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mercoledì 22 dicembre 2010

Thor: il poster italiano del film


Ecco la prima locandina italiana di Thor, il film sul dio norreno della Marvel diretto da Kenneth Branagh che uscirà in Italia il 29 Aprile 2011, con una settimana di anticipo rispetto agli Stati Uniti, dove sarà distribuito invece il 6 Maggio. Poster minimale ed evocativo. Attendiamo con molta curiosità questo cinefumetto del grande attore-regista shakespeariano, che oltre alle sue felici letture del grande bardo, ci ha abituato anche a pellicole (sorvolando sul controverso Mary Shelley's Frankenstein) di qualità discretamente alta (Nel bel mezzo di un gelido inverno, L'altro delitto, Sleuth). Il prossimo Aprile, con l'arrivo della Primavera, staremo a vedere se il Thor di Branagh tuonerà davvero.

venerdì 10 dicembre 2010

Tron Legacy: Le Marvel Variant Covers


La notizia ormai vecchiotta dell'acquisto della Marvel da parte del colosso Walt Disney - ricorderete - aveva suscitato una quantità di supposizioni, preoccupazioni e soprattutto battute. A distanza di circa un anno, iniziamo a vedere qualche segno più tangibile di quello che potrebbe aspettarci dopo l'assorbimento commerciale della fabbrica di supereroi da parte della casa di Topolino e company. Complice l'avvicinarsi dell'uscita italiana (sarà distribuito nei cinema il prossimo 29 Dicembre) di Tron Legacy, sequel-reboot del film diretto da Steven Lisberger nel 1982 e prodotto proprio dalla Disney. Il film riprende le vicende del programmatore Kevin Flynn (e di suo figlio Sam) che ha trovato il modo di penetrare fisicamente nell'universo informatico creato dai computer, scoprendovi una civiltà avanzata e scenari mirabolanti. Il nuovo film si avvale della tecnica 3D e ripropone l'aggiornamento della grafica che rendeva spettacolare l'ormai datato film del 1982. Il mondo virtuale è reso attraverso rielaborazioni digitali di oggetti e persone con un uso studiato di luci e colori che conferisce un aspetto "elettronico" a tutto ciò che si muove sullo schermo.

Che cosa c'entrano la Marvel e i supereroi con tutto questo? Assolutamente nulla. Eccetto per il fatto che - essendo ora proprietà della Disney - la Marvel ha pensato di fare uscire in contemporanea con il film, una serie di Variant Covers per così dire "tronizzate" delle sue testate più popolari. Possiamo dunque vedere l'Uomo Ragno, Wolverine, Capitan America, Iron Man e altri come apparirebbero se dovessimo incontrarli all'interno del film Tron Legacy. Le cover non rimandano a nulla che sia contenuto negli albi, e hanno una mera funzione pubblicitaria. Anche se di certo la casa delle idee conta di far leva sugli appettiti dei collezionisti. A buon intenditore...
In Italia, finora, a uscire con cover "tronante" nel mese di Dicembre, sono stati soltanto L'Uomo Ragno e Capitan America. Le altre cover sono inserite come appendice all'interno dell'albo versione jumbo dedicato al Capitano.



 
 

domenica 10 ottobre 2010

Thor - il trailer


Nelle ultime settimane sono comparsi in rete diverse versioni del trailer di Thor, il film ispirato al celebre fumetto Marvel diretto dal regista-attore shakespeariano Kenneth Branagh (Molto rumore per nulla, Hamlet, Frankenstein di Mary Shelley). I vari trailer sono rimontaggi più o meno lunghi del filmato presentato qualche mese fa al Comic-Con, brevemente trapelato su Youtube e subito rimosso. Le immagini suggeriscono già qualcosa delle atmosfere che troveremo nella pellicola dedicata al dio del tuono. Prima di tutte (ma era prevedibile) la dimensione metastorica e multietnica che Branagh infonde spesso alle proprie regie (basti ricordare l'originale varietà della corte di Elsinore nel suo bellissimo Amleto cinematografico). Asgard sembra apparire come una reggia antica e tecnologica nel medesimo tempo, mentre l'Odino interpretato dal grande Anthony Hopkins tralascia l'iconografia marvelliana per aderire maggiormente al look mitologico del personaggio (che dovrebbe essere guercio). Il giovane attore Chris Hemsworth, visto brevemente nel reboot di Star Trek, suggerisce un'intensità mimica che lascia ben sperare. I presupposti per un film divertente sembrano esserci. Nel frattempo, gustiamoci il trailer.

lunedì 6 settembre 2010

Marvels - L'occhio della fotocamera


Sono trascorsi molti anni da quando il fotografo freelance Phil Sheldon ha pubblicato il suo libro intitolato Marvels, dedicato alla comparsa dei primi eroi in costume. Da quei giorni il mondo è cambiato. In peggio. Le zone d’ombra, un tempo circoscritte, si confondono sempre più con la luce e le gloriose “Meraviglie” sembrano assomigliare di più a inquietanti incubi. Le gesta degli eroi si fanno tortuose, eticamente ambigue, mentre nelle strade aumentano violenza e caos. Phil Sheldon dovrà documentare questo sviluppo,  decifrare la nuova percezione dei vigilanti presso la gente comune e fare i conti con le proprie scelte passate. E tutto mentre combatte il cancro che lo sta uccidendo.

Marvels - L’occhio della fotocamera, è l’attesissimo seguito di Marvels, storica miniserie pubblicata nel 1994 e subito assurta a oggetto di culto tra i lettori più fedeli alla casa delle idee statunitense. Marvels
rappresentava un compendio affettuoso degli eventi cardine dell’universo Marvel collocati tra gli anni quaranta e la prima metà dei settanta del secolo scorso, mostrati attraverso l’inedita prospettiva della popolazione ordinaria. Narratore ed espediente formale era già allora il personaggio di Phil Sheldon, fotografo coraggioso i cui dubbi e timori erano il polso di un’umanità testimone di fenomeni straordinari. Altro elemento formale che esprimeva lo spirito fondante del racconto era il lavoro grafico svolto da Alex Ross, illustratore che deve proprio a Marvels il suo definitivo lancio internazionale. La tecnica dell’illustrazione fotorealistica, realizzata pittoricamente su accurate prove fotografiche, serviva a trasmettere al lettore quel senso straniante di una realtà quotidiana invasa dal meraviglioso. Tra le pieghe ineleganti di calzamaglie mai così carnevalesche, scaturiva l’emozione di un’illusoria verità. Gli eroi potevano apparire realistici fino a essere goffi, ma il vero protagonista era il sentimento di fondo. Lo stupore, a volte misto a sgomento, di chi osserva creature mitologiche camminare sulla terra. Marvels si apriva con la presentazione degli eroi sorti durante il periodo bellico e si concludeva con la morte di Gwen Stacy, evento di solito indicato come spartiacque tra il periodo più leggero e l’introduzione dell’elemento cupo e drammatico nelle storie di supereroi.

Dopo quasi vent’anni, il mondo e il punto di vista di Marvels torna. E ritorna anche Phil Sheldon, pensionato, stanco, malato. Più confuso e più umano di prima. Una lunga attesa per un seguito che, seppure non esattamente imperdibile, sarebbe meglio non dare per scontato, e che riesce nonostante tutto a fare breccia nel cuore dei lettori di vecchia data. Come lo sfogliare un vecchio album di famiglia e riconoscervi zii e cugini più o meno amati. Perché questo sono Marvels e Marvels – L’occhio della fotocamera. Dei piccoli compendi celebrativi volti a suscitare nostalgia e a fornire spunti di riflessione sui mutamenti sociali che attraverso i decenni hanno influenzato anche lo stile del fumetto popolare, modificandone approcci e tematiche. Influenzando le aspettative del lettore e di conseguenza le sue reazioni. Non si può negare che se Marvels era un lavoro che poteva essere fruito appieno soltanto da chi era in grado di riconoscere i grandi eventi cui accennava, questo L’occhio della fotocamera risulta ancora più ostico. Forse per la mole degli avvenimenti citati (e stipati) nel volume, che coprono un arco di anni piuttosto vasto. Forse per gli accenni fugaci a saghe sempre più contorte, prodotte in un periodo in cui erano frequenti i crossover e in cui lo status quo degli eroi subiva evoluzioni costanti. In definitiva, Marvels – L’occhio della fotocamera, come già il suo illustre predecessore, non è una lettura adatta a tutti i palati.

Lo spunto fondante de L’occhio della fotocamera, e motivo di confusione per il malandato ma tenace Phil
Sheldon, è l’avanzare dell’oscurità nel reame delle meraviglie. L’avvento di personaggi mostruosi come Ghost Rider, Morbius, Man-Thing. Ma soprattutto l’arrivo dello spietato Punisher, un vigilante che gareggia in crudeltà con gli stessi criminali che abbatte, eppure capace di compiere, all’occorrenza, inattesi atti di puro eroismo. La condotta degli eroi si fa imprevedibile, dettata da eventi non sempre di immediata comprensione. La fobia mutante non accenna a esaurirsi mentre nuovi X-Men, più sinistri dei primi, guadagnano la ribalta sfoderando affilati artigli. Mentre Phil si sforza di dare un senso al tempo che gli resta da vivere, il mondo intorno a lui sembra impazzire e tutti i suoi punti fermi incrinarsi mischiando bianco e nero in un enigmatico scenario fatto di tonalità equivoche. Capitan America, tradito ripetutamente dal paese che rappresenta, si trasforma in Nomad, solo per scoprire che questo non cambierà nulla. Attraverso gli occhi di Sheldon assistiamo a eventi incresciosi legati all’emergente alcolismo di Iron Man. Veniamo a sapere di Henry Pym e dell’esaurimento nervoso che lo ha indotto prima a picchiare la moglie, e in seguito a commettere atti inconsulti che causeranno la sua espulsione dalla squadra dei Vendicatori. La temporanea separazione tra Reed Richards e Sue Storm dei Fantastici Quattro. Le imprese dell’assassina Elektra e la sua morte per mano del sicario Bullseye. Una catena di fatti sanguinosi e terribili, rischiarati ogni tanto da un imprevisto lampo di speranza. Sono molti gli eventi che restano pressocché indecifrabili per Phil Sheldon e i comuni esseri umani, come l’arrivo dell’Arcano e le seguenti Guerre Segrete. Le sempre più frequenti invasioni da parte di creature di altre dimensioni, i doppi giochi di X-Factor nella spinosa questione mutante. La redenzione di Magneto e gli imprevisti atti di altruismo a opera di criminali ritenuti irrecuperabili. Una sarabanda apocalittica durante la quale gli eroi non fanno che cadere e rialzarsi, fino all’apparente morte in diretta televisiva degli X-Men a Dallas.

Se l’approccio fotografico usato da Alex Ross era azzeccato per il primo Marvels, dove ben rendeva il punto di visto umano con cui erano osservati i supereroi, con L’occhio della fotocamera il discorso cambia. Il disegnatore filippino Jay Anacleto, chiamato qui al fianco dello sceneggiatore Kurt Busiek a raccogliere l’eredità illustre del suo predecessore, è un artista dalla personalità abbastanza diversa. Così com’è diverso l’approccio alla trama utilizzato da Busiek, già autore insieme a Ross della miniserie capostipite. Si è fatto un gran parlare, dopo l’exploit di Alex Ross, del suo stile fotorealistico e della presunta continuità con i disegni di Anacleto. In realtà, la somiglianza è solo superficiale e di fotorealismo, ne L’occhio della fotocamera, rimane ben poco. Questo non significa che sia un male. I decenni che ci separano dalla prima uscita di Marvels hanno visto il sorgere di molti artisti dallo stile variegato e sperimentale. Quello di Jay Anacleto, illustratore che si è fatto le ossa nel campo del fantasy, è un disegno più pittorico e iperrealista che propriamente fotografico. Ed è quello che ci vuole per il seguito di Marvels, dove la chiarezza dei ruoli è andata perduta, gli eventi si rincorrono contraddittori e misteriosi, e per i comuni mortali è sempre più difficile orientarsi. Il lavoro di Anacleto fornisce al racconto una plasticità distante dagli effetti pseudorealistici (e tutto sommato un po’ stucchevoli) di Alex Ross, e conferisce alla trama un sapore tenebroso. Credibile e nello stesso tempo sfuggente come una sequenza onirica.

L’occhio della fotocamera non è un fumetto perfettamente riuscito. Risente in parte del suo essere un sequel, giunto per di più dopo un lungo intervallo. Forse fuori tempo massimo. Gli pesa il suo velo di tristezza là dove il suo predecessore mostrava l’alba di un’era epica. Il tono crepuscolare, scandito dalla malattia del protagonista, parla tra le righe della caducità della vita, di bilancio esistenziale all’ombra dei grandi eventi e di responsabilità personali. Tuttavia, superato il ritmo lento e francamente scontato dei primissimi capitoli (ulteriormente appesantiti da un confuso riassunto del volume originale), la trama in qualche modo alza la testa. Il pensionato Phil Sheldon, aggrappato alla vita nonostante le molte amarezze, riesce a conquistare il lettore e a condurlo fino alla fine, quando l’imprevisto ritorno di un personaggio che non ci aspettavamo di rivedere regala qualche istante di autentica commozione. Ancora più che in Marvels, ne L’occhio della fotocamera il vero tema è la possibilità di essere eroi. Nonostante gli errori. Nonostante la sconfitta. Un argomento ormai frusto nei fumetti di supereroi, ma raramente affrontato con la delicatezza dimostrata da Kurt Busiek nelle pagine finali di questa miniserie. Il personaggio di Phil Sheldon, nato in Marvels per essere un mero espediente narrativo, un occhio sulle vicende degli eroi più blasonati, cresce, invecchia e diventa il vero protagonista della sua storia. Così il titolo acquista un senso diverso. Da Marvels, Meraviglie a L’occhio della fotocamera. Ma potremmo anche dire:  l’uomo dietro l’obiettivo. Per quanto gli eventi narrati possano essere apocalittici, stavolta stiamo maggiormente al fianco di Phil, lo seguiamo e ne siamo coinvolti. L’essere umano torna, insomma, a essere il perno del racconto, e sebbene L’occhio della fotocamera sia lontano dall’essere un capolavoro, è una lettura densa per chi è cresciuto con i fumetti Marvel. A tratti toccante, in grado di suscitare autentica nostalgia. E in fondo, non è poco.


Questa recensione è stata pubblicata anche su Fantasymagazine.


[Articolo di Filippo Messina]

lunedì 19 luglio 2010

La Torcia - Miniserie


Il Pensatore mette le mani su quel che resta della Torcia originale. Studia la sua tecnologia e ne fa un’arma.
I suoi piani riguardano anche il suo antico assistente, Toro.
Intervengono i Fantastici Quattro, il principe Namor e altri eroi.
Fuoco. Pugni. Scintille.
Ma soprattutto, tanto, tanto fumo.

Sembra che non ci sia niente da fare. La Torcia Uman originale, quella creata dall’autore Carl Burgos nel lontano 1939, non vuole proprio saperne di riaccendersi. Al massimo scoppietta un po’. Sparge cenere qua e là, e l’anello di fumo rimasto si dissolve mestamente, senza lasciare nessun ricordo particolare.

Punto primo. Il riassunto con cui abbiamo aperto questa riflessione non è quello della recente miniserie attualmente pubblicata in Italia da Panini sulla testata Marvel Mega. Non esclusivamente, almeno. Infatti, il sunto in questione può andar bene per più storie che i lettori Marvel meno giovani ricordano sin dai tempi gloriosi dell’editoriale Corno. Avventure dei Fantastici Quattro disegnate da Jack Kirby. Episodi con protagonista Sub-Mariner, e – con qualche trascurabile variante – contorte saghe dei Vendicatori. Questa Torcia - diciamolo - brilla solo di luce riflessa, se circondata da personaggi più... diciamo “Hot”.

Punto secondo. La Torcia Umana originale (anzi... la Torcia Umanoide, giusto per adeguarci alla deliziosa pedanteria di recenti redazionali, cui piace rimarcare che questa Torcia era un androide e quindi ben lungi dall’essere Umana) fatica a ritagliarsi il suo spazio nelle storie attuali, a differenza dei suoi colleghi storici: Capitan America e Sub-Mariner. E un motivo c’è.  Talmente ingombrante da essere invisibile.

Quando la Marvel non c’era e il nome della ditta era Timely Comics, eroi come Capitan America, Sub-Mariner e Torcia Umana, rappresentavano la sacra trinità dei supereroi secondo un modello non troppo dissimile da quello che per certi versi erano Superman, Batman e Wonder Woman per la DC.  In casa Timely, durante la seconda guerra mondiale, i tre eroi diedero vita al gruppo degli Invasori (simboleggiavano le forze americane di terra, aria e mare) animando con le loro imprese un fumetto dal palese sapore propagandistico. Quando i tempi cambiarono e la Timely mutò nome prima in Atlas e poi definitivamente in Marvel, il giovane Stan Lee attinse a piene mani a questa scuola storica, reintroducendo nell’era moderna una versione svecchiata di quei supereroi che negli anni quaranta avevano raggiunto la popolarità suonandole ai nazisti. Nel caso di Capitan America e Namor, gli espedienti dell’ibernazione e di un processo di invecchiamento ritardato furono sufficienti a riproporre i due personaggi con le loro identità originali. Per altri, Lee e i suoi collaboratori lavorarono di fantasia, usando caratteristiche e nomi editi, ma proponendo eroi nuovi di zecca. La Torcia Umanoide, fu inizialmente snobbata dal pensatore della neonata Marvel Comics, e riplasmata come membro del primo gruppo del suo nuovo universo: i Fantastici Quattro. Non più un androide, sebbene dotato di emozioni, ma Johnny Storm. Un giovane umano dal carattere guascone, per il quale i poteri di fiamma diventavano estensione metaforica di una personalità turbolenta e passionale. Una lettura moderna a fronte della quale, lo sfortunato androide non riesce a carburare, facendo la figura di una bozza la cui essenza si è già evoluta per il nuovo secolo con esiti molto più incisivi.

La Torcia Umana era tornata. Ed era... più umana che mai.
Ma il mondo editoriale dei supereroi, Marvel, DC o altro, fronteggia da sempre una nemesi famelica temibile quanto il divoratore di mondi Galactus. Il suo nome è Riciclaggio. Pertanto, la Torcia originale tornò. Sempre a causa di un Pensatore, stavolta quello di carta, nemico del Quartetto. Fece una vampata e morì nel giro di un episodio pubblicato su un annual nel 1966. Poi tornò, per sparire un’altra volta. E ancora. Ancora. Ancora... In un ripetersi di trame spesso incoerenti, legami farraginosi con altri personaggi e smentite clamorose, in un carosello di morti e risurrezioni più noiose che sorprendenti.

Perché stavolta, con la miniserie intitolata semplicemente La Torcia, dovrebbe essere diverso?

E infatti non lo è.

Tutto è già visto. A partire dagli sconvolgimenti esistenziali di Toro, giovane mutante che condivideva poteri e avventure con la prima Torcia, colpito a sua volta dalla sindrome di Lazzaro. La sceneggiatura di Mike Carey, basata su un soggetto ideato insieme ad Alex Ross e Jim Krueger,  sprofonda da subito il lettore in un universo popolato da fantasmi editoriali, facendo della Visione (non l’androide dei Vendicatori che – forse – era stato la Torcia, ma lo stregone alieno della Timely) la coscienza del giovane Toro da poco tornato dai morti e incapace di trovare un posto in un mondo che non gli appartiene più. Ma questo elemento onirico, tra il nostalgico e lo straniante, dura poco, per lasciare spazio alla più prevedibile delle partiture. Il Riciclaggio torna a mietere le sue vittime, e ci troviamo a leggere una storia che è il classico risultato del gioco delle tre carte. Carte ormai ingiallite, che riconosciamo dalle pieghe sul frontespizio prima ancora che vengano girate.

Patrick Berkenkotter, già illustratore della miniserie Vendicatori/Invasori, non regala nessun vero brivido. Il suo stile parzialmente pittorico riesce solo a rendere più fastidiosa la ripetitività dell’intreccio, vestendo di kitsch personaggi abusati e intrecci talmente logori da far apparire uno spreco anche la firma di Alex Ross sulle copertine della miniserie. Una saga in otto capitoli, raccolti dalla collana Marvel Mega in due albetti brossurati. La lettura della prima parte giunge a termine con discreta fatica, e la ripresa sembra improbabile. Potrà guadagnare terreno, forse, con i fans Marvel di ultimissima generazione, ignari di quante volte il trucco sia già stato sfruttato in passato.
A chi è cresciuto negli anni '70, riesce difficile affezionarsi alla Torcia Umanoide. Almeno quando la vediamo agire fuori dal suo contesto originale. Preferiamo ricordarla nelle storie in stile retrò dedicate agli Invasori, quando lui e Toro erano le uniche due torce a solcare i cieli, e le loro scie incandescenti liquefacevano i carri armati del terzo reich.
Ma oggi, e già da ieri, la Torcia Umana, con la sua storia e personalità, è sicuramente un’altra.

 Questa recensione è stata pubblicata anche su FantasyMagazine.


[Articolo di Filippo Messina]

martedì 13 luglio 2010

Young Doctor Strange

Stephen Strange non è un cinico chirurgo di grido.
E’ un adolescente, e il chirurgo di successo è suo padre, uomo tuttora giovane e attivo.
Stephen ha un fratello. Victor, il quale non è diventato un vampiro, ma ha ugualmente subìto una misteriosa aggressione soprannaturale e adesso è in coma. Stephen vorrebbe aiutare suo fratello a tornare tra i vivi, e qualcuno gli suggerirà quale strada intraprendere. Sarà un percorso fitto di ombre, paura e magia.

Non stiamo ovviamente parlando del Doctor Strange noto ai lettori di casa Marvel, il mago supremo lanciato dalle tavole spettacolari del lisergico Steve Ditko e imparentato (non troppo alla lontana) con il Doctor Fate di casa DC. Parliamo di Young Doctor Strange, creazione della Red Whale, lo studio fumettistico che ha dato i natali a serie di culto come Monster Allergy e che di recente si è segnalata con X-Campus, rivisitazione tutta italiana dei mutanti X, uscita in volume nella collana da edicola Supereroi – Le Grandi Saghe, edita dalla Gazzetta dello Sport e dal Corriere della Sera. Nella medesima direzione si incammina il giovane dottor Strange. Un versione giovanile (e per i più giovani) dell’iconico personaggio marvelliano, in un contesto che propone un restyling drastico ma riconoscibile di tutti gli elementi del suo mondo magico.

Questo Stephen Strange è pertanto ben diverso da quello che ricordiamo, e non solo per l’età anagrafica. Il percorso del dottore originale era quello della redenzione e della trasformazione da avido professionista senza scrupoli a illuminato custode del nostro pianeta. Le motivazioni del giovane Stephen sono più semplici e hanno l’irruenza tipica del racconto che parla ai giovani. L’amore per la famiglia, la volontà temprata da prove durissime per giungere a salvare una persona cara. Romanticismo, magia, citazioni fumettistiche e letterarie, guance imberbi e acerbe lolite dagli arcani poteri. Accanto a loro, una folta schiera di spalle illustri. Così vediamo Wong, lo storico servitore di Strange, venire promosso a direttore di un’accademia dei sortilegi e mentore del protagonista. Agatha Harkness, la strega presente in tante storie dei Fantastici Quattro, qui saggia educatrice di apprendisti stregoni. Nello stesso modo vediamo sfilare, accanto agli storici comprimari come l’Antico e Karl Mordo, una quantità di personaggi legati all’area arcana dell’universo Marvel, come la strega mutante Scarlet, Fratello Voo-Doo e persino lo zombi Simon Garth.

Come accennato nella prefazione al volume firmata da Giuseppe Guidi, il rischio di un accostamento al maghetto Harry Potter (già debitore al Timothy Hunter di Neil Gaiman) era alto. Protagonista giovanissimo e scuola di magia erano elementi sufficienti a formulare il confronto. Da un certo punto di vista, Young Doctor Strange supera questo rischio e prende le distanze dal giovane mago creato da Joanna Rowling per avvicinarsi un po’ di più al mondo televisivo di Charmed, il telefilm noto in Italia con il titolo Streghe. Federico Nardo (Dolo, Sidewalk) sfoggia un tratto europeo godibilissimo e realizza una dimensione magica convincente. Francesco Artibani, come sempre, ha pieno controllo sui dialoghi e conduce il lettore fino all’ultima pagina. Purtroppo, però, stavolta non è sufficiente.

Quello che in X-Campus si era dimostrata una fresca perifrasi sugli archetipi della saga mutante, non riesce a trovare il carburante giusto nelle atmosfere soprannaturali del mondo di Strange. Forse perché il mito degli X-Men rappresentava di per sé una materia fertile per produrre un’interessante cover, mentre il mago supremo del Marvel universe, pur non mancando di interesse, prestava meno spunti a una rilettura giovanile veramente efficace. L’equazione mutanti + scuola, dopotutto, era fortemente radicata nel concetto originale. Il discorso è diverso con Doctor Strange, dove le forzature risultano più evidenti e il gioco di citazioni meno stimolante. Il panorama magico che circonda i personaggi rimanda ad archetipi del fumetto statunitense, ma nello stesso tempo non può fare a meno di ammiccare in modo evidente ai cugini italiani, causando stavolta un cortocircuito culturale che conferisce alla pietanza un sapore indecifrabile. Da notare la gag horror con cui si apre il secondo capitolo e che ricorda decisamente l’humor nero (ormai un po’ sfiatato) di Dylan Dog. Una sequenza che non lega del tutto con il tono precedente e seguente di una trama che fatica a brillare di luce propria.

Francesco Artibani controbilancia queste pecche con il mestiere che gli è proprio, e confeziona una miniserie
digeribile, ma distante dal fascino ingenuo che scaldava X-Campus. La conclusione del racconto, che vorrebbe proporsi come non convenzionale, risulta invece irritante e lascia la sensazione che la storia voglia concludersi in fretta, con un facile twist. E’ tuttavia necessario ricordare che Young Doctor Strange è stato concepito per parlare a un pubblico assai giovane, possibilmente digiuno delle gesta dello stregone adulto, e che il filtro di un’età matura, così come la conoscenza di determinate icone, può lasciare senza veli fin troppi altarini narrativi, impoverendo ulteriormente caratterizzazioni che non sono nate per essere il massimo della profondità.

Un secondo esperimento, dunque, meno riuscito del primo, di sdoganare i supereroi presso gli adolescenti italiani. E un discreto banco di prova in cui sceneggiatore e disegnatore dimostrano una volta di più i rispettivi talenti, ma che rimanda a prove future affinché possano lasciare veramente il segno.


Questa recensione è stata pubblicata anche su FantasyMagazine.


[Articolo di Filippo Messina]


lunedì 21 dicembre 2009

Supereroi - Le grandi saghe: X-Campus

I lettori italiani lo hanno atteso a lungo con curiosità. In tanti, su Facebook e sui forum, trepidavano per  vedere sbarcare nel nostro paese la versione italiana dei mutanti protagonisti di "X-Campus", la serie commissionata dalla Marvel alla Red Whale, medesimo studio cui si deve il successo storico di "Monster Allergy", sempre a opera di Francesco Artibani. Un'attesa di qualche anno terminata in un modo forse  inatteso, con la pubblicazione della miniserie nella collana da edicola "Super-Eroi – Le Grandi Saghe". Scelta bizzarra, visto che "X-Campus" è attualmente l'unico titolo inedito finora pubblicato in questa collana, risultando anche discretamente fuori asse, per tono e contenuti, rispetto alle uscite precedenti. Soprattutto considerato il target cui la miniserie è destinata.

Infatti, ci troviamo davanti a un progetto del tutto diverso e per alcuni versi più ambizioso dei primi esperimenti italici svolti dalla Marvel negli anni trascorsi. “L'Uomo Ragno: Il Segreto del Vetro” e “Devil e Capitan America: Doppia Morte”, erano stati concepiti come racconti autoconclusivi, piccoli divertissemant firmati da autori nostrani di alto profilo (Tito Faraci ai testi, Giorgio Cavazzano e Claudio Villa ai disegni). Esperimenti interessanti, ma troppo circoscritti per lasciare un'impronta profonda. "X-Campus" nasce, invece, per poter crescere. Per svilupparsi di capitolo in capitolo, presentando alla fine un'architettura elaborata le cui radici affondano in una tradizione narrativa e grafica tutta italiana. Inoltre, a differenza dei già citati Devil e Spider-Man, affidati a Faraci, Cavazzano e Villa, i giovani mutanti di "X-Campus" sono stati immaginati per parlare a un pubblico di adolescenti, che conosce la saga degli X-Men soltanto attraverso le versioni cinematografiche o che vi si accosta per la primissima volta.

Francesco Artibani è uno sceneggiatore che non ha bisogno di presentazioni. Già con “Monster Allergy” si è ritagliato la sua fetta di popolarità, dimostrando di essere uno degli autori italiani più duttili, capace di gestire con disinvoltura un linguaggio di confine, dove l’avventura per ragazzi è scandita da invenzioni non scontate. Su "X-Campus", Artibani si è giovato della collaborazione di Michele Medda (Nathan Never, Legs Weaver), che firma alcune delle sceneggiature. Il risultato è un piacevole otto volante, in cui il vecchio e il nuovo si incontrano e si intrecciano con divertimento portando in scena i personaggi più carismatici della saga mutante. Artibani e Medda rielaborano il mito degli X-Men in modo da farlo ripartire da zero, pur seminando lungo il racconto una quantità di elementi iconici che strizzano costantemente l’occhio ai fans meno giovani. Un’ambientazione scolastica, popolata da mutanti adolescenti totalmente reinventati, e anche un nuovo teatro per l’azione. Sede di questi futuri X-Men non è la famosa “Scuola per giovani dotati” del professor Xavier, ma l’istituto della fondazione Worthington, che fa capo all’abbiente padre del giovane Warren, a sua volta mutante dalle ali d’angelo.

Davvero interessante l’idea di presentare Xavier e Magnus-Magneto (da sempre contrapposti) come due
docenti dalle diverse visioni educative. Insegnante di biologia e teorico della pacifica convivenza, il primo. Insegnante di storia e cinico manipolatore il secondo. Da notare il cambiamento di Magneto rispetto alla sua figura classica. Non più ideologo della lotta armata mutante contro ogni illusione integrazionista, ma rappresentante di un’élite che in virtù dei suoi poteri aspira a formare una nuova e spregiudicata classe dirigente. Altra curiosa variazione riguarda la macchina cerca-mutanti Cerebro (qui ribattezzata Cyberno) che nelle mani di Magneto anziché di Xavier, diventa il simbolo di un famelico potere orwelliano. La contrapposizione ideologica tra Xavier e Magnus, benché rivista secondo un’ottica più schematica, è descritta in modo vivace, e le scaramucce tra i due schieramenti di studenti contrapposti scandiscono con brio il procedere della saga.  Rogue conserva l’essenza del suo personaggio, prende qualcosa in prestito dal suo corrispettivo cinematografico, e si rivela un buon testimone per lo sviluppo della storia. Divertente la caratterizzazione impacciata di Ororo (“sembra il nome di un pappagallo!”) e delizioso il pingue e geniale Hank, forse il personaggio più vicino alla sua matrice originale.

Certo, "X-Campus" è un prodotto pensato per sdoganare presso lettori giovanissimi personaggi ormai entrati nell’immaginario popolare, e alcune soluzioni di comodo forse erano commercialmente inevitabili. Wolverine, qui chiamato semplicemente Logan, risulta la figura più stereotipata del cast. Trasfigurato in un adolescente dal carattere spavaldo e incline alla rissa, il personaggio conserva gli aspetti più superficiali del suo omologo adulto, ma senza mai brillare, neanche quando sfodera gli artigli, finendo alla fine della fiera col recitare il ruolo stravisto del bullo arrogante ma eroico. Il racconto, peraltro, inciampa alle volte in passaggi poco chiari che potrebbero risultare fastidiosi per il lettore meno giovane. Risulta nebulosa l’organizzazione della scuola, che si pensa fondata appositamente per i mutanti, ma nella quale sembrano comparire a volte anche studenti ordinari, del tutto inconsapevoli dei poteri dei compagni (la scena di Rogue in palestra). Alcuni passaggi hanno una dinamica oscura (se Scott non controlla i suoi raggi ottici, perché quando sente arrivare una crisi si toglie gli occhiali che dovrebbero schermarli?) e altri possono apparire gratuiti (il segreto di Jean Grey, che finisce col banalizzare un personaggio che già esibiva un restyling molto interessante). Ma è probabile che il target predestinato, quello degli adolescenti, non patirà alcun disagio da questi piccoli nei, giacché la vicenda si sviluppa in modo frizzante, e anche se alcune battute sono di grana un po’ grossa, la lettura rimane godibile. Bella la rivisitazione dell'esordio del Fenomeno, intrigante la caratterizzazione del giovane Kurt e divertente la sottotrama legata alle Sentinelle e al diabolico Trask.

I disegnatori Denis Medri, Roberto Di Salvo, Alessandro Vitti,  Gianluca Gugliotta e Marco Failla, riescono nel compito non facile di tradurre delle notissime icone Marvel in un linguaggio grafico che possa risultare gradevole tanto al quattordicenne che al lettore scafato, e pur conservando una riconoscibilità stilistica affatto personale, producono otto capitoli piacevolmente armonici. La colorazione di Sergio Algozzino, Fabio Bonechi, Cecilia Giumento, Giovanna Niro e Davide Amici, suggella un lavoro di squadra di per sé riuscito.
In Francia, dove è stato pubblicato in modo seriale, "X-Campus" è stato premiato alla diciottesima edizione del festival Bulles en fureur come miglior fumetto per ragazzi del 2008 nella categoria preadolescenti. Il premio è stato attribuito da una giuria composta da 600 ragazzi provenienti da tutti i distretti francesi. In Inghilterra ha già avuto un’edizione in volume, e così giunge oggi anche in Italia, in un formato in realtà penalizzante per il pubblico cui si rivolge, mentre in America (altro paradosso) non ha ancora visto la luce. Voci non confermate parlano di un ulteriore edizione italiana, sempre (e inutilmente) in versione paperback. Dall'introduzione dello stesso Artibani al volume si evince che l’intero progetto abbia avuto una gestazione travagliata, con molte modifiche alla trama in corso d’opera. Nella prima versione della miniserie, l’occhio alieno della vicenda avrebbe dovuto essere il giovane Scott Summers, protagonista della storia assieme al fratello Alex. Nella versione definitiva è diventato centrale il personaggio di Rogue. E' probabile che in quegli anni, poiché nei cinema di tutto il mondo stava uscendo "X-Men 2", la Marvel abbia chiesto espressamente che la giovane mutante, centrale nel film, diventasse la protagonista della serie. Detto fatto. E non è neppure un gran male. Quel che lascia sicuramente perplessi, è la scelta di presentare "X-Campus" nella collana "Supereroi – Le Grandi Saghe", in mezzo a opere già edite e dai contenuti rivolti decisamente a un pubblico diverso. Quasi ci si volesse cavare un dente, e zittire senza troppo impegno le tante voci che da tempo chiedevano la pubblicazione italiana di questo fumetto. Un peccato non poter scoprire l’effetto che "X-Campus" potrebbe avere sul suo pubblico naturale se presentato con la giusta cadenza e nella giusta veste. Una pubblicazione in albi che segua il modello di "Monster Allergy", e possa costruire nel tempo la sua vera base di lettori.


Nel secolo trascorso, il fumetto italiano ha dimostrato di saper dire la sua e di potere arricchire di sensibilità peculiari i personaggi iconici creati da Walt Disney. I quarantenni italiani di oggi sono cresciuti leggendo le avventure di Paperino e soci scandite al ritmo di un cuore autoctono. Sarebbe bello se la Panini Comics non lasciasse bruciare un’occasione per il rilancio in chiave italiana di un franchise ormai mitico. Un mito, quello degli Uomini X, oggi anche un po’ italiano, che aspetta solo – come il giovane Warren – di poter spiegare le sue ali.

Questa recensione è stata pubblicata anche su Fantasymagazine.


[Articolo di Filippo Messina]



lunedì 14 settembre 2009

100% Marvel - Foolkiller: Il paradiso degli sciocchi

Ma siamo scemi?

Può essere pericoloso azzardare una risposta in questa sede. Allora mischiamo un po’ le carte, e formuliamo la questione in un altro modo.

I fumetti hanno qualcosa a che fare con le abitudini alimentari?

O meglio: esiste un punto di contatto tra certo mercato degli alimenti e il mondo del fumetto popolare? Meglio ancora: è lecito parlare di fumetti come di un cibo prodotto su vasta scala, cotto, assemblato e imbustato per un consumo veloce, poco nutriente e quasi sicuramente tossico?

E’ probabile che quanti tra noi risponderanno di sì rischieranno di fare la figura dei vegliardi bizzosi, e di apparire come nerd stagionati che mal digeriscono la confezione di alcuni fumetti odierni. Eppure è inevitabile come un fiotto acido che sale dallo stomaco. Urge dirlo. Ci stanno dando da mangiare la raschiatura delle padelle. La risciacquatura dei piatti sporchi come la minestra servita ai collegiali del Giornalino di Gian Burrasca. Il fast food fumettistico americano lavora ormai al minimo sindacale dell’impegno creativo. Identifica il proprio target in un pubblico sempre più giovane e dalla memoria storica cortissima, inconsapevole di vedersi servire una pietanza dal quale è stato grattato via uno spesso strato di muffa.
A lungo andare, il fegato ne risente. Il colesterolo sale alle stelle. Ci vuole tempo, ma chi ha uno stomaco già provato manifesta subito il proprio disagio con un’evidente senso di nausea.
C’è poco da fare. Bisognerebbe cambiare una dieta ormai invariata da anni.
A far da detonatore a questo ragionamento è l’apparizione nella collana “100% Marvel” della versione attualizzata del Foolkiller, in una saga intitolata per l’appunto “Il paradiso degli sciocchi”. Questo Foolkiller ha tutte le carte in regola per presentarsi come “fumetto Marvel del nuovo millennio”. Contenuti duri destinati a un pubblico che non vede l’ora di sentirsi adulto. Hard boiled, sangue, muscoli, frattaglie... Un’overdose di ormoni ed emoglobina. Di grassi, zuccheri e noia.

Foolkiller (in Italia, per un po’, lo hanno chiamato “Insanicida”) era un oscuro personaggio sfornato da Steve Gerber per la Marvel degli anni settanta e apparso come ospite in un paio di testate senza lasciare nessuna impronta significativa. Personaggio demenziale privo di vero spessore, era un vigilante folle armato di una pistola in grado di disintegrare qualunque cosa. Sfoggiava un look che lo faceva sembrare una via di mezzo tra un cow-boy e un giullare, e di solito passava il tempo a farsi sconfiggere da vigilanti dotati di maggior carisma. Fu protagonista di una miniserie personale che in Italia fu pubblicata in appendice al “Punitore” della Star Comics. Evento profetico, considerata l’attuale rilettura del personaggio. Sì, perché questo Foolkiller, protagonista di questo volume autoconclusivo, con il suo antenato ha in comune soltanto il nome. L’autore di romanzi polizieschi Gregg Hurwitz, chiamato dalla Marvel a “clonare” il cuoco Garth Ennis ai fornelli della nuova serie dedicata al Punisher, prende in mano il personaggio e...

Per quanto ancora ci faremo prendere in giro?

Penso sia capitato a tutti. Molte volte nella vita. Acquistate un prodotto qualunque. Un alimento, una bevanda o un dopobarba. A seconda del frangente e delle vostre finanze, in seguito, comprate un articolo analogo ma con una diversa etichetta, magari dal colore più sgargiante. Lo mangiate, bevete, lo usate, per poi notare senza troppi dubbi che state mangiando, bevendo, usando il medesimo prodotto già acquistato in passato. L’unica differenza sta nel marchio. Questo “Foolkiller” è un fumetto che grida da ogni pagina disegnata da Lan Medina che la Marvel, nonostante la massiccia presenza di titoli sul mercato, sta attraversando la più nera delle sue crisi creative. Né si tratta di essere irriducibili cultori dell’originalità a tutti i costi, concetto spesso sopravvalutato e continuo oggetto di malintesi. La forma è (o dovrebbe essere) tutto. Non conta il “cosa”, ma il “come”. Tutto però ha un limite. E quel limite fatale è... l’intelligenza.
“Follkiller: il paradiso degli sciocchi” fa l’effetto di un pacco di patatine industriali che esibisce sulla busta lo strillo “Più croccanti! Più gustose! Più tutto!”. Ma ha il sapore di una minestra non solo riscaldata, ma andata a male. Latita qualsiasi vero sforzo di svecchiare caratteri e situazioni ormai consumate. Vige soltanto il riciclaggio e quegli ingredienti sospetti che, come i fantomatici “grassi naturali” ammiccano sulla confezione di ogni cibo spazzatura.
Mary Shelley, nella prefazione al suo “Frankestein” scriveva:
“L'invenzione, bisogna ammetterlo con umiltà, non consiste nel creare dal nulla, ma dal caos. Prima di tutto si deve trovare il materiale; noi possiamo dar forma a una sostanza oscura e inerte, ma non possiamo creare la sostanza stessa.”
Citare l’autrice di Frankenstein, in questo caso, viene quasi naturale. Tanto più che ci troviamo in presenza di un mostro. O per essere più precisi, di uno sgorbio. Adesso lo sappiamo. I “giustizieri della notte” sono le chips del fumetto. Manichini fatti in serie, buoni per un videogame davanti al quale spegnere il cervello. Non che in questo ci sia niente di male, purché ci si ricordi di premere il tasto ON una volta terminato.

Follkiller potrebbe chiamarsi come vuole. Mascherarsi come vuole e scegliere l’arma che preferisce. Ma è chiaro per tutti che non è Foolkiller, ma “Punisher”. Il solito, noto, frusto vigilante. Per di più con la medesima silhouette, la stessa rabbia psicotica, e l’ormai consueto, tedioso corredo di sangue e sadismo che ha reso popolari (ma alla lunga anche stucchevoli) autori come Garth Ennis e Mark Millar. Unica differenza (?) è la scelta delle armi bianche. Al kalashnikov si sostituisce la spada. Bello, eh? Per quanto le pallottole possano fracassare, perforare, maciullare, volete mettere una lama che va su e giù con tanto di carosello sanguinolento? E via con mutilazioni spettacolari, sbudellamenti, arti tritati, in una monotonia cromatica che più rossa non si può. La noia trionfa in un racconto noir traboccante di stereotipi malamente inanellati sullo spiedino, dove la violenza genera sbadigli nella sua decerebrata prevedibilità. La lettura è talmente ingenua che il marchio sulla copertina “Riservato a lettori maturi” fa persino un po’ ridere. “Riservato a lettori diciottenni assetati di sangue” suonerebbe magari più onesto.


Questa recensione è stata pubblicata anche su FumettidiCarta.


 
[Articolo di Filippo Messina]
 
 

lunedì 16 marzo 2009

100% Marvel - The Twelve volume 1

Mentre ancora si parla del film di Zack Snyder tratto da Watchmen, alternando critiche e lodi a seconda della visione personale, possiamo fare un passo indietro, tornare a percorrere la strada dell’originale versione cartacea, parlare di fumetti (e solo quelli) per dire che... è ufficiale. Watchmen non è più soltanto un capolavoro del fumetto moderno. Watchmen, ormai, è un archetipo. O se preferiamo, un mito moderno, cui è possibile attingere per plasmare ulteriori versioni del medesimo tema. Si provi a pensare all’Odissea, a Romeo e Giulietta, al Ciclo Bretone. Quante volte la poesia, il teatro, il cinema, hanno raccolto elementi di queste opere per raccontare una propria storia, magari attraverso la lente di sensibilità difformi da quella dell’artista originale? L’esito (e la responsabilità) di dette varianti, è nelle mani degli autori successivi che si misurano con questa titanica impresa. Nella fattispecie di J.M. Straczynski, già autore televisivo (Babylon 5) e fumettistico (L'Uomo Ragno, Supreme Power, Rising Stars), che sebbene (pare) abbia dichiarato di non prendere le mosse dall’opera fondamentale di Alan Moore, la cita numerose volte, con personaggi e situazioni, nel primo volume della miniserie The Twelve, pubblicata nella collana 100% Marvel.
Una sorpresa piacevolissima, che potrebbe (se il volume successivo manterrà le premesse) mettere davvero la parola fine al concetto di supereroe revisionista, adulto e disincantato.
Straczynski attinge ai personaggi della Golden Age Marvel (figli di un tempo in cui la celebre casa editrice ancora si chiamava Timely) e li presenta al pubblico moderno utilizzando lo stesso espediente narrativo reso celebre da Stan Lee sul personaggio di Capitan America. Verso la fine della seconda guerra mondiale, un manipolo di eroi in costume cade in una trappola nazista che li fa piombare in uno stato di animazione sospesa, e vengono dimenticati per decenni fino a quando un caso fortuito non li riporta alla luce ai giorni nostri. Fin qui niente di nuovo. Ma se Lee aveva usato questo escamotage semplicemente per traghettare Capitan America negli anni 60 senza farlo invecchiare di un giorno, qui l’evento letargo-risveglio assume un tono più tragico e profondamente metaforico. Straczynski sembra dirci che il concetto stesso di eroe con superpoteri, o anche solo eroe in tuta è ormai irrimediabilmente datato. Il supereroe è un naufrago, il superstite confuso di un mondo che non esiste più. La morale che conosceva si è evoluta, i costumi modificati, e il suo stesso ruolo nella società attuale è ambiguo. Se un tempo, prima e durante il conflitto mondiale, il confine tra bene e male era ingenuamente definito, oggi lo scenario è molto diverso. Ed è un terreno impervio anche per questi dodici esseri potentissimi. Senza più una casa, senza affetti e paradossalmente senza prospettive. Qualcuno di loro si getta a capofitto nel lavoro che ha sempre svolto, ma deve presto scontrarsi con una realtà quotidiana che non è preparato a comprendere. Chi un tempo poteva fregiarsi dell’appellativo di eroe, mutato il contesto storico è messo di fronte ai propri errori passati. Scelte infelici che macchieranno per sempre lo scintillante manto dell’eroe. Struggente e bellissima la rilettura che Straczynski fa dei personaggi mitologici del mondo dei supereroi, con palesi rimandi a icone come Sub-Mariner e il dio Thor. Pirandelliano nella sua tristezza il ritratto del principe perduto. Delicata e amara metafora fiabesca di rara potenza in un fumetto di supereroi.


Il sottile riferimento a Watchmen consiste nella morte violenta (e ancora misteriosa) di uno dei dodici eroi emersi dal passato. Nel destino crudele del più irruente tra loro, e nel clima crepuscolare, sottrattivo, commentato da chi, tra loro, riscopre il proprio vecchio ruolo di giornalista.
Il disegnatore Chris Weston (visto su The Filth) dà veramente il meglio di sé in questa miniserie consigliabile a tutti coloro che amano i supereroi, ma si sentono insoddisfatti dalle attuali proposte targate Marvel. Ma anche a chi ha sempre snobbato i supereroi come genere, ritenendoli figli di un tempo ormai trascorso. The Twelve potrebbe essere la chiave giusta per una rivalutazione. I supereroi sono fuori tempo massimo. E lo sanno. La domanda è: saranno ancora eroi? O meglio: lo sono mai stati veramente?
Una cosa è sicura. A dispetto di ogni battaglia spettacolare, crisi infinite e farraginose invasioni aliene, queste dodici anime perdute hanno ancora qualcosa da raccontare.


Questa recensione è stata pubblicata anche su Fantasymagazine.

[Articolo di Filippo Messina]