C'era molta attesa per
Dylan Dog:
Vittima degli eventi, mediometraggio diretto da Claudio Di Biagio
(
Non aprite questo tubo) e sceneggiato da Luca Vecchi (
ThePills, qui anche nelle vesti di interprete nel ruolo fondamentale
di Groucho) con la collaborazione alla fotografia di Matteo Bruno
(
Canesecco). Due fortunate campagne di crowdfunding e il
coinvolgimento amichevole di due attori di alto profilo (Milena
Vukotic e Alessandro Haber), hanno portato alla nascita di questo
ulteriore fanmade dopo i fasti (sia pure relativi a un circuito
indipendente) di
Dylan Dog: la Morte Puttana di Denis Frison e
Dylan Dog: il Trillo del Diavolo di Roberto D'Antona.
Un'attesa ulteriormente almpificata dall'operazione di rilancio del
Dylan fumettistico a opera di Roberto Recchioni, ringraziato, tra i
molti altri, nei titoli di coda come preziosa fonte di consigli.
Sembra, insomma, che al di là di ogni esito oggettivo, il
personaggio di Tiziano Sclavi si stia godendo una fase di rinnovata
attenzione, e il fanmade di Di Biagio non poteva uscire (in modo
totalmente free, liberamente visionabile sul canale Youtube
TheJakal) in un momento più propizio.
Dopo averlo atteso, dopo averlo visto
(e apprezzato), cosa resta da dire. Cosa, dopo il clamore già
suscitato in rete? Francamente, ripetere che il film firmato da Di
Biagio e Vecchi (come già i due fanmade che lo hanno preceduto)
vinca a mani basse sullo scempio statunitense di qualche anno fa,
suonerebbe davvero ripetitivo e stucchevole. E poi, per dire pane al
pane e vino al vino: fare di meglio rispetto al film di Kevin Munroe
con Brandon Routh non è la più difficile delle imprese per chiunque
mastichi un po' di tecnica cinematografica. Quindi basta confronti.
Il film cinematografico di Dylan Dog non è mai esistito veramente,
in quanto la pellicola hollywoodiana non lascia appigli neppure ai
cultori del trash nella sua assoluta inutilità e inconsistenza.
Proviamo a fare una riflessione un po'
diversa. Non controcorrente, solo diversa. Il mediometraggio di
Claudio Di Biagio sta mietendo consensi in rete, e questi sono
sicuramente in larga parte meritati. Di Biagio, come anche Matteo
Bruno (già segnalatisi per attenzione e competenza con la web serie
Freaks!) si dimostrano delle promesse del cinema italiano da
tenere d'occhio. Il loro Dylan Dog è differente da quello di Frison
come da quello di D'Antona. Un Dylan Dog a suo modo rivisitato senza
troppi ma e senza troppi perché. Nel film, interamente ambientato a
Roma, incontriamo l'indagatore dell'incubo che conosciamo, con il suo
nome straniero e i suoi vezzi britannici. Non c'è dato sapere
perchè. Il suo studio si trova là, Dylan non è in trasferta come
nella Venezia de
La Morte Puttana. Sorvoliamo sulle banali
questioni legate al budget, in questo caso un po' più consistente
rispetto agli esperimenti passati. Di Biagio e Vecchi se ne sono
allegramente fottuti, e hanno collocato Dylan in una dimensione
surreale, dove geografia e spaziotempo non contano una cippa. Non
conta l'appellativo
old boy, usato da un
ispettore Bloch che più italiano non si può, interpretato da un
Alessandro Haber non fuori parte come potrebbe sembrare a dispetto
del look fuori contesto (probabilmente dovuto ad altri impegni
contigenti dell'attore che non avrà potuto rinunciare alla barba).
Notevole la partecipazione della Vukotic nella parte della medium
Trelkovsky, qui forse più maga
che sensitiva... ma chi se ne frega? La performance dell'attrice è
molto suggestiva
e potremmo considerarlo il fiore all'occhiello dell'intera
operazione.
Il film è formalmente riuscito e si
eleva, per quanto riguarda il comparto tecnico, decisamente al di
sopra delle pur lodevoli esperienze precedenti. La fotografia di
Matteo Bruno è impeccabile, gli effetti visivi efficaci. Meritevole
il lavoro di interprete di Luca Vecchi, un Groucho molto più
calibrato di quelli visti in precedenza. Vecchi si è palesemente
andato a studiare la mimica del vero Groucho Marx e la ripropone con
grande verve, regalandoci un Groucho superlativo soprattutto per la
presenza scenica. Valerio Di Benedetto, che interpreta Dylan, ha
indubbiamente il physique
du rôle, né gli manca il talento, sebbene la sua recitazione sia
ancora suscettibile di qualche
miglioramento. Il
suo Dylan, però, magari più per vincoli
di sceneggiatura che
per interpretazione, si discosta a larghi tratti dalla controparte
bonelliana, manifestando atteggiamenti forse fin troppo hard boiled.
Non parleremo qui della trama, degli incubi, delle scene oniriche e
del finale surreale (a suo modo un colpo da maestro) e fortemente
citazionista. Spendiamo
invece qualche parola sul concept e sul senso generale da dare
all'operazione che, ricordiamolo, rimane un (riuscito)
esercizio di stile
al servizio del fandom. Qui
veniamo... non alle note dolenti, ma al cuore del discorso. Il
mediometraggio funziona, e sicuramente conquisterà il cuore della
maggior parte degli appassionati se non la loro totalità. Il
discorso, da cinefili, è un altro. La domanda da porsi è
differente. Oltre l'estro, il talento della crew che realizza questi
fanmovie e il livello di qualità raggiunto... c'è veramente posto
per Dylan Dog al cinema (o comunque in un media live action, quale
che sia)?
Proviamo
a formulare il
quesito in un altro
modo: è davvero possibile tradurre l'universo narrativo di Dylan Dog
in un codice mediatico differente dal fumetto che possa avere dignità
autonoma, e non limitarsi a essere un prodotto (sia pure ben
realizzato) che gratifica l'amore dei fans citandone feticci e
tormentoni? Per
carità, è chiaro a tutti che parliamo di mero intrattenimento e non
di chissà quale ricerca artistica, ma chiederselo è lecito. Dylan
Dog è un fumetto che nasce facendo del citazionismo e del tritatutto
mediatico il suo brodo primordiale. Tentare con l'alchimia
cinematografica di distillare questo ibrido e sintetizzarlo in una
sola delle materie da cui trae origine è opera ardua se non
impossibile. Non riusciamo a scrollarci di dosso la sensazione che,
nonostante i meriti di Di Biagio, Frison e D'Antona, Dylan Dog
funzioni al suo meglio sempre e solo sulla tavola disegnata. E questo
in proporzione maggiore rispetto a molti altri cinefumetti di cui si
discute. La stessa
natura onirica e anarchica (nel senso di logica narrativa) del
fumetto creato da Tiziano Sclavi ne fa una creatura unica nel
suo genere,
sfuggente, di cui si può abbozzare un ritratto solo approssimativo,
ma che la fotocamera (o in questo caso la videocamera) non potrà
mai catturare del
tutto. Proprio perché non ha una forma definita, ma basa il suo
successo trasversale su una molteplicità di segni
in continuo movimento.
La
domanda, alla fine, è: un film su Dylan Dog potrà mai essere
qualcosa destinato non solo ai suoi lettori, affamati
di vedere portare in scena il clarinetto, il gaelone o la misteriosa
bottega di rigattiere chiamata Safarà?
Una
domanda, che non sottintende nessuna risposta certa. E questo a
prescindere dai meriti di Vittima degli eventi,
che ci dimostra ancora una volta quanto la passione e la libertà da
vincoli produttivi possano offrirci opere stimolanti e di qualità.