mercoledì 10 luglio 2019

L'albero dei ramocchi, una fiaba ecologica



“L'albero dei ramocchi” è una fiaba ecologica che ha per tema l'educazione alla raccolta differenziata, e si propone di illustrarne la necessità (così come le conseguenze nefaste della sua assenza, e dei più gettonati criteri di smaltimento) attraverso fresche allegorie senza tempo.
“L'albero dei ramocchi” è una fiaba pedagogica (e scusate se vi sembra una parolaccia). Sì, nel senso che è rivolta ai bambini e si propone di responsabilizzarli al rispetto per l'ambiente mediante una mitologia fantastica per loro facilmente identificabile. Un lavoro di sintesi, tra narrazione e immagini, che i più maturi potrebbero accostare ai fasti di Gianni Rodari e Bruno Munari, e al loro storico sodalizio artistico.

A scrivere “L'albero dei ramocchi” è Renato Gadda, personaggio multiforme della realtà romagnola, compositore musicale, teatrante, conoscitore e venditore di fumetti (sua la rivendita “Pagine e Nuvole”) e autore di fiabe didattiche, in cui l'immaginario pop da lui metabolizzato è restituito in forma creativa per affrontare temi di attualità, sempre trasfigurati per l'infanzia e destinati a un uso scolastico. “L'albero dei ramocchi” è stato anche letto in forma teatrale nelle scuole contestualmente a mostre delle illustrazioni che lo corredano.

Alessandro Giovannini (in arte Nut), autore della parte grafica del libro, è un writers di talento il cui lavoro precedente ha fortemente influenzato la genesi della fiaba. Un murales a tema ecologico di Nut, realizzato all'ingresso del parco pubblico di Lavezzola (fatalmente di fronte al negozio di fumetti di Gadda), è stato infatti spunto affinché le sensibilità artistiche di scrittore e illustratore di avvicinassero, producendo insieme un racconto agile e funzionale, che parla ai bambini con il linguaggio eterno delle fiabe e si appoggia a uno stile grafico urbano, dai colori accesi e vitali, con una simbologia a metà strada tra i cartoon e certo pop tipico della street art.

Il magico regno di Zagnolandia non ha certo esaurito le sue storie con il primo libro autoprodotto, e altre fiabe sono già in cantiere. I “ramocchi”, creature di origine vegetale, ma senzienti, rappresentano una complessa gamma di umanità. Il legame viscerale con la terra, l'identificazione principale della razza umana con il senso della vista e tutte le ambiguità che ne conseguono. Essere tutto occhi può significare essere imbelli e limitarsi a osservare, ma anche essere vigili e guardare al futuro. Tutto è nella scelta, e in quel legame con l'albero, fonte della vita, che rappresenta il simbolo più forte del racconto.

Come molti aspetti cruciali, l'educazione al riciclo e alla cura dell'ambiente dovrebbe partire proprio dalle scuole e dalla costruzione consapevole dei più piccoli. Per questo ben vengano iniziative come quelle di Gadda e Giovannini, e la loro diffusione nelle scuole. Complimenti a entrambi per il bel lavoro e in bocca al lupo per i progetti in divenire. Ne abbiamo bisogno. Moltissimo.


Per info e contatti:

Stores.ebay.it/pagine-e-nuvole
renatogadda@tiscali.it

lunedì 8 luglio 2019

Alla fine John muore



John Dies at the end” (“Alla fine John muore”) è un film di Don Coscarelli uscito nel 2013 e inedito da noi. Don Coscarelli è noto agli appassionati per la sua filmografia ridotta e le uscite molto dilazionate nel tempo. Il suo nome è ricordato soprattutto per la saga “Fantasmi” (iniziata nel 1979) e il delizioso “Bubba Ho-Tep” del 2002, tratto dal racconto di Joe R. Landsdale e interpretato da Bruce Campbell.

All'origine di “Alla fine John muore” c'è il fenomeno letterario firmato da David Wong (pseudonimo di Jason Pargin), un blog novel realizzato a puntate quasi per gioco, divenuto un caso grazie al passaparola e infine arrivato su carta nel 2009 (in Italia è pubblicato da Fanucci).



Il genere non è facilmente classificabile. Horror? Grottesco? Fantascienza? Se rammentiamo il tono fortemente onirico del film “Fantasmi”, sarà facile capire perché Coscarelli è stato attratto dal romanzo di Wong come uno spillo da una calamita. E questo nonostante la versione cinematografica adatti una minima parte dei tanti eventi folli che formano il libro. Ed è tutto dire, perché il film di Coscarelli non dà tregua, e realizza un beffardo incubo sulle montagne russe in cui splatter, assurdità e comicità, si susseguono per la durata (in fondo contenuta) di un'ora e mezza.


Leggere il romanzo di Wong è un'esperienza psichedelica che il film riesce a condensare con un ottimo ritmo, grazie anche alle performance di attori di spicco tra cui si segnalano Paul Giamatti e Clancy Brown in due ruoli di supporto ma fondamentali. Dialoghi deliranti, strane droghe che conferiscono bizzarri poteri, mostri, metamorfosi, minacce lovecraftiane, armi improbabili, stati alterati della percezione e un vortice di situazioni di una comicità crudelissima. Una sarabanda in cui l'eroismo non esiste, ma l'unica vera arma contro l'apocalisse sembra essere l'irriducibile capacità di riderle in faccia.

Sì, ridere in faccia all'apocalisse. Si può fare.


Un piccolo grande film bizzarro, tratto da un altrettanto bizzarro romanzo, che ovviamente in Italia non è stato distribuito. Se potete, e vi va, recuperatelo. Anzi, leggete anche il libro (quello lo trovate più facilmente). L'effetto è quello di una scarica di adrenalina e di un'esplosione di fantasia a briglia sciolta che in certi tratti provoca pure il mal di mare. Ma ubriaca, al punto che ne vorremmo ancora. Una piccola gemma che conferma Don Coscarelli un artigiano artistoide di grande caratura che fa solo quello che gli va. E forse proprio per questo è così poco prolifico.


venerdì 28 giugno 2019

Fantasmi della memoria: Belfagor



Questa settimana, preso da un raptus nostalgico ho rivisto tutto "Belfagor o il fantasma del Louvre", sceneggiato francese del 1965 che all'epoca cambiò la storia della televisione, portando nelle case italiane una trama gotica, misteriose morti e un complotto esoterico che coinvolgeva lo storico alchimista Paracelso e la statua della divinità caldea (in seguito inclusa tra i demoni) chiamata Belfagor. I bambini del tempo erano terrorizzati dalla maschera del fantasma e tutti si chiedevano "Chi è Belfagor?" fino alla (per l'epoca sconvolgente) rivelazione finale. Lo sceneggiato, tratto dal romanzo di Arthur Bernède, prendeva le distanze dalla trama del libro per presentare elementi più fantastici e inquietanti. 



Se nel romanzo, Belfagor è una sorta di Fantomas, di criminale misterioso, nello sceneggiato del 1965 è una creatura nata da un esperimento esoterico, un automa vivente nato da una combinazione dell'ipnosi con un'antica pozione che lo trasforma in un radar umano per le sostanze alchemiche e gli conferisce nello stesso tempo una forza erculea che gli permette di uccidere a mani nude. Belfagor era mostro e vittima nello stesso tempo, in quanto inconsapevole delle sue azioni e del suo ruolo nell'intrigo. Atmosfera, mistero e la presenza di un'affascinante Juliette Greco diventata iconica. 



Certo, la visione oggi lascia emergere molte ingenuità legate al loro tempo, ma il fascino del prodotto vintage che ha lasciato un'impronta è intatto. Tralasciando l'orrendo pseudosequel con Sophie Marceau del 2001, mi sono trovato a fantasticare su un possibile remake di qualità. Che ne direste (anzi, che ne direbbero i nostalgici come me) di un nuovo Belfagor cinematografico, con una trama fedele al prototipo ma debitamente aggiornata alle sensibilità contemporanee, sullo sfondo di una Parigi sempre degli anni 60 (non ce lo vedo ambientato ai giorni nostri) fotografata, per esempio, da qualcuno come Roman Polansky? E di Eva Green nel ruolo di Luciana (in originale Laurence), che fu di Juliette Greco?
Se bisogna sognare un revival, facciamolo in grande.

Lo sceneggiato completo su Youtube: 

domenica 23 giugno 2019

Ciao, Vertigo (vivrai ben più di due volte)




La notizia che la Vertigo, etichetta “per lettori maturi” della DC Comics, chiude i battenti non è di per sé luttuosa come può sembrare. E' più simile all'annuncio che una grande ditta che ha legato storicamente il suo nome a un prodotto rivoluzionario cessa le attività dopo molti anni che il suo articolo è stato sdoganato, diffuso, ha fatto scuola e ormai è confezionato (a volte anche meglio) da tanti altri marchi commerciali che hanno fatto tesoro dei suoi insegnamenti. Certo, per i più maturi (quei “lettori maturi” che ne hanno visto l'esordio) è l'ennesimo segnale che il tempo passa, e che a un certo punto i grandi artisti si ritirano dalle scene. Questo può suscitare un brivido di nostalgia, di momentaneo rammarico, ma non significa che lo spettacolo non vada avanti. “Vertigo” è stata un'etichetta, ma è diventata anche una ricetta, una filosofia per intendere un determinato modo di fare fumetti. Il fatto che sia stato assimilato da altri editori non è da intendere come un male. Anzi.

Fondata nel 1993 dall'editor Karen Berger, la divisione Vertigo della DC Comics si fondava sul successo (e sugli stilemi) di due opere che avrebbero lasciato una forte impronta nella storia del fumetto non solo statunitense. Lo Swamp Thing di Alan Moore e l'irripetibile Sandman di Neil Gaiman. Questi due fumetti, oltre a sconvolgere l'immaginario di lettori abituati a opere più convenzionali, produsse un nuovo microcosmo, riconoscibile in parte con l'adunanza dei personaggi a sfondo magico della DC Comics, molti dei quali recuperati dalla soffitta editoriale e altri nuovi e pronti a sbancare nel nuovo millennio (qualcuno ha detto John Constantine?). Ma Vertigo ha rappresentato soprattutto un approccio maturo al racconto fantastico a fumetti. Una costruzione narrativa adulta, in certi casi anche discretamente ambiziosa in senso letterario. Una sperimentazione visiva ai tempi impensabile su testate rivolte al vasto pubblico. Insomma, una vera vertigine nel mondo del fumetto. Che si è imposta, si è fatta amare, e ha ispirato inevitabilmente anche produzioni concorrenti. Sotto questa etichetta hanno spopolato numerosi autori oggi di culto, molti dei quali riconducibili a quella oggi ricordata come “british invasion”. I già citati Gaiman e Moore, Grant Morrison, Warren Ellis, Garth Ennis, Mark Millar, Peter Milligan, e tantissimi altri. Con la Vertigo, il revisionismo supereroistico è diventato un nuovo canone, e opere uscite in precedenza, ma in sintonia con l'idea di base della divisione, sono andate ad arricchire l'etichetta in edizioni successive (“V for Vendetta”, “Animal Man”).



Il meccanismo, però, diciamolo, si era già inceppato da molto tempo. Il giocattolo era stato aperto, sezionato, esplorato e tutti i trucchi svelati. L'effetto sorpresa si era appannato e ormai ne restava solo il glorioso ricordo. E va bene così. Va bene che tante etichette differenti (in testa la Image) abbiano preso a un certo punto a produrre fumetti che ormai erano più Vertigo della Vertigo originale. Succede quando un'idea è talmente forte da fare scuola. E' un bene che le cose costruttive siano assimilate e condivise. Quel che conta è la produzione di buone storie.

Pertanto, ci prepariamo a salutare quella prima vertigine che sta per terminare il suo viaggio. Ma non è una vera fine. E' solo un passaggio burocratico. Perché noi lettori maturi, quei “mature readers” cui i fumetti Vertigo erano destinati, per poter andare oltre le consuete tute dei supereroi, continueremo a ricordare. E a definire “alla Vertigo” tutto quello che seguirà e ne conserverà l'ispirazione storica.

Ciao, Vertigo. E grazie di tutto.

mercoledì 12 giugno 2019

Fushito: Il mio amore per procura



In Giappone, una giovanissima influencer chiamata Fushito è diventata popolarissima non con un canale di cucina, o parlando di musica. Non realizzando scenette comiche, e neppure commentando fatti del giorno o proponendo tutorial di trucco. La sua ascesa nell'olimpo delle celebrità del web è legata a filo doppio alla vicenda umana di un giovane di diciannove anni, Neruo, già assurto agli onori della cronaca dopo aver tentato il suicidio due volte senza successo. Neruo è perdutamente innamorato di una ragazza (il cui nome non è stato reso pubblico) di una famiglia in vista di Tokyo. Il problema è che la giovane (la chiameremo Rosalina, come il primo amore che causava lo struggimento di Romeo prima di incrociare la strada di Giulietta) di Neruo non vuole proprio saperne. Neruo l'avrebbe incontrata occasionalmente a un concerto e da allora non riesce più a non pensare a lei. Lettere, doni, richieste di appuntamento non hanno sortito nulla, e il giovane, palesemente fragile da tempo, ha intrapreso un lento cammino di autodistruzione, trascurandosi nel nutrirsi, lavarsi, e tentando di uccidersi per due volte consecutive. La prima con dei barbiturici, la seconda cercando di tagliarsi i polsi in diretta su Internet. Oggi, Neruo è irriconoscibile. Magro come un chiodo, coperto di sporcizia come il bambino Pig-Pen delle strisce dei Peanuts, non fa che piangere e pregare la famiglia di Rosalina che gli lascino incontrare l'amata.

Qui entra in scena Fushito.

Fushito è una studentessa di diciotto anni, amante dei manga e dei videogiochi, che fino a poco tempo prima viveva una beata invisibilità planetaria. La vicenda di Neruo l'ha però colpita molto, e per questo ha pensato bene di aprire un canale Youtube in cui ha preso a pubblicare accorati appelli, poesie, canzoni, tentativi di persuasione nei confronti di Rosalina (che finora si è categoricamente rifiutata di incontrarla) e della sua famiglia, affinché Neruo possa ricevere la chance d'amore cui tanto aspira. In poco tempo, Fushito ha scalato le vette di Youtube ed è approdata in televisione.
«Tanta dedizione e senso di sacrificio» dice, «non possono lasciare indifferenti. E' chiaro che Neruo ha molto amore da dare. E se non può riceverlo, tanta sofferenza meriterebbe almeno il premio di poter manifestare il proprio affetto alla persona amata. Soltanto una conversazione, in presenza dei genitori, non mi sembra una pretesa esagerata. E' un ragazzo talmente intelligente e sensibile che sarebbe uno spreco non dargli almeno un'opportunità. Sono entrambi così giovani. Provino a conoscersi. Poi si vedrà.»

Oggi Fushito ha pubblicato un libro intitolato “Il mio amore per procura” e presenzia a raduni di giovanissimi fans in compagnia dello stesso Neruo, che le sta incollato come un vero e proprio simbionte, spesso nascondendo il viso ridotto a una maschera di sporcizia contro il vestito di lei. Fushito sorride al suo pubblico, lo accarezza e porta avanti con pertinacia il suo ruolo di ambasciatrice d'amore. I consigli e gli appelli di migliaia di fans per provare ad approcciare l'inarrivabile principessa sono accuratamente vagliati e quelli ritenuti più persuasivi sono letti pubblicamente. Né mancano i commenti riguardo il fatto che Fushito sia ritenuta più carina della stessa principessa senza nome. E va da sé che le orde di ragazzini sperino in un lieto fine magari alternativo a quello desiderato inizialmente da Neruo.

Non è allucinante?
No, questa non è la realtà. Non è un manga. Non è un racconto. E non è neppure un episodio di “Black Mirror”.

E' un sogno che ho fatto stanotte. 
In qualche modo mi ritrovavo a fare il mio vecchio lavoro (il giornalista) ed ero inviato a questo folle raduno (non era chiaro se in Giappone o durante una trasferta italiana della web-celebrity). Per chi se lo sta chiedendo, Fushito (ma esiste questo nome?) era pienotta, caruccia, capelli raccolti in due code fluenti, e indossava una salopette azzurra. Neruo non si vedeva in faccia, sempre in ginocchio a nasconderle il viso in grembo, e lo si sentiva piagnucolare che la famiglia di Rosalina era “molto tradizionalista”.
A un certo punto succedeva qualcosa di poco chiaro e tutti si spostavano in massa verso l'uscita di questo edifico dove avveniva il raduno. Cercavo di seguire la folla (sì, c'erano un casino di ragazzini, ma anche adulti) e mi bloccavo davanti a un gradino che era in realtà un cornicione sul vuoto. Come avessero fatto gli altri a passare, rimane un mistero. Magari saltavano. Ma io dicevo a me stesso che col cazzo avrei rischiato l'osso del collo per correre dietro a loro. Anzi, mi venivano le vertigini e mormoravo un «Help...» Segno che forse non eravamo in Italia, dopotutto.
E fine. La storia dell'influencer Fushito, dell'innamorato autolesionista Neruo e della principessa senza nome si interrompeva qui.

Per chi se lo stesse chiedendo, avevo mangiato una minestrina e un'orata al forno.


lunedì 3 giugno 2019

Swamp Thing - Episodio Pilota



Swamp Thing. Episodio pilota della serie TV prodotta dalla piattaforma streming DC universe, la terza dopo “Titans” e “Doom Patrol”. I primi due titoli, ognuno con sue caratteristiche peculiari, si possono definire esperimenti riusciti. E questo, nuovo, ambiziosissimo lancio?

Tutto inizia come un'eco vengence. I contenuti “suggested for matured” non tardano a mostrarsi. Se già “Titans” non lesinava in violenza e atmosfere sinistre, qui siamo davanti a un horror fatto e finito. Le prime sequenze ci dicono subito che... qui ci sono i mostri e c'è da aver paura. Anzi, una fifa blu. Meglio. Verde.
Un'oscurità suggestiva avvolge il mondo acquoso della palude, sciacquii, vegetazione fitta e zanzare ci circondano, ed è chiaro da prima ancora dei titoli di testa che da quelle parti c'è qualcosa che proprio non va.


In “Swamp Thing” c'è lo zampino di James Wan, qui in veste di produttore esecutivo, e la differenza dalle altre due serie DC si sente forte e chiara. Se “Titans” era un racconto supereroistico nero (più che dark) e “Doom Patrol” una sarabanda psichedelica di personaggi e situazioni folli, “Swamp Thing” si propone di restare fedele all'etichetta editoriale “Vertigo” (la linea “adulta” che ha rilanciato il personaggio a metà degli anni 80 affidandolo alla firma di Alan Moore). La fantascienza si mescola all'esoterismo, e se le promesse saranno mantenute nelle prossime puntate, dovremmo vederne delle belle. La presenza del personaggio di Avery Sunderland suggerisce subito ai vecchi lettori quale direzione lo show intende prendere, così come l'introduzione di un character inedito, interpretato dalla sempre apprezzabile Virginia Madsen, promette interessanti variazioni.
L'origin story ha il pregio di non andare di fretta, ma di seminare indizi e semi (è il caso di dirlo) per tutto ciò che seguirà. Il passato misterioso di Abby, la presenza di Matt Cable, e soprattutto Madame Xanadu, che nell'episodio pilota ha appena il tempo di sortire, ma che annuncia stranezze assortite, sono elementi che conferiscono a questa partenza un carburazione lenta ma regolare, lasciando intravedere i sentieri che si intendono percorrere.


Le modifiche (diciamolo, necessarie) alla fonte originaria del fumetto ideato da Len Wein e Bernie Wrightson scorrono senza offendere la memoria storica di nessuno, e iniziano a gettare delle basi pratiche per potersi subito innestare sul ciclo tenebroso narrato da Moore. Aggiungiamo una componente gore inattesa, una scena raccapricciante che a molti ricorderà “The Thing” di John Carpenter e un tema musicale, per una volta, orecchiabile e immediatamente riconoscibile, e abbiamo un episodio pilota che conferma le promesse del già trailer interessante.
Una bella partenza, insomma.


Certo, le danze sono appena iniziate. Quel dato avvenimento si prende (giustamente) il suo tempo a manifestarsi (il film di Wes Craven del 1982 soffriva del budget ridotto e di una narrazione fin troppo condensata), ma la miccia è accesa e non resta che aspettare l'esplosione.

Quella narrativa. Quell'altra esplosione lì...
Ma no, scopritelo da soli.

giovedì 30 maggio 2019

Brightburn



In principio era “Il presagio”. Un bambino diabolico con un destino da compiere, e una serie di fatali incidenti che eliminavano quanti si mettevano sulla sua strada.
Oggi il male non è generato dal diavolo. Cade dal cielo, dalle stelle, sempre con le sembianze innocenti di un bambino. Non esita a sporcarsi le mani personalmente, e sovverte del tutto le aspettative messianiche che finora gli erano state attribuite. Non arriva per proteggere la terra, ma per conquistarla. Forse distruggerla.


Era nell'ordine naturale delle cose. Con lo sdoganamento definito dei supereroi sul grande schermo, che la loro versione al negativo volesse dire la sua, era soltanto questione di tempo. Ed ecco infatti arrivare “Brightburn”, film di David Yarovesky, prodotto da James Gunn e scritto dal fratello Brian in collaborazione con il cugine Mark (cose di famiglia, insomma). La rilettura al nero del mito di Superman non è una novità. Non lo è sicuramente nei fumetti, dove dimensioni alternative, storie immaginarie e variazioni sul tema hanno proliferato nel corso dei decenni. Su tutte, ricordiamo la serie “Irredimibile” (il titolo è tutto un programma) di Mark Waid, dove facciamo la conoscenza di un possibile Superman (qui chiamato il Plutoniano) che dopo essere stato per anni un eroe protettore della terra, perde la testa a causa dello stress e di una lunga catena di traumi, trasformandosi in un mostro onnipotente che dà inizio a una devastazione senza fine. E un Superman cattivo... ripetiamolo: Superman, l'Uomo d'Acciaio, più veloce di un proiettile, invulnerabile, fortissimo, che ti rintraccia ovunque solo sentendo il tuo battito cardiaco ed è in grado di ridurre tutto in cenere con uno sguardo... è un vero incubo. Dalla fantascienza avventurosa, quindi, si sconfina nell'horror, e l'eroe con superpoteri diventa il peggiore dei mostri possibili.


Se nel fumetto di Mark Waid tutto era già successo e una larga parte del racconto consisteva nello scoprire le ragioni della progressiva follia del protagonista, in “Brightburn” il discorso è più schematico. Il punto di partenza è quello canonico. Una coppia nel Kansas (ma qui la cittadina si chiama Brightburn invece che Smallville) fatica ad avere figli, finché una notte non cade dal cielo una navicella con dentro un bambino alieno.


Alieno. Una parola che nel caso di “Brightburn” andrebbe sottolineata più volte. Brandon Breyer (con l'allitterazione nel nome come Clark Kent) non ha bisogno di particolari traumi per sbroccare. I suoi genitori sono affettuosi, il contesto benevolo, e sporadici episodi di bullismo a scuola sono qualcosa di troppo blando per giustificare il suo veloce passaggio al lato oscuro. Una lezione di biologia all'inizio del film fornisce subito la chiave di lettura. Brandon è figlio di una stirpe che agisce come il cuculo, che mette il proprio uovo nel nido altrui affinché sia covato. E l'uccello intruso una volta rotto il guscio dimostra la sua vera natura di predatore.

Come già in passato (compresa la serie TV “Smallville”), un ruolo importante è svolto dalla navicella che ha portato il piccolo alieno sul nostro pianeta. Esiste un richiamo culturale che induce Brandon ad abbracciare il suo retaggio e a considerare, una volta raggiunta la pubertà, i terrestri come esseri fragili e prescindibili, che possono essere schiacciati come insetti non appena diventano inutili o appena molesti. L'assenza di empatia della natura di Brandon è il motore di tutto. Nel nuovo millennio, gli alieni non sono più buoni. Non sono E.T. E non sono nemmeno Superman. La scena post credito parla chiaro. Il superuomo qui è visto come l'avvento di una nuova generazione che probabilmente spazzerà via quanto rimasto del vecchio mondo, della sua storia e delle sue pretese di civiltà. In funzione di cosa non è dato sapere, ma l'orizzonte non è roseo e annuncia solo devastazione.

Il film di Yarovesky (irresponsabilmente intitolato dalla distribuzione italiana: “L'angelo del male”, come l'edizione nostrana di “La Bête humaine” di Jean Renoir del 1938 e come l'horror “The Prophecy II”, segno di grande originalità e rispetto per la storia del cinema) scorre bene e riesce a essere discretamente inquietante. Grazie anche al volto (di per sé già alieno) del giovanissimo attore Jackson A. Dunn. Il film ha qualche pecca sul piano logico e della costruzione di alcuni personaggi. La scoperta dei poteri di Brandon è forse troppo veloce, e risulta inverosimile che certi danni compiuti dal piccolo alieno non attirino l'attenzione dei genitori adottivi molto prima. La conduzione in stile slasher, però, funziona, e si giova di alcune sequenze gore realmente disturbanti. Il travestimento ideato da Brandon per le sue scorribande malefiche diventerà sicuramente un'icona. E chissà che non ci aspetti un sequel o un nuovo universo narrativo. Tutto dedicato, stavolta, a esplorare una versione distorta, negativa e malvagia di quelli che chiamiamo supereroi.

Adesso, però, sarebbe auspicabile una serie televisiva basata su “Irredimibile”. I tempi sono maturi e così il mezzo televisivo. Riscoprire un Superman che diventa lentamente malvagio in un'esplosione di follia e crudeltà, sarebbe una ghiotta occasione per un prodotto audiovisivo in linea con un mondo sempre più disincantato, in cui ormai si guarda con sospetto e paura anche chi un tempo immaginavamo come eroe.