Un fumetto sui libri e sui librai. Sulle letture, sulle librerie e i mondi che possono aprirci. Sulle storie, sui misteri che ammantano città e persone. David B. autore de "Il grande male" ci narra una saga esoterica e poetica, in cui le idee più intriganti, gli incontri più particolari, avvengono... di notte. Un video con cui torno a parlare di fumetto d'autore e grandi metafore, nona arte e alta letteratura. Per gli sbadigli (forse) di tanti e per un tubo (si spera) meno standardizzato.
lunedì 20 agosto 2018
martedì 14 agosto 2018
"The End? L'inferno fuori" di Daniele Misischia
“The End? L'inferno fuori”
dell'esordiente Daniele Misischia è un film italiano di genere. Ok.
Partiamo da questo dato scontato. E cioè che dopo un lungo silenzio,
qualcuno in terra italica torna a percorrere quei sentieri
dell'immaginario perturbante che nel nostro cinema è stato
consegnato alla storia da nomi del calibro di Dario Argento e Lucio
Fulci (ma prima ancora arrivò Mario Bava), soprattutto negli anni
70 e in parte negli 80. Tempi eroici in cui dire “di genere”
aveva una valenza diversa da quella odierna. Principalmente
dispregiativa. E in cui venivano prodotte pellicole di una genialità
artigianale che spesso sarebbero state rivalutate solo dopo un lungo
e colpevole atteggiamento di sufficienza culturale. Il film di
Misischia (esordiente alla regia sul grande schermo, ma già rodato
alla scuderia dei Manetti Bros) subisce l'ennesima angheria di essere
distribuito a Ferragosto, per di più insieme a blockbuster con i
quali la partita al botteghino è impari in partenza. E proprio per
questo, pur con tutte le sue imperfezioni, è un film che si dovrebbe
scoprire, godere e valorizzare. Sempre che – elemento necessario –
siate cinefili e soprattutto amiate l'horror. O quel tono di
sufficienza, molto anni 70, potrebbe tornare a mordervi come gli
zombi di cui stiamo per parlare. Sì, perchè il film di Daniele
Misischia si basa tutto su un'idea e sulla tecnica per fare di un
limite virtù. E sono sforzi che bisogna sapere apprezzare.
“The End? L'inferno fuori”
è un film horror, dunque.
Anzi, uno zombi-movie, di quelli che ormai fanno etichetta a sé. Ma
è anche un esercizio di stile che combina più sottogeneri, tutti
ascrivibili alla categoria più ampia del thriller.
Il film vive inteamente
nel suo spunto di partenza. Un apocalisse zombi (o di infetti furiosi
e cannibali, ormai non importa più). Un uomo intrappolato in uno
spazio angusto. Una serie di eventi terrificanti che si succedono al
di fuori, e di cui c'è dato scoprire solo il punto di vista del
protagonista. Quello offerto dalla finestra ricavata dalle ante
semiaperte di un ascensore bloccato tra
due piani. Rifugio e nello
stesso tempo strumento di tortura, che porta lo spettatore a
chiedersi dove sarebbe effettivamente meglio trovarsi? Se in trappola
con il protagonista o fuori, alla mercé di un'orda di zombi
famelici. Se in fuga là dove
si può essere
sbranati a ogni angolo o rinchiusi dove con molta probabilità si
farà la fine del topo.
Potremmo
definire questo sottogenere, un “punto di vista relativo”. Una
narrazione classica ridotta alla visione soggettiva e parziale di un
personaggio defilato. Un po' come nel film “Cloverfield”,
dove la classica invasione del mostro gigante che mette a ferro e
fuoco una città è raccontata
attraverso gli occhi di un pugno di cittadini ignari di quanto sta
succedendo, quasi venisse
data voce alle comparse che
si solito si limitano a correre urlando.
Inevitabile è anche pensare
a “Buried”,
film interamente ambientato
nel chiuso di una cassa dove
un uomo, sepolto vivo, cerca di darsi aiuto con un telefono e pochi
altri arnesi. Il tutto collocato nello scenario ormai canonizzato
dell'epidemia zombesca, in cui l'appassionato di horror sa perfettamente che cosa sta
succedendo, ma dove l'ansia e il senso dello spettacolo è fornito
dal crescendo di consapevolezza, terrore e reazione, dell'uomo
intrappolato in uno spazio che ne limita i movimenti e la
comprensione dei fatti. C'è
poi quell'elemento che risale addirittura al
teatro del Grand Guignol
e agli orrori suggeriti più che mostrati. Sempre attraverso il
telefono, come nel classico “Au telephone”
del drammaturgo francese André De Lorde, in cui un uomo in viaggio,
attraverso l'apparecchio telefonico appena installato
nelle case del primo novecento,
ascolta
impotente i suoni che
descrivono l'assassinio della
sua famiglia.
Il
cinema di zombi, a partire dal suo capostipite romeriano, “La
notte dei morti viventi”,
nasce da subito come cinema della costrizione. Racconto d'assedio,
dove l'inferno fuori è catalizzatore di discordia e orrori interni,
secondo l'idea infernale immaginata da Jean Paul Sartre in “Porta
Chiusa”. Qui
l'assedio riguarda un singolo e il catalizzatore della paura non sono
tanto gli zombi, quanto l'ignoranza di cosa succede fuori, e gli
inesorabili sviluppi della
catastrofe che si rivelano in
dettagli mostrati dapprima con piccoli squarci di mondo esterno, e
poi con una progressiva penetrazione dell'orrore all'interno. Se
nella trilogia di George Romero gli zombi assediavano l'ordine
costituito, la famiglia, l'istituzione, la società dei consumi, le
forze dell'ordine e alla fine dichiaratamente il capitalismo, in
“The End?” si
scatenano all'interno di un complesso aziendale e tengono
emblematicamente in ostaggio un imprenditore cinico e dispotico.
Potremmo definirla una
miniatura dei topos romeriani, dove sia il luogo dell'assedio (una
casa, un ipermercato, un bunker... qui lo spazio angusto di un
ascensore) e i totem da abbattere (qui riassunti in un unico
personaggio simbolo) sono felicemente concentrati con un ottimo uso
del ritmo e dello spazio scenico volutamente ridotto.
Allessandro
Roja, volto della serie
televisiva “Romanzo criminale”
è funzionale al suo personaggio e alla lenta evoluzione (anche
quella simbolica che affronterà). La performance non è forse
memorabile, ma non necessita di esserlo in quanto il film vive di
attese, suggestioni e vampate di terrore che
l'interprete è in grado di reggere. Più incisivo è il giovane Claudio Camilli, che riempie lo schermo con la sua mole e il suo carisma non appena entra in scena, ed è il perno di alcuni dei momenti più intensi della pellicola. I comprimari, la maggior parte dei quali appaiono solo di sfuggita, e
la moglie del protagonista (Carolina Crescentini, presente solo come
voce al telefono) sono veicolo di tutti quei cliché che lo
spettatore si aspetta, e che fanno parte del lavoro di attenta
miniatura che la regia offre a un pubblico scafato, ma in grado di
apprezzare la tecnica del racconto.
In
definitiva, “The End? L'inferno fuori” è
un riuscito, piacevole giocattolo per mettere paura. Senza
esagerazioni, è un'opera prima da promuovere per la forma e la
capacità di osare. Una variazione su un tema ormai abusato che trova
i suoi punti di forza nella sottrazione anziché nell'eccesso. Un
giocattolo che riesce persino a spaventare in più di una scena là
dove pellicole mainstream hanno ormai rinunciato, oppure falliscono
nel più frustrante
dei
ja vu. E se dovrà esserci un ritorno al cinema di genere italiano,
magari possiamo considerare proprio il film di Daniele Misischia il
punto da cui ripartire.
sabato 11 agosto 2018
Riscoprire "52"
Ho appena finito di rileggere "52", la saga settimanale che copre le 52 settimane seguenti all'evento DC "Crisi Infinita", e che sostanzialmente reintroduce il concetto di multiverso (cancellato anni prima da "Crisi nelle Terre Infinite"). Pubblicato nel 2006, scritta da Geoff Johns, Mark Waid, Grant Morrison, Greg Rucka e Keith Giffen, "52" illustrava l'anno del cosmo DC durante il quale i personaggi fondamentali di Superman, Batman e Wonder Woman erano scomparsi. I protagonisti, infatti, sono le retroguardie dell'universo narrativo, personaggi secondari o addirittura marginali, alcuni dei quali ripescati dal dimenticatoio editoriale. Un'operazione bizzarra, che si dipana come un grande feuilleton fitto di enigmi ben congegnati, in cui villains storici acquistano un definitivo spessore (soprattutto Black Adam) e nuovi eroi ricevono la loro consacrazione (la nuova Question e la nuova Batwoman). Un dipanarsi di trame e sottotrame intricate, complotti complessi, risvolti fantapolitici e squarci di space opera. Un mistery dove spionaggio e soprannaturale si mischiano, seguendo il cammino del detetive Ralph Dibny (l'ex Elongated Man) che cerca un modo per riportare in vita la moglie defunta, mentre il signore del tempo Rip Hunter (anche lui scomparso) muove dietro le quinte le fila di una machiavellica resistenza. Un storia supereroistica dedicata ai comprimari che è anche un ottima occasione per i neofiti di studiare un compendio di storia DC, e imparare ad amarla. In fondo, un gran bel lavoro nella sua particolarità. Peccato sia difficile recuperare tutti e 52 gli albetti (uno per settimana) che compongono la saga. Ma una ricerca che vale la pena di fare per chi non ha avuto occasione di leggerla.
mercoledì 1 agosto 2018
Hereditary
Ossessione. Infestazione. Possessione.
Visto “Hereditary” di Ari Aster. Film horror che divide il pubblico. Chi lo esalta, chi lo boccia senza appello. E tutto sommato un motivo c'è.
Visto “Hereditary” di Ari Aster. Film horror che divide il pubblico. Chi lo esalta, chi lo boccia senza appello. E tutto sommato un motivo c'è.
“Hereditary” è un'opera ambiziosa,
volta a essere un horror d'autore. Ari Aster, regista giovanissimo al
suo esordio, dimostra di non essere un velleitario qualunque, e di
possedere delle felici intuizioni visive. Il problema è la
confezione generale, la cesura quasi netta che sembra dividere il
film in due blocchi narrativi collegati ma sotto certi aspetti non
omogenei. Cosa che porta alla nascita di una creatura attraente, ma
claudicante. Gioca la sua parte anche un'eccessiva caduta di stile
nel finale, in cui la volontà di concludere in fretta sembra
mostrare il conto a una regia interessante che giunta a quel
traguardo ha però esaurito le cartucce, e si adagia in un manierismo
che dopo tanta atmosfera risulta tanto più fastidioso. Parecchio
fastidioso. Lacuna ancora più grave quanto tutta la prima parte del
film è stata affascinante, sprecando in sostanza un buon potenziale
e presentando in definitiva un'opera non del tutto compiuta.
Questo non rende “Hereditary” un
film da buttare. Ricordiamoci, soprattutto, che ci troviamo di fronte
a un'opera prima. E ad averne. Il giudizio si colloca in una
posizione intermedia, una materia potenzialmente buona, una regia
suggestiva e soprattutto un ottimo comparto attoriale guidato da una
Toni Collette al suo meglio. Se non fosse per quello scotto pagato a
una conclusione che se scritta con maggiore cura, se fosse stata più
suggerita e meno declamata, magari avrebbe reso di più e conservato
la solidità della prima ora. Diciamolo. “Hereditary”, come molti
altri film di genere, echeggia spunti già visti, e in questo non c'è
niente di insolito né di male. Nella fattispecie, a me ha ricordato
“Darkness”, film spagnolo di Jaume Balaguerò del 2002, che
presenta più di un dettaglio in comune con la narrazione di base del
film di Aster. Dal mio punto di vista, il confronto tra questi due
horror è curioso. Infatti, se in “Darkness” la rivelazione
dell'intrigo soprannaturale e delle sue dinamiche aveva una sua
efficacia drammatica, mostrata più che spiegata, “Hereditary”
pecca proprio in questo, ma risulta (sempre a mio parere) più
riuscito del film di Balaguerò dal punto di vista del ritmo e del
crescendo preparatorio, laddove “Darkness” girava a vuoto senza
seminare le suggestioni malate che invece nel film di Aster
abbondano.
“Hereditary” si affida molto ai
dialoghi, anche quelli che sono apparentemente relegati a rumore di
fondo, per suggerire significati e dare un senso a quanto vedremo
accadere sullo schermo. I vari riferimenti mitologici, uno scambio di
battute tra madre e figlia, il ricordo di tragedie passate. Il
racconto di spavento fa leva sulla memoria e sull'attenzione per il
dettaglio dello spettatore. Se si guarda a questi elementi con occhio
distratto, il film perderà un'altra ampia porzione della sua ragion
d'essere. Come dicevo all'inizio, è un'opera ambiziosa che fallisce
sul lungo tragitto, ma che è apprezzabile per le buone intenzioni e
non lascia del tutto indifferenti. Al contrario, fornisce sequenze e
situazioni che generano autentico raccapriccio (in senso emotivo, non
come shock visivo, in ogni caso molto ridotto). I rapporti di causa e
di effetto, le scelte dei personaggi (che quasi sempre finiscono col
produrre un risultato opposto a quello che si proponevano di
ottenere) esprimono un sottotesto fatalista e claustrofobico (reso
benissimo dalla sovrapposizione con l'arte artigianale cui si dedica
la protagonista, che realizza miniature in scala dei momenti cardine
nella vita della propria famiglia) trovano la loro ragion d'essere in
una verità angosciante espressa chiaramente sin dalle prime battute
del film. Per questo “Hereditary”, nonostante l'intrusione non
sempre ben gestita del tema demoniaco, potrebbe essere interpretato
come la metafora di una malattia ereditaria. Ineluttabile,
immeritata, e contro il cui decorso è vano ribellarsi. Un dna malato
il cui destino è già stato scritto.
La regia di Aster sceglie un ritmo
lento ma scandito, e alcune scelte visive sono realmente inquietanti.
Compresa la scelta del volto particolare di Milly Shapiro
(cinicamente mi ha fatto ripensare all'uso fatto da Wes Craven
dell'attore Michael Berryman in “Le colline hanno gli occhi”),
vera e propria maschera del film in un ruolo che non si dimentica.
Poi arriva la parte finale. La corsa
(eccessiva) alle rivelazioni, e la scelta di espedienti fin troppo
dozzinali per svelare un background che per tutta la prima parte è
stato latitante. I riferimenti a “Rosemary's Baby” sono evidenti,
ma se il film di Roman Polansky sin dal principio era generoso di
indizi che lentamente formavano un mosaico d'angoscia, “Hereditary”
si affida a poche sequenze che veramente non reggono per immaturità
e faciloneria il confronto con le intuizioni drammatiche del primo
tempo. Si legge in rete che in alcune sale il pubblico risponde
ridendo a determinate scene. Ci può anche stare, ma lascia il tempo
che trova. Al di là della fretta di determinate soluzioni, e quindi
alla loro goffaggine, sono abituato a sentire la gente ridere in sala
di tutto senza distinzione. Quando è giustificato e anche quando non
lo è. Ricordo di aver sentito la platea ridere davanti al cadavere
congelato di Leonardo Di Caprio nel finale di “Titanic”, pertanto
non do alcun peso a questo fenomeno di massa.
In definitiva, “Hereditary” è un
film che gli appassionati di horror dovrebbero vedere con molta
attenzione. Giusto per coglierne gli spunti migliori separandoli da
quelli palesemente malriusciti, valutando lo stile di alcune
variazioni su un tema già affrontato in passato. Non mi sento di
condannare l'intero film nel suo complesso, la valutazione si colloca
nel mezzo. Come un lavoro che dimostra un potenziale che però dovrà
forse esprimersi e confermarsi in produzioni future.
Del resto, l'eredità cinematografica
di Ari Aster non era agevole. Bacchettate sulle mani per la chiusura
del film, e rimandato a Settembre per portare a compimento tutto
quello che di buono ha lasciato intravedere.
martedì 31 luglio 2018
Capitani Meravigliosi - 5
E alla fine arriva... Carol. Il Capitan
Marvel femminile attualmente detentore del titolo e destinata a
essere protagonista del film in live action omonimo, cosa che lascia
supporre una sua rinnovata iconicità e il perdurare del suo ruolo
nel cosmo Marvel fumettistico. Abbiamo detto “alla fine”, ma non
per ultima. Carol Danvers, al contrario, arrivò proprio in
principio, nelle primissime storie del Capitano Marvelliano. Carol
era un ufficiale dell'aeronautica americana e responsabile della
sicurezza di un'importante base militare. Il suo ruolo la portò
precocemente a incrociare la strada con Mar-Vell (che all'epoca era
venuto sulla terra come spia) e a essere salvata da questi,
innamorandosene senza speranza (l'amore della vita di Mar-Vell era la
dottoressa Kree Una, al centro di un classico triangolo
fanta-soap-operistico). Carol rimase comunque a lungo un comprimario
importante del Capitano per buona parte della sua carriera, finché
non fu coinvolta in una battaglia che la vide investire da un'onda
energetica, e quindi sparire temporaneamente di scena. Qualche tempo
dopo, si scoprì che l'esplosione del dispositivo alieno aveva
alterato la sua struttura fondendola con quella di Mar-Vell,
trasformandola di fatto in un ibrido terrestre-Kree e dotandola degli
stessi poteri del Capitano. La Marvel (la casa editrice) stava
pianificando una versione femminile di Mar-Vell (come già nel mondo
Fawcett esisteva Mary Marvel, controparte di Marvel-Shazam) e la
scelta cadde su Carol che diventò così Miss Marvel.
Era l'inizio di una gavetta
supereroistica che sarebbe durata circa 35 anni, e avrebbe fatto
passare Carol attraverso una lunga serie di trasfigurazioni.
All'inizio delle sue avventure, il rapporto tra Carol e la sua nuova
natura Kree aveva dello schizofrenico. Le due identità condividevano
il corpo, ma agivano ognuna per proprio conto (come il personaggio DC
della Spina). Presto le due nature di Carol si fusero e Miss Marvel
iniziò una lunga militanza tra gli Avengers. Il personaggio, però,
era irrequieto. Lo erano gli sceneggiatori, e i lettori anche. Una
serie di intrighi incrinò il rapporto di Carol con i compagni di
squadra, ma soprattutto, per intervento dello scrittore Chris
Claremont, la scena le fu rubata (letteralmente) da un nuovo
personaggio che i lettori avrebbero amato molto di più. Rogue,
futura punta di diamante degli X-Men, ma inizialmente membro della
Confraternita di Mystica, aggredì Carol e ne assorbì integralmente
i poteri e la mente. Il risultato fu per Carol il coma, per Rogue
l'acquisizione di tutti i poteri dell'altra e la presenza della sua
identità dentro di sé, pronta a emergere senza preavviso,
realizzando la convivenza in un solo corpo tra una ragazzina
arrabbiata e un'esperta donna con addestramento militare (tornava il
tema della schizofrenia).
Mentre Rogue intraprendeva il suo
cammino di redenzione tra le fila degli X-Men, Carol fu in qualche
modo curata dal telepate Charles Xavier, che tentò di ripristinarne
i ricordi e la personalità. Il risultato fu una donna nuova che
conservava i ricordi di Carol, ma non poteva condividerne del tutto
le emozioni («Forse un giorno, Rogue proverà per voi quello che
dovrei provare io» ...esattamente). Ad ogni modo, la appena
risvegliata Carol Danvers condivise con gli X-Men l'avventura nello
spazio contro la genia di alieni noti come la Covata. E siccome piove
sempre sul bagnato, fu sottoposta a degli esperimenti che si
innestarono sulle tracce rimaste della precedente influenza Kree.
Carol attinge ai poteri di un'entità cosmica definita Buco Bianco e
diventa Binary, un essere spaziale che andrà a cercare una nuova
ragione di esistenza tra le stelle.
Ma come cantano gli After Hours: non
c'è niente che sia per sempre (e soprattutto la Marvel è incostante
da paura). Nel tempo, il potere di Binary si affievolirà lasciando
riemergere le originali caratteristiche di Miss Marvel. Insomma, lo
status quo di Carol Danvers viene praticamente ripristinato. Oddio,
almeno in parte, visto che tutti glie eroi Marvel sono nati per
soffrire.
Tornata a militare con gli Avengers, Carol (spinta dagli editor) decide che il nome Miss Marvel è stucchevole, soprattutto se attribuito a una virago forzuta e volante. Ed ecco cambiare il nome di battaglia in Warbird. Ma non tutto oro è quel quel riluce. I trascorsi di Carol (le esperienze nello spazio come Binary, le continue cicliche trasformazioni, i fallimenti editoriali, vorrei vedere voi...) le inducono una forma di depressione che la spingono sulla strada dell'alcolismo. Cosa che la farà nuovamente allontanare dagli Avengers. Seguono una serie di rimpasti, narrativi ed editoriali, con ritorni e ulteriori uscite dalla squadra ammiraglia di casa Marvel. Alla fine (per ora), dopo altre cento battaglia anche interiori, Carol decide di prendere il nome di Capitan Marvel in memoria dell'eroe Kree che tanta influenza ha avuto sulla sua vita, e indossa un'uniforme che ne recupera lo stemma (ma con un design più contemporaneo). Attualmente è anche a capo di una squadra di Avengers ed è ritenuta una delle personalità più influenti del cosmo Marvel. La sua lunga esperienza, militare e di super-eroina, le conferiscono autorità, e pare che per lungo tempo rimarrà l'unico Capitano Meraviglioso della Casa delle Idee.
L'accento, oggi, è posto sul concetto di eredità, il cammino di
Mar-Vell da spia a difensore della terra, i suoi legami con l'impero
Kree, si specchiano nelle vicissitudini, nelle crisi e nelle
rinascite di Carol, che per prima lo ha conosciuto. La meraviglia,
attualmente, è la pertinacia di un personaggio che ha cambiato pelle
molte volte, tuttora resiste e che oggi si prepara a conquistare il
cinema.
Per concludere, come cantava Domenico
Modugno: «Meraviglioso!»
lunedì 30 luglio 2018
Capitani Meravigliosi - 4
Dopo la morte del primo Capitan Marvel
propriamente marvelliano (in senso editoriale), le cose si fanno
confuse (e a tratti anche ridicola). Infatti, il nome di battaglia di
quello che nelle intenzioni dell'azienda avrebbe dovuto essere l'eroe
portabandiera inizia a rimbalzare tra più personaggi, nessuno dei
quali eguaglia il carisma del capostipite. Prima erede del titolo di
Capitan Marvel è la poliziotta afroamericana Monica Rambeau,
personaggio che non aveva nessun legame con Mar-Vell se non la scelta
del titolo. L'eroina militò tra gli Avengers e arrivò a diventarne
anche il leader per qualche tempo, quando si vide “plagiato” il
nome d'arte da Genis-Vell, il figlio del Capitan Marvel originale.
Questi (inizialmente chiamato Legacy) era stato concepito in provetta
partendo dalle cellule del soldato Kree, e ne condivideva l'aspetto e
i poteri. A differenza del padre biologico, però, il terzo Capitan
Marvel è parecchio instabile. E col tempo finisce col rivelarsi una
minaccia per l'universo, morendo e resuscitando ben due volte tra
perdite di controllo e temporanei ravvedimenti. La cosa buffa è che,
dopo la sua prima resurrezione, il personaggio decise di cambiare
nome in Photon. Stesso nome adottato dalla Rambeau dopo che le era
stato soffiato l'appellativo di Capitan Marvel (povera stella!). Ad
ogni modo, Genis-Vell a un certo punto si decise a morire per davvero
e uscì di scena come si conveniva a un fallimentare succedaneo.
Ad assumere il manto di Capitan Marvel
è allora Phyla-Vell. Una... ipotetica sorella di Genis-Vell. In
realtà inesistente fino a qualche tempo prima, ma generata dai
giochetti del fratello con l'universo che avevano finito con alterare
la realtà (Aaaaarg! Che bordello!). Phyla-Vell è dunque la prima
versione femminile di questo Capitan Marvel, del quale ereditava
tutte le caratteristiche e il ruolo di paladino cosmico. Ma come
Marvel ha vita breve, evolve assumendo il nome di secondo Quasar
(Capitan Marvel non è l'unico a ispirare successori) e viene infine
uccisa da Thanos durante una delle sue tante performance in cui fa
terra bruciata in giro per l'universo.
La storia del quinto Capitan Marvel è,
se possibile, ancora più incasinata. Creato dallo scrittore Grant
Morrison con il nome di Marvel Boy, Noh-Varr era un alieno Kree, ma
giunto sulla nostra terra da una dimensione alternativa e quindi
digiuno di tutte le relazioni inerenti alla realtà condivisa fino a
quel momento. Appena giunto sul pianeta è coinvolto in vari intrighi
di potere e il suo carattere bellicoso lo porta inizialmente a
sviluppare un discreto risentimento nei confronti dei terrestri (un
po' come il Sub-Mariner dei primi tempi). Il personaggio è preso in
mezzo a vari crossover marvelliani, quali Secret Invasion
(l'invasione segreta degli alieni mutaforma Skrull) e Dark Reign,
durante il quale entra a far parte dei Dark Avengers di Norman Osborn
in cui ogni membro era una versione distorta e perversa dei veri
eroi. Osborn affida così a lui il ruolo di Capitan Marvel
(aridaje!). Ma nonostante la testa calda, Noh-Varr è
fondamentalmente una brava persona, e compresi i malvagi piani di
Osborn diserta per diventare un vero eroe. Non sarà tuttavia
l'ultimo, né il definitivo Capitan Marvel a portare questo nome.
Nel frattempo, ha luogo l'evento
editoriale “Marvel contro DC”, in cui gli eroi di entrambe le
ditte concorrenti si incontrano e si scontrano... finendo a un certo
punto per amalgamarsi temporaneamente. In quell'esperimento
goliardico che è definito “Universo Amalgam”, tra le file della
JLX (la fusione di Justice League e X-Men) incontriamo... Capitan
Marvel. Sintesi tra il primo Marvel-Shazam e il soldato Kree
marvelliano.
In qualche modo, il cerchio si stava
chiudendo...
domenica 29 luglio 2018
Tributo a Renato Tosini
Renato Tosini lo incontrai ed ebbi modo di parlargli nel 2001, durante quella che credo fosse la sua prima mostra a Palermo, sua città natale, nella Galleria d'Arte Moderna. Ricordo che oltre me e Salvatore, quel giorno, lo spazio espositivo non era particolarmente affollato. Fino a pochi giorni prima non conoscevo l'artista e le sue opere, ci trovavamo lì dietro suggerimento di un conoscente. Lui ci chiese se avevamo visitato in passato altre sue mostre, dovemmo rispondergli sinceramente di no. A incuriosirmi, facendo leva sul mio personale immaginario, era quel mondo sospeso popolato esclusivamente da omoni paffuti, spesso avvolti in un cappotto e con bombetta in testa. Rappresentati come tangibili fantasmi di un'epoca trascorsa che ancora traspariva dal tessuto del presente, incapaci di abbandonarlo. Una commistione di vecchio e nuovo, nostalgico e sognante. Una malinconia di fondo che trasmetteva comunque serenità. Renato Tosini ci ha lasciato oggi all'età di 91 anni. Tributargli il ricordo, sovrapposto con la mia storia personale, in cui le nostre strade si sono brevemente incrociate, mi sembrava opportuno.
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