asylum, il manicomio di Gotham city dove trovano spesso ospitalità i criminali con cui si scontra Batman, è fin troppo facile da fare.
Un commento particolare lo meritano i disegni, che definire così è riduttivo, di Enrique Breccia. Ogni tavola è un quadro ad acquerello, con la forza e l’intensità di certe sfumature che coinvolgono e rappresentano alla perfezione i deliri e le visioni del protagonista. Anche solo per questi, varrebbe la pena di leggere questa graphic novel.




[Articolo di Filippo Longo]

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lunedì 21 novembre 2011

Batman: Death Mask


Contrariamente a quanto potreste pensare dal titolo, quello di cui voglio parlarvi in questa occasione è un manga. Nella storia del fumetto, è successo molto raramente che personaggi dei comics americani venissero scelti come protagonisti di opere di autori giapponesi. Quello del fumetto orientale è stato sempre un mondo particolare, che per tradizione e qualità non ha nulla da invidiare al fumetto europeo o americano. Tuttavia il concetto del supereroe è sempre stato praticamente un’esclusiva delle produzioni americane. Negli ultimi anni, però, si è assistito ad un fenomeno di commistione tra questi due mondi così distinti. In alcune occasioni, protagonisti dei comics sono stati reinterpretati da autori giapponesi, e uno dei primi fu proprio Batman, con la miniserie Il figlio dei sogni ad opera di Kia Asamya. Questo stesso autore ha poi lavorato su alcuni supereroi della Marvel comics, in particolare gli X-Men, curandone per un certo periodo i disegni. E su questa scia, anche altri eroi Marvel hanno avuto una interpretazione in chiave orientale. Tuttavia, fino ad ora, si trattava solo di una impostazione grafica tipicamente giapponese di opere che per il resto restavano occidentali. Con l’opera di Yoshinori Natsume, invece, assistiamo alla creazione del primo vero manga con protagonista un eroe americano.


Contrariamente a quanto può sembrare, il manga non è solo un modo di disegnare, ma un vero e proprio stile concettuale del fumetto. Infatti, accanto ai tratti grafici tipicamente orientali (ragazze dai grandi occhi luccicanti, uomini dal fisico scultoreo, scene d’azione in pieno stile arti marziali, ecc.), possiamo trovare tutte le caratteristiche del fumetto del Sol levante. Intanto l’impaginazione e l’impostazione delle tavole è quella tipica del fumetto giapponese, da destra a sinistra. Inoltre, anche la densità del testo rispetto alle tavole ricorda in pieno altre opere manga. Essendo queste ultime prodotte principalmente, se non esclusivamente, da un singolo autore, la narrazione della storia è affidata molto alla componente grafica piuttosto che alle parole. Infine, mentre gli autori occidentali lavorano quasi sempre su protagonisti che sono proprietà delle case editrici, offrendone un’interpretazione più o meno personale, i mangaka lavorano su loro creature, caratterizzandole come vogliono e senza dover fare i conti con un passato di storie molto spesso ingombrante e limitante.


Proprio per questo, in Batman: Death Mask non troviamo nessuno dei nemici classici dell’uomo pipistrello, e la storia che leggiamo ha solo qualche lieve richiamo al passato del protagonista. Non di meno, Natsume riesce a cogliere e rappresentare alla perfezione tutti gli aspetti peculiari del personaggio, in particolare il suo rapporto con la maschera che indossa. Un rapporto molto spesso conflittuale e angosciante per Bruce Wayne, che molte volte si è soffermato a chiedersi se il suo vero io sia il miliardario playboy o il tenebroso giustiziere della notte. Proprio su queste basi si sviluppa il tema della maschera, con una interpretazione quasi pirandelliana del rapporto tra soggetto osservante e soggetto osservato. Chi è reale, Brice Wayne o Batman? Quanto di quello che fa scaturisce dalla sua volontà e quanto è dettato dal fatto stesso di indossare quel mantello e quella maschera? L’autore non manca di inserire in questa concezione del cavaliere oscuro anche elementi soprannaturali propri della tradizione del suo paese. Gli Oni (spiriti demoniaci) che si impossessano del corpo degli uomini controllandone le azioni sono un perfetto esempio della tradizione popolare giapponese. Infine, non manca una riflessione sulle motivazioni che spingono ad agire, e su cosa renda realmente diversi i ‘buoni’ dai ‘cattivi’, posto che ci sia spazio per queste distinzioni in un mondo come quello in cui si muove Batman, un mondo costantemente avvolto dalle ombre, un mondo in cui i confini netti perdono gran parte del loro reale significato per farsi labili e facilmente valicabili. Solo una ferma disciplina e una profonda sicurezza nelle proprie motivazioni possono impedire di sconfinare dalla parte sbagliata. Ma questo il cavaliere oscuro l’ha imparato a sue spese già da molto tempo.


Per concludere, Batman: Death Mask è un’opera perfetta per tutti gli appassionati di fumetti manga, per tutti i fan dell’uomo pipistrello, e per tutti quelli che vogliono leggere un fumetto senza il peso di settant’anni di storie precedenti ma che esprime perfettamente tutto quello che quelle storie hanno consolidato in tanto tempo.

[Articolo di Filippo Longo]

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mercoledì 14 settembre 2011

All Star Batman e Robin

Quando un personaggio ha molti anni di storie alle spalle, è normale che si facciano diverse interpretazioni degli eventi cardine della sua vita. Quando il personaggio è una leggenda come Batman, questo è praticamente la regola. Tuttavia, i grandi autori che si trovano a percorrere a ritroso il cammino del tempo, reinterpretando storie già raccontate, in genere rispettano le tematiche di fondo di quelle storie, soprattutto per mantenere una sorta di coerenza narrativa ed evitare di distorcere l’essenza dei protagonisti. Però capita che autori particolarmente carismatici decidano di seguire il corso della loro fantasia, tenendo in ben poco conto l’opera dei loro predecessori. È questo il caso di Frank Miller.


A questo punto devo fare una piccola parentesi: non mi piace per niente Frank Miller. Non tanto come disegnatore, ruolo in cui riesce a trovare soluzioni innovative e di un certo effetto, quanto come scrittore. È incontestabile che abbia uno stile di narrazione molto personale, che affronti con disinvoltura anche tematiche piuttosto delicate, soprattutto per un mondo come quello del fumetto che ancora oggi risente degli strascichi di anni di proibizionismo narrativo. Tuttavia, il suo modo di raccontare non incontra il mio gusto. Non mi sono mai piaciuti gli eccessi, ma soprattutto non sopporto il machismo testosteronico di cui Miller ha fatto il suo cavallo di battaglia, soprattutto quando questo è del tutto fuori contesto. Non ho niente da ridire sull’esaltazione che si ritrova negli spartani di 300, perché non è affatto lontana dalla realtà storica e dalla tradizione narrativa di quell’episodio. Posso ancora comprendere questo tipo di narrazione in un’opera come Sin City, dalle atmosfere prettamente noir, dove la violenza, il turpiloquio e la degradazione sono le basi portanti della storia. Ma non riesco ad accettarla in una storia di Batman.


In All star Batman e Robin leggiamo una rivisitazione degli eventi che portano il Cavaliere oscuro ad avere la sua prima spalla. Quando Bruce Wayne vede il piccolo Dick Grayson in mezzo ai cadaveri dei suoi genitori, non può non rivedere se stesso in quella fatidica notte che cambiò per sempre la sua vita. Così, decide che il ragazzo va preso sotto la sua protezione, per essere addestrato a combattere il crimine al suo fianco. Questo è sostanzialmente l’impianto narrativo della storia. Ma al di là dei momenti tragici e di qualche riflessione psicologica di un certo livello, c’è poco altro che colpisce, nell’opera, e certamente non in senso positivo. Sicuramente è interessante vedere le considerazioni di Batman quando da un lato vede che il ragazzo ha il talento che gli servirebbe avere al fianco nella sua crociata, ma dall’altro si rende conto che in questo modo lo condannerà alla sua stessa vita infelice e solitaria. Bello e intenso, a tal proposito, è anche l’acceso scambio di battute tra Batman e il maggiordomo Alfred, che gli fa notare come imporre le sue scelte di vita a un ragazzino di dodici anni possa essere una decisione discutibile. Al di là di questo, però, vediamo degli atteggiamenti dell’eroe che si fa fatica a riconoscere come suoi. Siamo abituati ad un Batman che si muove come un’ombra terrificante e silenziosa, che nessuno vede o sente finché non ha colpito. Qui invece, annuncia il suo arrivo con una risata ghignante, giustificandola come un altro degli artifici volti a incutere terrore nei criminali. Siamo abituati ad un Batman cupo e silenzioso fino al mutacismo patologico, freddo e riflessivo, mai preda di emozioni di alcun tipo. Qui invece, lo vediamo esaltarsi in una corsa di auto, sfidare i poliziotti solo per il gusto di mostrare la sua superiorità, ostentare le tecnologie della sua attrezzatura solo per impressionare il piccolo Dick. Insomma, un Batman spocchioso e arrogante, pieno di sé, esaltato dal mito della sua stessa maschera. Tutti tratti di un carattere che poco si accosta alla figura del vero Batman. A qualcuno potrà anche piacere questa interpretazione, ma a mio modo di vedere questo non è il Batman che ho imparato a conoscere e amare in tanti anni di storie.

Discorso a parte meritano i meravigliosi (come al solito) disegni di Jim Lee, che non delude mai i suoi fan e ci regala tavole di grande intensità e dinamismo pur non tralasciando quella cura dei dettagli che lo contraddistingue da sempre. Spettacolare in tal senso l’enorme splash page a sei facciate che raffigura il primo ingresso di Dick nella Batcaverna. In definitiva, se dovessi dare dei numeri, direi che le ragioni per voler tenere in mano il volume All star Batman e Robin sono 20% storia e 80% disegni, nonostante io sia un convinto sostenitore che un fumetto deve essere prima di tutto ben scritto, poi ben disegnato, e non il contrario.


[Articolo di Filippo Longo]




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mercoledì 31 agosto 2011

All Star Superman


Non sono mai stato e non credo che sarò mai un fan di Superman, ma non c’è dubbio che rappresenta una pietra miliare della storia del fumetto e dei supereroi. Leggo alcune storie dell’uomo d’acciaio più che altro per avere un quadro completo dell’universo DC, dove sicuramente gioca un ruolo di protagonista e spesso compare in eventi legati ad altri personaggi. Vi chiederete allora perché io abbia deciso di comprare un volume che raccoglie una miniserie fuori collana e fuori continuty, senza nessun aggancio a particolari saghe o eventi attuali o passati. Beh, sarò onesto, l’unica ragione iniziale è rappresentata dal team creativo. Grant Morrison per me fa parte di una trinità inviolabile del mondo del fumetto, anche con i suoi alti e bassi narrativi (gli altri due sono Alan moore e Neil Gaiman). Senza nulla togliere ad altri autori di grande levatura, sia del passato che del presente panorama fumettistico americano, questi tre riescono sempre a trovare motivi narrativi che non posso fare a meno di ammirare e invidiare. Quando accade che Morrison si unisce a Frank Quitely, la cosa acquista ancora di più un carattere imperativo, perché, sebbene il mio gusto per il disegno sia più legato a un’impostazione classica del fumetto (uno stile fratelli Kubert, per capirci), e le tavole di Quitely possono dirsi tutto fuorché classiche, i due insieme formano un’accoppiata vincente sotto tutti i punti di vista. Sarà per una questione geografica (entrambi scozzesi, entrambi di Glasgow), non lo so, fatto sta che già sugli X-Men, e adesso in questa miniserie di Superman, così come in altre opere forse meno note, quali Flex Mentallo e We3, i due insieme acquistano uno storytelling armonioso e coinvolgente nonostante si discostino molto, narrativamente il primo, graficamente il secondo, dalla tradizione.


Tuttavia, mi è bastato arrivare in fondo all’introduzione per sospettare che ci doveva essere qualcosa di più. questo sospetto è sorto quando ho letto che un certo Mark Waid, firmatario di questa introduzione, affermava di aver letto ogni storia mai scritta di Superman e di non averne mai lette di migliori. Considerando che il buon Mark ha praticamente scandito la sua intera vita a colpi di storie dell’universo DC, credo che la sua frase sia ben più di un’opinione. Poi l’ho letto. E credo di poter dire che questo è un volume che non può mancare nella libreria di nessun appassionato dell’uomo d’acciaio. Come al solito, con Grant Morrison niente è facile, quindi non mi sentirei di consigliare questa storia agli amanti di letture lineari, o con ampi spazi per l’azione pura  e semplice. Qui abbiamo a che fare con una storia sottile e complessa, e a volte ci sembrerà di non capire certe frasi, certi scambi di battute, avremo la sensazione di aver saltato una pagina. È una storia che va letta, metabolizzata, e poi riletta con grandissima attenzione ai più piccoli dettagli, sia narrativi che grafici, che si intrecciano oltrepassando il limite fisico del capitolo in corso, tanto che una frase delle prime pagine può essere compresa solo dopo aver letto le ultime due. Tutta la storia è ricca di questi artifici, che la impreziosiscono anche dal punto di vista del messaggio generale. Mi sentirei di poter dire, da non appassionato dell’eroe in questione, che questa storia spiega a tutti chi è Superman, che cosa rappresenta per il mondo e che cosa il mondo rappresenta per lui. Leggetela. E non vi preoccupate se Superman sta morendo. Come dice Lois Lane nell’ultimo capitolo, quando avrà finito di fare quello che sta facendo, Superman tornerà.

[Articolo di Filippo Longo]

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lunedì 18 luglio 2011

Abraxas e il Terrestre


Anche chi non l’ha letto, ne avrà certamente sentito parlare, dato che è uno dei romanzi più famosi della letteratura mondiale. Sto parlando di Moby Dick di Herman Melville, di cui nel tempo le riedizioni illustrate, animate e cinematografiche sono state tante da non potersi contare. L’ho letto parecchi anni fa, ma ne ricordo ancora bene alcune scene cardine. Chi pensa che sia solo un libro di avventure per ragazzi si sbaglia di grosso. È opinione unanime dei critici letterari che l’opera di Melville sia una metafora del comportamento umano, in particolare di quell’aspetto tutto proprio della nostra razza che va sotto il nome di ossessione. La balena bianca è quel qualcosa di  angosciosamente irraggiungibile cui tutti tendono nella vita, chi più chi meno, e che arriva a dominare la mente dell’uomo al punto che ogni altro pensiero passa in secondo piano. Perché sto parlando tanto di Moby Dick? Perché questo fumetto, interamente scritto e disegnato da Rick Veitch, ne è una brillante reinterpretazione contemporanea. Ma se fosse solo questo magari non ne avrei parlato. È ovvio che c’è di più.
Il giovane Isaac, scienziato che studia il verso delle balene come forma di comunicazione, viene rapito da una sorta di astronave a forma di albero, guidata da strani individui che dell’essere umano hanno poco o niente. In breve, Isaac scopre che si tratta di una nave il cui equipaggio va a caccia di balene, solo che questa nave e queste balene non si trovano in un comune oceano, ma nello spazio. Tutta la vita del mare come la conosciamo è riportata alla dimensione spaziale. Ci sono porti, attracchi, cantieri, taverne, marinai e storie. Ma c’è anche qualcosa di diverso. Degli strani medici (chirurghi, per essere precisi) chiamati Xlexu, che hanno l’aspetto di enormi mantidi verdi, hanno la capacità di modificare gli esseri viventi facendo acquisire loro proprietà straordinarie. Isaac è stato rapito perché i chirurghi Xlexu lo modifichino sfruttando le sue doti di ascoltatore del canto delle balene. Questo perché lo scopo del capitano è quello di trovare e uccidere Abraxas, una gigantesca balena rossa con due corni ai lati della testa. Ma nel destino di Isaac c’è di più che diventare un brutale strumento di caccia nelle mani del capitano. Secondo un piano ordito dagli Xlexu, Isaac è il prescelto per arrivare ad un nuovo stadio evolutivo, in cui l’anima, e non il corpo, acquisisce rilevanza nella determinazione dell’esistenza dell’essere vivente. L’anima di Isaac dovrà entrare in contatto e fondersi con Abraxas, per liberare finalmente la sua vera potenzialità e aiutarlo a condurre le anime di tutti coloro che lo meritano verso la fusione con altre balene, preservandone la specie e salvandole da un destino di annullamento.

Nell’opera di Veitch troviamo quindi tutti gli elementi classici di Moby Dick, sia figurativi che concettuali, ma c’è anche qualcosa di più. Al motivo della ricerca ossessiva del mostro da uccidere e a quella della denuncia di una pratica violenta come la caccia alle balene, Veitch aggiunge il tema dell’evoluzione umana. Tema che forse gli è caro più di ogni altro, dato che è anche uno dei principali della graphic novel The One. Qui, invece che all’evoluzione di un’intera razza, come avevamo visto in The One, assistiamo all’evoluzione di singoli individui, guidati da un essere che, attraverso diverse fasi, fisiche e metafisiche, raggiunge la completezza dell’essere e si dimostra pronto a guidare i suoi simili meritevoli nel suo stesso nuovo paradiso.

Un romanzo ricco di significati, questo, non privo di aspetti comici (penso alle due aliene ninfomani!) e romantici (come l’attrazione sentimentale tra Falco e Sfinge), ma che sostanzialmente ci propone il tema del viaggio e della ricerca non come qualcosa di fisico ma in una dimensione metafisica e interiore. Se siete stanchi di scazzottate e turpiloquio gratuiti, o di perdervi nei meandri di continuty ormai praticamente senza significato, Abraxas e il Terrestre è un fumetto che vi consiglio, magari potrebbe risvegliare una passione sopita per la letteratura disegnata.


[Articolo di Filippo Longo]

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mercoledì 13 luglio 2011

The One

 

Me ne avevano parlato degli amici che potrei definire intenditori di fumetti. Io non sapevo niente, non avevo mai nemmeno sentito nominare Rick Veitch. Mi dissero che è praticamente il successore concettuale di Alan Moore. Caspita! A dire il vero, mi sembrò un po’ un’esagerazione. Però il fatto che lo stesso Moore gli aveva affidato la gestione di Swamp Thing dopo che lui l’aveva lasciato per dedicarsi ad altri lavori, qualcosa doveva pur dire. Come ho detto, non ne sapevo niente. Il che è sempre una cosa buona. Molti si spaventano a leggere qualcosa che non conoscono, neanche per sentito dire. Per esempio, comprano un libro solo se hanno letto una recensione o hanno parlato con qualcuno che l’ha già letto e del cui giudizio si fidano. Per me questa cosa non vale, o vale molto poco. Se ne so qualcosa e mi intriga, bene, altrimenti, bene lo stesso. La maggior parte dei miei libri è stata comprata e letta nella più totale ignoranza. Non avevo idea di chi fossero Jonathan Coe, Kurt Vonnegut o Domenico Starnone prima di comprare i loro romanzi. Allo stesso modo, nessuno mi aveva mai detto niente di Promethea o di Sandman, prima di iniziare a leggerli. Così è stato con The One. Mi è bastato sentir dire che Veitch è uno degli autori più innovativi che ci siano per ora in circolazione.

Definire The One non è facile. Il sottotitolo dice “L’ultima parola sui supereroi”, quindi dovrebbe essere un fumetto sui supereroi. E in effetti, ce ne sono, nella storia. Ma ci sono anche i "normali", gli esseri umani, che forse sono ancora più interessanti. Potrei dire che è un romanzo di fantapolitica, molto calato nel periodo storico in cui è stato scritto. Nel 1984 Rick Veitch si siede alla scrivania e scrive The One. E cosa c’era nel mondo, a quell’epoca (ridendo e scherzando sono passati venticinque anni!)? Beh, semplice: da un lato USA, dall’altro URSS. In mezzo? Tutto il resto. Vale a dire tutti gli uomini, le donne e i bambini che vivevano all’ombra della guerra fredda, in quella costante paura innominabile del disastro nucleare. Il 1945 e il Giappone erano serviti a dimostrare al mondo il potere della bomba. Ma molto più grande della devastazione scatenata a Hiroshima e Nagasaki era stata la paura che la bomba aveva sparso per tutto il mondo. I russi ce l’avevano, gli americani ce l’avevano. Cosa poteva succedere? Partendo da questo presupposto, Veitch va avanti, introducendo l’elemento sovrannaturale. Visto che entrambi avevano le armi nucleari, gli scienziati dei due governi furono impiegati per trovare qualcosa che potesse conferire un vantaggio. Si dovevano creare dei supersoldati. Ma il caso vuole che sia l’uno che l’altro dei giocatori della scacchiera riescano ad avere anche questa nuova arma. Solo che nessuno dei due si preoccupa del resto dell’umanità. Senza che nessuno se ne renda conto, l’evoluzione ha compiuto un balzo in avanti. La coscienza degli uomini, vissuti per anni in un clima di terrore silenzioso, ha agito da catalizzatore, e le azioni dei superesseri russi e americani hanno acceso la scintilla che porterà l’umanità al nuovo stadio evolutivo. Ma non tutta l’umanità.

Approfondendo la psicologia dell’esistenza umana, Veitch dissocia le due parti che si contendono l’animo, dando loro forma in due concetti antitetici: l’Uno e l’Altro. L’Uno è la manifestazione del bene, della forza dell’amore puro, dell’altruismo, del rispetto di chi ci sta accanto, simile e meno simile. L’Altro è il suo esatto contrario, la concretizzazione degli istinti più bassi scatenati dalla paura, il desiderio di prevaricare come unica risorsa di sopravvivenza.
Ma la cosa davvero interessante è che alla fine vincono entrambi. L’Uno riesce a portare tutti coloro che sono riusciti a scegliere, a vedere oltre gli occhi, in un paradiso dove i desideri e i sogni costituiscono la realtà. L’Altro si ritrova a dominare quello che resta del pianeta Terra, spogliato della sua anima pura, all’insegna della sofferenza e della morte come unici mezzi di esistenza. In questo scenario, i due supereroi americani, Charles e Amelia, forti di una ritrovata passione l’uno per l’altra, e ormai liberi dai falsi divieti che erano stati loro imposti dal governo per controllarli, dovranno cominciare un nuovo ciclo vitale, come nuovi Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden purificato dal male. Fino a quando anche loro non giungeranno ad un vicolo cieco evolutivo in cui sarà di nuovo necessario l’intervento dell’Uno e dell’Altro per salvare chi sceglie di vivere per gli altri e condannare chi vive solo per se stesso.


Grande romanzo di fantapolitica, satira, fantascienza e sentimento, che mi ha sorpreso molto piacevolmente per la sua novità, e che consiglio a tutti quelli che vogliono leggere storie diverse da quelle in cui i supereroi hanno la pretesa di trasmettere messaggi adulti e impegnati continuando a comportarsi da bambini che si picchiano per le caramelle. Che magari saranno pure caramelle cosmiche, ma sempre caramelle sono!




[Articolo di Filippo Longo]

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lunedì 2 maggio 2011

Kid Eternity di Grant Morrison


Quando c’è da addentrarsi nei meandri della mente, Grant Morrison è una garanzia. Non è un caso che le sue opere migliori siano proprio quelle di impostazione psicologica e surreale fin dal loro concepimento, mentre qualche volta questa sua tendenza al surrealismo è risultata una forzatura in opere di personaggi che avevano già conosciuto in precedenza, e mantenuto per molto tempo, un’impostazione più classica. Non è certo questo il caso di Kid Eternity, una graphic novel che riprende un personaggio Vertigo di cui da tempo si erano perse le tracce, inserendolo in un contesto decisamente fuori dagli schemi consueti del fumetto. Inoltre, la storia autoconclusiva è forse il tipo di prodotto con cui Morrison si trova più a suo agio, avendo un limite definito e una trama scritta da principio a fine in cui poter miscelare gli elementi narrativi che in quel momento gli preme trasmettere. Prova ne sia che, quando ha avuto per le mani serie di più ampio respiro, ha sempre costruito degli archi narrativi indipendenti e sganciati dal filone principale, incontrando da un lato il favore di quanti apprezzano le opere che mostrano una certa indipendenza e innovazione, ma dall’altro suscitando le ire di quanti non ammettevano che i loro eroi preferiti venissero estrapolati dal contesto in cui avevano vissuto per tanti anni di storie e catapultati in un mondo narrativo che non riconoscevano come confacente a quei personaggi. È proprio quello che è successo con gli X-Men, nel suo breve periodo di collaborazione con la Marvel, ma anche con Animal Man e la Doom Patrol, in casa DC. Kid Eternity si inserisce a pieno titolo nel numero delle graphic novel morrisoniane, per le sue caratteristiche sia narrative che grafiche. Non è un caso, infatti, che le sue opere migliori siano disegnate da autori che concepiscono il fumetto come un’opera d’arte vera e propria, al punto che ogni singola tavola, presa separatamente, non avrebbe nulla da invidiare alle opere pittoriche esposte nei più prestigiosi musei surrealisti. È stato così per Arkham Asylum, con i disegni di Dave McKean, e si ripete adesso con Kid Eternity, dove uno straordinario Duncan Fegredo ci regala, una dopo l’altra, tavole di una intensità tale da costringerci a riguardarle tutte dopo aver finito la prima lettura.


Jerry è un cabarettista che cerca di trovare la sua strada verso il successo, e per questo ha una certa familiarità con le idee di finzione e surrealtà. Ma la sua conoscenza della dimensione ultraterrena sta per diventare ben più approfondita di quanto lui stesso vorrebbe. Tutto accade una notte in cui viene coinvolto in uno strano incidente automobilistico e finisce in rianimazione in gravissime condizioni. In queste circostanze, la sua coscienza travalica il limite della realtà e finisce in una dimensione ultraterrena in cui incontra uno strano ragazzo, Kid, evanescente come un fantasma, che lo porta con sé dicendogli che ha una missione fondamentale da compiere per la salvezza dell’universo e che Jerry avrà un ruolo indispensabile in questo compito. Inizia così il viaggio dei due attraverso il mondo infernale, dove Kid è stato tenuto prigioniero per anni e dove, quando è scappato, ha dovuto abbandonare il suo maestro. In un complicatissimo intreccio di vite e situazioni, i due si confronteranno con una terribile minaccia per l’intera esistenza, quando ordine e caos si contenderanno le sorti del mondo, mondo in cui dovranno trovare posto due novelli Adamo ed Eva, investiti del compito di dare alla luce il bambino prescelto, da cui sorgerà una nuova stirpe.


Scritto e disegnato da due maestri del surreale, Kid Eternity dà una iniziale sensazione di straniamento, facendo perdere al lettore, insieme al personaggio, i punti di riferimento della realtà che lo circonda, preparandolo per gli eventi che seguiranno, in modo che non possa opporsi al dilagare di pensieri e concetti astratti che, pagina dopo pagina, si riverseranno nella sua mente, in un caleidoscopio di immagini e parole da cui difficilmente può riuscire a staccarsi prima che sia arrivata l’ultima pagina. E quando avremo finito, rimarrà un palcoscenico in penombra, vuoto, e l’eco di una domanda, che aleggia nell’aria: siamo stati all’inferno, o in paradiso?



[Articolo di Filippo Longo]

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