“Hardware”, in italiano
“Metallo Letale” è il primo film del regista sudafricano
Richard Stanley, uscito nel 1990, che si ispira (molto liberamente)
al racconto a fumetti britannico "Shock”, scritto da Steve
McManus (accreditato come Ian Rogan) e disegnato da Kevin O'Neill,
pubblicato per la prima volta su “Judge Dredd Annual” del
1981, e in seguito ristampato su “2000 AD”. Per quanto
riguarda il film di Stanley, pare che inizialmente nessun accredito
fosse stato riconosciuto agli autori del fumetto, e che soltanto dopo
una controversia legale le due parti siano giunte a un accordo.
Quindi “Hardware – Metallo
Letale” (oppure “Hardware – I robot non muoiono mai”,
titolo con cui il film fu distribuito in home video in terra italica)
sarebbe un cinecomic?
Beh, né più né meno delle tante
pellicole che, ispirate a piece teatrali, romanzi e racconti, non
sembrano avere necessità di un'etichetta così specifica. Se
vogliamo, potremmo collocare “Hardware” (che prende solo
lo spunto essenziale del fumetto di McManus e O'Neill) nella zona
d'ombra degli “altri cinecomics”, quelli che sentono (e fanno
sentire) meno il peso del loro retaggio cartaceo e vivono di vita
propria, dando origine a una creatura cinematografica indipendente e
dalla forte identità. Soprattutto se a firmare la regia è un
talento (qui esordiente) come quello di Richard Stanley, che
raccoglie l'ossatura di un racconto a fumetti breve e realizza,
facendo virtù di un budget ridottissimo, uno spettacolo emotivamente
coinvolgente, ricco di metafore esistenziali e politiche, che brucia
gli occhi dello spettatore con immagini di rara potenza.
In un futuro non meglio specificato,
una giovane scultrice abituata a servirsi di materiale meccanico in
disuso, riceve come dono dal suo amante i resti di un robot reperiti
da un losco rigattiere. L'artista realizza una delle sue
installazioni, e la colloca nel proprio appartamento. Ma l'automa è
in realtà un modello militare assassino programmato per
autoripararsi e uccidere ogni essere vivente sulla sua strada. Presto
il suo chip si riattiva, e nell'appartamento avveniristico della
ragazza sarà l'inizio di un sanguinosissimo incubo...
Questa la trama del fumetto “Shock”,
questo lo spunto traghettato su schermo in “Hardware”. Non
fosse che nel film di Richard Stanley, oltre alla semplice trama,
conta tantissimo l'ambientazione, con i suoi scenari fatti di distese
riarse o di dedali claustrofobici. Suoni ossessivi, ombre e persino
odori, suggeriti da una fotografia sporca e sublime nello stesso
tempo. Quel che nelle poche tavole di “Shock” appare tutto
sommato patinato, in “Hardware” è impolverato, lurido, e
puzza di olio e ruggine. Il duello tra essere umano e macchina
assassina si svolge in un'arena che è un mondo ormai morente, i cui
ultimi sussulti sono accompagnati da spettacoli televisivi violenti e
dalle battute di un cinico speaker radiofonico che nella versione
originale ha la voce di Iggy Pop. Un conflitto nucleare ha ferito il
pianeta al cuore, ormai popolato da un'umanità aberrata e da
creature mutanti con aspettative di vita cortissime che consumano
cupe esistenze stipati all'interno di tetri alveari tecnologici. Una
legge appena promulgata livellerà le nascite, e là fuori c'è
ancora una guerra, morte, rovine e rottami. Anche i resti di androidi
dimenticati, tra i quali potrebbe nascondersi qualcosa di terribile,
destinato in precedenza a ridurre drasticamente la vita organica sul
pianeta. Non è casuale che il modello del robot protagonista sia
identificato come M.A.R. K. - 13, dichiarato riferimento al passaggio
del Vangelo secondo Marco in cui si leggono parole come “Quando
vedrete l'abominio della desolazione” e “Nessun essere
umano si salverà”.
E' facile riconoscere in “Hardware”
tracce di molti classici del cinema di fantascienza, tra cui
soprattutto “Mad Max”, “Terminator” e persino
“Alien”. Il punto è che “Hardware” riesce però
a conservare una sua identità fortissima, e mentre la fantascienza
evolve nel vero e proprio horror, Richard Stanley ci colpisce al
cuore con una parabola nerissima e pessimista sul futuro dell'uomo e
il suo rapporto con il progresso. M.A.R. K. - 13, trasformato in una
scultura postmoderna che non appena tornata in vita si riassembla con
tutto ciò che trova pur di continuare a uccidere, è un mostro che
non si dimentica facilmente. E l'appartamento di Jill, la scultrice
protagonista interpretata da Stacey Travis, si dimostra una location
ossessiva (praticamente già una trappola di per sé) che fa da
perfetto palcoscenico al grand guignol tecnologico che non dà un
attimo di tregua fino alla deflagrante conclusione. Nel ruolo di
Moses, l'avventuriero riciclatore che dona a Jill i rottami
dell'androide, abbiamo un giovane Dylan McDermott alle sue prime
apparizioni, quando ancora non era odiato da tutti (a mio parere in
modo esagerato) per le sue partecipazioni a più serie televisive. E
il contrappunto tra i due amanti, più sognatore uno, più cinica e
cauta l'altra, è carburante per un atmosfera intrisa di un
romanticismo amaro, perfettamente calato nel clima apocalittico della
vicenda. Un racconto (horror e fantascientifico, ma anche qualcosa di
più) che dimostra un virtuosismo cinematografico prezioso.
Rivelandosi un film fichissimo in ogni sua parte a dispetto dei pochi
mezzi grazie a una fantasia e a un estro che hanno del miracoloso.
“Hardware” è un film che va
visto. Magari più di una volta, per apprezzarne meglio le mille
metafore, nascoste in trovate visive e in dialoghi martellanti. Un
gioiello cinematografico ispirato a un fumetto che gli appassionati
di comics dovrebbero scoprire.
Gli appassionati di cinema, invece,
dovrebbero conoscerlo già. O almeno rimediare quanto prima.
Se siete rimasti indietro, fatelo. E
ricordate: “Nessuna carne sarà risparmiata”.