lunedì 16 settembre 2019

Mistery of the Batman [by Big John Creation]


"Mistery of the Bat-Man" è una serie amatoriale prodotta dal canale Big John Creation come omaggio all'Uomo Pipistrello creato nel 1939 da Bob Kane. La serie di corti, attualmente ancora in fase di pubblicazione, ricalca il format del cinema seriale degli anni trenta e quaranta, e si presenta come una perduta produzione girata negli anni 30. La prima, in teoria, a portare il personaggio di Batman sullo schermo, mai arrivata nelle sale e andata smarrita per decenni fino a un recente, fortuito, ritrovamento. Su queste premesse fittizie, si basa una serie di capitoli che riproducono atmosfere, tecniche e dinamiche del cinema d'intrattenimento di quegli anni andati. Un Batman grezzo, come poteva essere rappresentato negli anni 30. Un esperimento di fancinema bizzarro e un affettuoso atto d'amore verso uno degli eroi a fumetti più popolari di sempre.
Sarebbe simpatico se qualcuno si incaricasse di produrre dei sottotitoli in italiano.

sabato 31 agosto 2019

A Field in England [di Ben Wheatley]




«Mentre viviamo temendo l'inferno... ci siamo dentro.»

Mi vado innamorando sempre più del regista britannico Ben Wheatley a mano a mano che scopro la sua filmografia. Tutti film indipendenti e di difficile classificazione, per quanto spesso li si ascriva al genere del perturbante se non dell'horror. Meccanismi narrativi spiazzanti, e una visione cinematografica abbastanza anarchica, che qualcuno definisce velleitaria, bollando i suoi film come meri esercizi di stile senza capo né coda. Se il noir “Killer List” era un crescendo spietato di violenza ed esoterismo, fino a un finale criptico quanto sconvolgente, “A Field in England” (in italiano “I disertori”) uscito nel 2013, va possibilmente anche oltre, e ci regala un film a suo modo piacevolmente destabilizzante. In parte sogno, in parte incubo, che flirta con la cultura della psichedelia (in modo anche dichiarato), scatenando negli occhi e nella percezione di chi guarda una creatura cinematografica tra le più bizzarre. Non è un caso che in tanti gli stiano alla larga, dal momento che di sicuro esiste poco di altrettanto disorientante.



Lo scenario è quello della Guerra Civile inglese, fotografato in un pulitissimo bianco e nero, recitato in originale in inglese arcaico e interamente ambientato in un apparentemente interminabile campagna inglese («Il nulla e cardi...»). Quattro uomini fuggono dalla guerra. Quattro personaggi molto diversi tra loro, le cui peculiarità emergono da dialoghi tra il surreale e il picaresco, con una cadenza volutamente teatrale. Se il precedente “Kill List” poteva rammentare sotto alcuni aspetti il teatro di Harold Pinter, “A Field in England” echeggia le atmosfere del drammaturgo belga Michel de Ghelderode, la cui opera era influenzato dagli spettacoli di burattini e dal concetto di “teatro della crudeltà” di Antonin Artaud. Sintomo che Wheatley si sente molto legato all'aria che si respira sulle tavole del palcoscenico, e continua a sperimentare curiose ibridazioni con il linguaggio cinematografico attingendo alle poetiche meno omologate della prosa. Attraverso una narrazione scandita in quadri, i quattro disertori incontreranno in mezzo al nulla un alchimista stregone (l'attore Michael Smiley, visto in “Black Mirror” e attore ricorrente di Wheatley) che li coinvolgerà nelle sue trame, e nella ricerca di un misterioso tesoro.

In “A Field in England” ritroviamo temi classici quali il viaggio sciamanico e la scoperta della propria natura. Ma filtrati da un umorismo nerissimo e da una trama spiazzante, che se nella prima parte sembra seguire una dinamica tradizionale, nella seconda deraglia, violando ogni aspettativa logica e presentando scenari sempre più surreali, fino a una totale astrazione cui (non è una novità per Ben Wheatley) toccherà allo spettatore dare un significato. Sarebbe relativamente semplice riconoscere in “A Field in England” l'ennesima declinazione di un meccanismo narrativo già ampiamente sfruttato al cinema, E chissà, forse la risposta è davvero la più ovvia. Ma stiamo parlando di un film di Ben Wheatley, e certezze non ce ne possono essere. “A Field in England” è davvero una strana, stranissima creatura cinematografica. Facile da odiare per la sua particolarità e da ignorare per la sua scarsissima distribuzione. Eppure nella sua natura, magari un po' snob, di opera indipendente, che se infischia delle aspettative del vasto pubblico, risiede il suo fascino. Una potenza visiva notevole nel suo impeccabile bianco e nero, una caratterizzazione estrema dei personaggi, presi quasi di peso dalla commedia dell'arte e catapultati in un contesto allucinato, e un sottotesto magico, un viaggio psichedelico tutto da vivere, se non interpretare.
Questo è “A Field in England”. Un'esperienza cinematografica che non può in nessun caso lasciare indifferenti. E in ogni caso, difficilmente, una volta visto, si riuscirà a dimenticarlo presto.

domenica 4 agosto 2019

Ciao, Swamp Thing...


...e fine. Si conclude la prima e unica stagione di Swamp Thing, serie live action prodotta dalla piattaforma DC Universe Streaming e subito cancellata per motivi controversi. Per ragioni di budget non confermato, è stato detto, per qualcosa di meno definito è stato aggiunto in seguito. Quello che è certo è il senso di spreco per una serie dal potenziale molto interessante. Uno scorcio dell'universo dark del mondo narrativi DC che riesce a coniugare i dieci episodi le basi classiche del personaggio creato da Len Wein e Bernie Wrightson e la rivisitazione operata successivamente da Alan Moore. Uno show cupo, dai toni spiccatamente horror, ricco di promesse mantenute nel corso di questa run, e di un potenziale che purtroppo (così pare) non vedremo sfruttare in futuri episodi. Un vero peccato. Ma vale la pena di vedere questa serie, a suo modo compiuta, che dimostra quanto la DC stia riuscendo a realizzare in ambito televisivo, a dispetto dei recenti fallimenti cinematografici. E non perdetevi la scena post credits dell'ultimo episodio.

lunedì 15 luglio 2019

Gli altri cinecomics: "Hardware" di Richard Stanley



Hardware”, in italiano “Metallo Letale” è il primo film del regista sudafricano Richard Stanley, uscito nel 1990, che si ispira (molto liberamente) al racconto a fumetti britannico "Shock”, scritto da Steve McManus (accreditato come Ian Rogan) e disegnato da Kevin O'Neill, pubblicato per la prima volta su “Judge Dredd Annual” del 1981, e in seguito ristampato su “2000 AD”. Per quanto riguarda il film di Stanley, pare che inizialmente nessun accredito fosse stato riconosciuto agli autori del fumetto, e che soltanto dopo una controversia legale le due parti siano giunte a un accordo.

Quindi “Hardware – Metallo Letale” (oppure “Hardware – I robot non muoiono mai”, titolo con cui il film fu distribuito in home video in terra italica) sarebbe un cinecomic?


Beh, né più né meno delle tante pellicole che, ispirate a piece teatrali, romanzi e racconti, non sembrano avere necessità di un'etichetta così specifica. Se vogliamo, potremmo collocare “Hardware” (che prende solo lo spunto essenziale del fumetto di McManus e O'Neill) nella zona d'ombra degli “altri cinecomics”, quelli che sentono (e fanno sentire) meno il peso del loro retaggio cartaceo e vivono di vita propria, dando origine a una creatura cinematografica indipendente e dalla forte identità. Soprattutto se a firmare la regia è un talento (qui esordiente) come quello di Richard Stanley, che raccoglie l'ossatura di un racconto a fumetti breve e realizza, facendo virtù di un budget ridottissimo, uno spettacolo emotivamente coinvolgente, ricco di metafore esistenziali e politiche, che brucia gli occhi dello spettatore con immagini di rara potenza.


In un futuro non meglio specificato, una giovane scultrice abituata a servirsi di materiale meccanico in disuso, riceve come dono dal suo amante i resti di un robot reperiti da un losco rigattiere. L'artista realizza una delle sue installazioni, e la colloca nel proprio appartamento. Ma l'automa è in realtà un modello militare assassino programmato per autoripararsi e uccidere ogni essere vivente sulla sua strada. Presto il suo chip si riattiva, e nell'appartamento avveniristico della ragazza sarà l'inizio di un sanguinosissimo incubo...

Questa la trama del fumetto “Shock”, questo lo spunto traghettato su schermo in “Hardware”. Non fosse che nel film di Richard Stanley, oltre alla semplice trama, conta tantissimo l'ambientazione, con i suoi scenari fatti di distese riarse o di dedali claustrofobici. Suoni ossessivi, ombre e persino odori, suggeriti da una fotografia sporca e sublime nello stesso tempo. Quel che nelle poche tavole di “Shock” appare tutto sommato patinato, in “Hardware” è impolverato, lurido, e puzza di olio e ruggine. Il duello tra essere umano e macchina assassina si svolge in un'arena che è un mondo ormai morente, i cui ultimi sussulti sono accompagnati da spettacoli televisivi violenti e dalle battute di un cinico speaker radiofonico che nella versione originale ha la voce di Iggy Pop. Un conflitto nucleare ha ferito il pianeta al cuore, ormai popolato da un'umanità aberrata e da creature mutanti con aspettative di vita cortissime che consumano cupe esistenze stipati all'interno di tetri alveari tecnologici. Una legge appena promulgata livellerà le nascite, e là fuori c'è ancora una guerra, morte, rovine e rottami. Anche i resti di androidi dimenticati, tra i quali potrebbe nascondersi qualcosa di terribile, destinato in precedenza a ridurre drasticamente la vita organica sul pianeta. Non è casuale che il modello del robot protagonista sia identificato come M.A.R. K. - 13, dichiarato riferimento al passaggio del Vangelo secondo Marco in cui si leggono parole come “Quando vedrete l'abominio della desolazione” e “Nessun essere umano si salverà”.


E' facile riconoscere in “Hardware” tracce di molti classici del cinema di fantascienza, tra cui soprattutto “Mad Max”, “Terminator” e persino “Alien”. Il punto è che “Hardware” riesce però a conservare una sua identità fortissima, e mentre la fantascienza evolve nel vero e proprio horror, Richard Stanley ci colpisce al cuore con una parabola nerissima e pessimista sul futuro dell'uomo e il suo rapporto con il progresso. M.A.R. K. - 13, trasformato in una scultura postmoderna che non appena tornata in vita si riassembla con tutto ciò che trova pur di continuare a uccidere, è un mostro che non si dimentica facilmente. E l'appartamento di Jill, la scultrice protagonista interpretata da Stacey Travis, si dimostra una location ossessiva (praticamente già una trappola di per sé) che fa da perfetto palcoscenico al grand guignol tecnologico che non dà un attimo di tregua fino alla deflagrante conclusione. Nel ruolo di Moses, l'avventuriero riciclatore che dona a Jill i rottami dell'androide, abbiamo un giovane Dylan McDermott alle sue prime apparizioni, quando ancora non era odiato da tutti (a mio parere in modo esagerato) per le sue partecipazioni a più serie televisive. E il contrappunto tra i due amanti, più sognatore uno, più cinica e cauta l'altra, è carburante per un atmosfera intrisa di un romanticismo amaro, perfettamente calato nel clima apocalittico della vicenda. Un racconto (horror e fantascientifico, ma anche qualcosa di più) che dimostra un virtuosismo cinematografico prezioso. Rivelandosi un film fichissimo in ogni sua parte a dispetto dei pochi mezzi grazie a una fantasia e a un estro che hanno del miracoloso.
Hardware” è un film che va visto. Magari più di una volta, per apprezzarne meglio le mille metafore, nascoste in trovate visive e in dialoghi martellanti. Un gioiello cinematografico ispirato a un fumetto che gli appassionati di comics dovrebbero scoprire.
Gli appassionati di cinema, invece, dovrebbero conoscerlo già. O almeno rimediare quanto prima.

Se siete rimasti indietro, fatelo. E ricordate: “Nessuna carne sarà risparmiata”.

domenica 14 luglio 2019

Festino 2019 - Cittacotte: Fraternidad



Esistono tradizioni popolari e tradizioni di quartiere. Le prime, più diffuse, sono spesso oggetto (oltre che di studio ufficiale) di commercio e attenzione mediatica. Le seconde, a volte più riposte, coinvolgono aree più ristrette, ma sopravvivono puntualmente e contribuiscono all'identità di quelle più celebrate.

E' tradizione ormai ultradecennale quella che si accompagna alla festa patronale del Festino a Palermo. La presentazione della nuova vetrina di Cittacotte, bottega di via Vittorio Emanuele 120, in cui mastro Vincenzo Vizzari, artigiano della terracotta, propone annualmente una sua personale visione di Rosalia, la santuzza di Palermo. In molti casi trasfigurata in modi fantasiosi quando non trasgressivi, ed elogiata nel tempo da custodi della sicilianità come Rosario La Duca e molti altri. Una tradizione di quartiere che conserva, anno dopo anno, una forza artistica dirompente, una creatività non omologata, e per questo meritevole di maggiore attenzione. Forse anche di una forma di istituzionalizzazione all'interno del Festino.

“Fraternidad”, tema di quest'anno, svelato Sabato 13 Luglio 2019, riprende il tema attualissimo dell'accoglienza, del superamento dell'odio e dell'integrazione. Ma anche dell'accettazione di un'identità già esistente. Nascosta, ignorata, e tuttavia presente. Sulle note della canzone di Sergio Endrigo “Girotondo intorno al mondo” (ogni composizione è puntualmente svelata con una costruzione d'impianto quasi teatrale), il sipario si solleva su una Rosalia che rifiuta il monopolio patronale sulla città, e si tiene per mano con San Benedetto il Moro, frate francescano del XVI secolo, nato in Sicilia da genitori africani giunti come schiavi. Divenuto frate giovanissimo, Benedetto ha fama di santo saggio e miracoloso, sostenitore e consigliere dei poveri. Una leggenda racconta che partecipò alla ricerca delle ossa di Rosalia quando questa ancora non era stata proclamata patrona di Palermo. Benedetto divenne compatrono della città accanto alla Santuzza nel 1713, ma sebbene amatissimo e ricordato a livello popolare, oggi è poco noto alle grandi masse e solo di recente la sua figura è stata recuperata, diventando un nuovo simbolo di accoglienza.

Con “Fraternidad”, Vincenzo Vizzari contribuisce a questo recupero e al disvelamento di un santo patrono, antico e parallelo, da molti oggi ignorato. Palermo ha di fatto due santi patroni. Da tempo immemorabile, pertanto, ha un'identità culturale ibrida, composita e pertanto ricca, sepolta da secoli di iconografia commerciale che hanno lasciato emergere la sola Rosalia. Una Rosalia che nell'opera di Vizzari divide fieramente lo scranno con Benedetto, tenuto per mano e presentato con aria quasi sfrontata dalla Santuzza. Quasi a dire: «Ti meravigli, Palermo? Eppure c'è sempre stato. Il tuo volto è anche questo. E' ora che ti guardi allo specchio. E' ora che ti accetti e fai pace... con te stesso.»

E come spesso accade nelle opere di mastro Vizzari, il globo, il mondo su cui i due santi siedono, è plasmato negli scorci di una Palermo trasfigurata, volta a suggerire la natura inevitabilmente cosmopolita della città, che emerge in un rinnovato giardino dell'Eden. La conca d'oro, su cui si staglia significativamente la maestà dei palmizi.

A far corona ai due santi patroni, un girotondo di sagome che evocano il dipinto “La danza” di Matisse. Non angeli, stavolta, ma esseri umani, in una visione sognante per un domani migliore.
Un appello accorato al superamento dell'odio, alla luce di una nuova consapevolezza sulle proprie origini culturali e spirituali. Due santi e due anime, artistiche e umane, per un'utopia che merita di essere rincorsa.

Viva Palermo. Viva Santa Rosalia. Viva San Benedetto.

Bravo Vincenzo Vizzari.






giovedì 11 luglio 2019

Vita - L'aborto di un paese civile - Crowdfunding



“VITA – l'aborto di un paese civile” è una storia vera, raccontata da una fumettista che ha vissuto sulla propria pelle il dramma dell'aborto in un paese (il nostro) il cui sistema sanitario si dimostra ancora troppo immaturo per gestire una questione così delicata. Un contesto in cui spesso la donna è lasciata sola, giudicata, costretta ad affidarsi a servizi approssimativi, frettolosi, in cui trovare chi si prende cura di te può essere un'impresa. Anna Cercignano firma una storia dolorosa che ha conosciuto da vicino. L'essere costrette a chiedere un'interruzione di gravidanza si scontra con i paradossi di un paese che legalmente prevede l'aborto, ma di fatto non garantisce assistenza, generando un ipocrita vuoto in cui le donne in stato di necessità affogano.

La storia di Anna diventa così spunto per andare oltre, e affrontare il tema complesso dei diritti sessuali e riproduttivi in tutto il mondo, spaziando in diversi contesti geopolitici e individuali per parlare di diritti umani violati, diritti sessuali e riproduttivi.

Il libro è basato su dati forniti da Amnesty International e realizzato in collaborazione con “Obiezione Respinta”, iniziativa di mappatura dei medici obiettori antiabortisti attiva a Pisa dal 2018, che raccoglie testimonianze relative alle esperienze vissute presso ospedali, farmacie e consultori. L'associazione Altrinformazione contribuisce al progetto affinché il libro sia stampato.

“VITA – l'aborto di un paese civile” è un libro necessario, informativo e di denuncia, contro una concezione di stato come legittimo proprietario del corpo delle donne, per una libertà di scelta.
A questo scopo, Altrinformazione ha fatto partire un crowdfunding volto a produrre il fumetto su supporto cartaceo e a dare visibilità all'opera e al suo scottante argomento.

La prima parte del fumetto di Anna Cercignano si può leggere sul portale Stormi delle edizioni BeccoGiallo.






mercoledì 10 luglio 2019

L'albero dei ramocchi, una fiaba ecologica



“L'albero dei ramocchi” è una fiaba ecologica che ha per tema l'educazione alla raccolta differenziata, e si propone di illustrarne la necessità (così come le conseguenze nefaste della sua assenza, e dei più gettonati criteri di smaltimento) attraverso fresche allegorie senza tempo.
“L'albero dei ramocchi” è una fiaba pedagogica (e scusate se vi sembra una parolaccia). Sì, nel senso che è rivolta ai bambini e si propone di responsabilizzarli al rispetto per l'ambiente mediante una mitologia fantastica per loro facilmente identificabile. Un lavoro di sintesi, tra narrazione e immagini, che i più maturi potrebbero accostare ai fasti di Gianni Rodari e Bruno Munari, e al loro storico sodalizio artistico.

A scrivere “L'albero dei ramocchi” è Renato Gadda, personaggio multiforme della realtà romagnola, compositore musicale, teatrante, conoscitore e venditore di fumetti (sua la rivendita “Pagine e Nuvole”) e autore di fiabe didattiche, in cui l'immaginario pop da lui metabolizzato è restituito in forma creativa per affrontare temi di attualità, sempre trasfigurati per l'infanzia e destinati a un uso scolastico. “L'albero dei ramocchi” è stato anche letto in forma teatrale nelle scuole contestualmente a mostre delle illustrazioni che lo corredano.

Alessandro Giovannini (in arte Nut), autore della parte grafica del libro, è un writers di talento il cui lavoro precedente ha fortemente influenzato la genesi della fiaba. Un murales a tema ecologico di Nut, realizzato all'ingresso del parco pubblico di Lavezzola (fatalmente di fronte al negozio di fumetti di Gadda), è stato infatti spunto affinché le sensibilità artistiche di scrittore e illustratore di avvicinassero, producendo insieme un racconto agile e funzionale, che parla ai bambini con il linguaggio eterno delle fiabe e si appoggia a uno stile grafico urbano, dai colori accesi e vitali, con una simbologia a metà strada tra i cartoon e certo pop tipico della street art.

Il magico regno di Zagnolandia non ha certo esaurito le sue storie con il primo libro autoprodotto, e altre fiabe sono già in cantiere. I “ramocchi”, creature di origine vegetale, ma senzienti, rappresentano una complessa gamma di umanità. Il legame viscerale con la terra, l'identificazione principale della razza umana con il senso della vista e tutte le ambiguità che ne conseguono. Essere tutto occhi può significare essere imbelli e limitarsi a osservare, ma anche essere vigili e guardare al futuro. Tutto è nella scelta, e in quel legame con l'albero, fonte della vita, che rappresenta il simbolo più forte del racconto.

Come molti aspetti cruciali, l'educazione al riciclo e alla cura dell'ambiente dovrebbe partire proprio dalle scuole e dalla costruzione consapevole dei più piccoli. Per questo ben vengano iniziative come quelle di Gadda e Giovannini, e la loro diffusione nelle scuole. Complimenti a entrambi per il bel lavoro e in bocca al lupo per i progetti in divenire. Ne abbiamo bisogno. Moltissimo.


Per info e contatti:

Stores.ebay.it/pagine-e-nuvole
renatogadda@tiscali.it