giovedì 6 novembre 2014

Dylan Dog: Vittima degli eventi

 

C'era molta attesa per Dylan Dog: Vittima degli eventi, mediometraggio diretto da Claudio Di Biagio (Non aprite questo tubo) e sceneggiato da Luca Vecchi (ThePills, qui anche nelle vesti di interprete nel ruolo fondamentale di Groucho) con la collaborazione alla fotografia di Matteo Bruno (Canesecco). Due fortunate campagne di crowdfunding e il coinvolgimento amichevole di due attori di alto profilo (Milena Vukotic e Alessandro Haber), hanno portato alla nascita di questo ulteriore fanmade dopo i fasti (sia pure relativi a un circuito indipendente) di Dylan Dog: la Morte Puttana di Denis Frison e Dylan Dog: il Trillo del Diavolo di Roberto D'Antona. Un'attesa ulteriormente almpificata dall'operazione di rilancio del Dylan fumettistico a opera di Roberto Recchioni, ringraziato, tra i molti altri, nei titoli di coda come preziosa fonte di consigli. Sembra, insomma, che al di là di ogni esito oggettivo, il personaggio di Tiziano Sclavi si stia godendo una fase di rinnovata attenzione, e il fanmade di Di Biagio non poteva uscire (in modo totalmente free, liberamente visionabile sul canale Youtube TheJakal) in un momento più propizio.


Dopo averlo atteso, dopo averlo visto (e apprezzato), cosa resta da dire. Cosa, dopo il clamore già suscitato in rete? Francamente, ripetere che il film firmato da Di Biagio e Vecchi (come già i due fanmade che lo hanno preceduto) vinca a mani basse sullo scempio statunitense di qualche anno fa, suonerebbe davvero ripetitivo e stucchevole. E poi, per dire pane al pane e vino al vino: fare di meglio rispetto al film di Kevin Munroe con Brandon Routh non è la più difficile delle imprese per chiunque mastichi un po' di tecnica cinematografica. Quindi basta confronti. Il film cinematografico di Dylan Dog non è mai esistito veramente, in quanto la pellicola hollywoodiana non lascia appigli neppure ai cultori del trash nella sua assoluta inutilità e inconsistenza.

Proviamo a fare una riflessione un po' diversa. Non controcorrente, solo diversa. Il mediometraggio di Claudio Di Biagio sta mietendo consensi in rete, e questi sono sicuramente in larga parte meritati. Di Biagio, come anche Matteo Bruno (già segnalatisi per attenzione e competenza con la web serie Freaks!) si dimostrano delle promesse del cinema italiano da tenere d'occhio. Il loro Dylan Dog è differente da quello di Frison come da quello di D'Antona. Un Dylan Dog a suo modo rivisitato senza troppi ma e senza troppi perché. Nel film, interamente ambientato a Roma, incontriamo l'indagatore dell'incubo che conosciamo, con il suo nome straniero e i suoi vezzi britannici. Non c'è dato sapere perchè. Il suo studio si trova là, Dylan non è in trasferta come nella Venezia de La Morte Puttana. Sorvoliamo sulle banali questioni legate al budget, in questo caso un po' più consistente rispetto agli esperimenti passati. Di Biagio e Vecchi se ne sono allegramente fottuti, e hanno collocato Dylan in una dimensione surreale, dove geografia e spaziotempo non contano una cippa. Non conta l'appellativo old boy, usato da un ispettore Bloch che più italiano non si può, interpretato da un Alessandro Haber non fuori parte come potrebbe sembrare a dispetto del look fuori contesto (probabilmente dovuto ad altri impegni contigenti dell'attore che non avrà potuto rinunciare alla barba). Notevole la partecipazione della Vukotic nella parte della medium Trelkovsky, qui forse più maga che sensitiva... ma chi se ne frega? La performance dell'attrice è molto suggestiva e potremmo considerarlo il fiore all'occhiello dell'intera operazione.


Il film è formalmente riuscito e si eleva, per quanto riguarda il comparto tecnico, decisamente al di sopra delle pur lodevoli esperienze precedenti. La fotografia di Matteo Bruno è impeccabile, gli effetti visivi efficaci. Meritevole il lavoro di interprete di Luca Vecchi, un Groucho molto più calibrato di quelli visti in precedenza. Vecchi si è palesemente andato a studiare la mimica del vero Groucho Marx e la ripropone con grande verve, regalandoci un Groucho superlativo soprattutto per la presenza scenica. Valerio Di Benedetto, che interpreta Dylan, ha indubbiamente il physique du rôle, né gli manca il talento, sebbene la sua recitazione sia ancora suscettibile di qualche miglioramento. Il suo Dylan, però, magari più per vincoli di sceneggiatura che per interpretazione, si discosta a larghi tratti dalla controparte bonelliana, manifestando atteggiamenti forse fin troppo hard boiled. Non parleremo qui della trama, degli incubi, delle scene oniriche e del finale surreale (a suo modo un colpo da maestro) e fortemente citazionista. Spendiamo invece qualche parola sul concept e sul senso generale da dare all'operazione che, ricordiamolo, rimane un (riuscito) esercizio di stile al servizio del fandom. Qui veniamo... non alle note dolenti, ma al cuore del discorso. Il mediometraggio funziona, e sicuramente conquisterà il cuore della maggior parte degli appassionati se non la loro totalità. Il discorso, da cinefili, è un altro. La domanda da porsi è differente. Oltre l'estro, il talento della crew che realizza questi fanmovie e il livello di qualità raggiunto... c'è veramente posto per Dylan Dog al cinema (o comunque in un media live action, quale che sia)?


Proviamo a formulare il quesito in un altro modo: è davvero possibile tradurre l'universo narrativo di Dylan Dog in un codice mediatico differente dal fumetto che possa avere dignità autonoma, e non limitarsi a essere un prodotto (sia pure ben realizzato) che gratifica l'amore dei fans citandone feticci e tormentoni? Per carità, è chiaro a tutti che parliamo di mero intrattenimento e non di chissà quale ricerca artistica, ma chiederselo è lecito. Dylan Dog è un fumetto che nasce facendo del citazionismo e del tritatutto mediatico il suo brodo primordiale. Tentare con l'alchimia cinematografica di distillare questo ibrido e sintetizzarlo in una sola delle materie da cui trae origine è opera ardua se non impossibile. Non riusciamo a scrollarci di dosso la sensazione che, nonostante i meriti di Di Biagio, Frison e D'Antona, Dylan Dog funzioni al suo meglio sempre e solo sulla tavola disegnata. E questo in proporzione maggiore rispetto a molti altri cinefumetti di cui si discute. La stessa natura onirica e anarchica (nel senso di logica narrativa) del fumetto creato da Tiziano Sclavi ne fa una creatura unica nel suo genere, sfuggente, di cui si può abbozzare un ritratto solo approssimativo, ma che la fotocamera (o in questo caso la videocamera) non potrà mai catturare del tutto. Proprio perché non ha una forma definita, ma basa il suo successo trasversale su una molteplicità di segni in continuo movimento.
La domanda, alla fine, è: un film su Dylan Dog potrà mai essere qualcosa destinato non solo ai suoi lettori, affamati di vedere portare in scena il clarinetto, il gaelone o la misteriosa bottega di rigattiere chiamata Safarà?

Una domanda, che non sottintende nessuna risposta certa. E questo a prescindere dai meriti di Vittima degli eventi, che ci dimostra ancora una volta quanto la passione e la libertà da vincoli produttivi possano offrirci opere stimolanti e di qualità.



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