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giovedì 27 settembre 2018

Biblioteca SRA: habemus MAFALDA

«Con tanti mondi più evoluti... sono dovuta nascere proprio in questo?!»
"MAFALDA - Tutte le strisce" dal genio di Quino, edito da Salani. Un bellissimo dono per la Biblioteca Salvatore Rizzuto Adelfio. Grazie al vostro sostegno cresce anche la sezione historieta, dedicata all'importantissimo fumetto argentino. Mafalda, un pezzo di storia, un simbolo, un gioiello della nona arte. Un volume di 645 pagine che ne documentano la lunga avventura tra ironia e impegno sociale. Non poteva mancare in uno spazio per la condivisione gratuita del fumetto a Palermo. Grazie a tutti quelli che donano.

martedì 25 settembre 2018

Biblioteca Salvatore Rizzuto Adelfio: Nuovo Logo


Diamo il benvenuto al nuovo, bellissimo logo della Biblioteca Salvatore Rizzuto Adelfio realizzato dall'amico Marco Castagna (che ringraziamo). Per partire con i lavori, avevamo utilizzato un vecchio lavoro di Marco, sempre un ritratto vettoriale di Salvatore. Ma oggi, abbiamo un'immagine pensata appositamente per riassumere i sogni, l'allegria e la fumettosità del nostro mentore e faro culturale. Potremmo dire, la scelta più giusta per una biblioteca dedicata soprattutto ai fumetti, e contigua a culture alternative. Che sia di buono auspicio per questa nuova stagione di lavori, durante la quale il patrimonio fumettistico e librario sta crescendo grazie a generose donazioni. A presto.

giovedì 13 settembre 2018

A volte ritornano (a Palermo): "I LOVE MILINGO" RETURNS



I LOVE MILINGO. A volte ritornano. Beh, quasi. Ma sì, ritornano. Perché come scrive Thomas Mann, anche se il titolo è passato a qualcun altro "Faraone è sempre Faraone". E in questo caso, il Papa è sempre il Papa. Quindi sì. Ritorna a Palermo. E di nuovo ci troviamo in uno stato di semiassedio per la venuta dell'ospite illustre. Non posso sapere se ci saranno contestazioni, tentazioni di satireggiare, e se verranno messe a tacere come in quelnon troppo lontano 2010. Certo che è impossibile non ricordare quanto accaduto nella nostra libreria in corso Vittorio Emanuele. Quando ospitavamo la mostra "La Papamobile del futuro" (aimé, c'erano anche opere di Vincino esposte), organizzata dal collettivo Scomunicazione. Quel famigerato striscione appeso all'interno della vetrina di Altroquando, quel "I Love Milingo" che attirò l'attenzione delle forze dell'ordine, era parte integrante della mostra allestita all'interno della nostra bottega. In seguito all'irruzione della polizia (che ricordiamo, fu filmata da Salvatore Rizzuto Adelfio e subito resa pubblica in rete) le polemiche fioccarono. La frase "I Love Milingo" dirà pure poco. Non brillerà per arguzia, ma sintetizzava un semplicissimo "Io non ci sto". E tanto bastò a suscitare una repressione. "Io non ci sto... I Love Milingo. Uno slogan inventato lì per lì. Una rivendicazione al diritto di dissenso da parte di un gruppo di persone che non si riconoscevano in una città agghindata come un presepe, prona e adorante nei confronti del capo di stato straniero. Un dissenso innocente che evidentemente non trovava posto nella visione di chi dirigeva i lavori. L'intervento della polizia nella nostra libreria non fu fisicamente violento, ma le intimidazioni non mancarono (ci fu anche chi afferrò fisicamente i lavori esposti per la mostra con l'intenzione di smontare tutto e proferì minacce molto gravi quando ci mettemmo in mezzo). Il dissenso non doveva esserci, Palermo era cattolica e plaudente. E così doveva apparire.
Oggi, che il Papa torna a visitarci, forse è il caso di ricordare questi episodi. E confrontarci con un passato che rischia di essere presente e futuro. I LOVE MILINGO. Aldilà della storia del vero Milingo, al di là dell'uso tamarro della lingua inglese con tanto di cuoricino. Ricordiamo anche che non troppo lontano da noi, una famiglia aveva appeso un altro striscione. E quello riportava una frase del Vangelo: «La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti? Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri!». Bene, fu prontamente rimosso anche quello con le medesime motivazioni.
Benvenuto, dunque, Papa Francesco. E anche se dubito molto che tu abbia voce in capitolo su questo genere di eventi, spero che stavolta si conservi rispetto e tutela per la libertà anche di chi dissente. Di chi spera in altro. Perché, vedi, nella nostra Palermo ormai è storia. E I LOVE MILINGO, oggi significa questo. Io non ci sto. Non ci sto a sentirmi ostaggio a casa mia.


mercoledì 12 settembre 2018

Rain Bus


Viaggiavamo su un autobus, discretamente affollato. Non che ci volesse molto. Era una di quelle vetture piccole, che danno l'idea di essere una specie di taxi allargato. Saremo stati una ventina di persone tra quelle in piedi e i passeggeri seduti. La vettura era vecchia e si vedeva. Non brillava certo per il suo lindore, e i segni del tempo non potevano essere ignorati. Il problema più serio lo dava il tetto del bus. Sfondato al punto di essere praticamente assente. Una vettura scoperchiata, un rudere prossimo alla rottamazione che nonostante tutto marciava e sembrava risoluto a fare il suo dovere fino in fondo. La pioggia battente era il vero dramma. Torrenziale, invasiva. Tanto che avrebbe potuto allagare il bus, se qualcuno non avesse pensato di incastrare un grande ombrello in quella volta sfondata che un tempo era stata il tetto della vettura. Un ombrello davvero grande. Insolito nel suo provvidenziale gigantismo, di colore giallino chiaro che lasciava intuire in trasparenza i colpi delle intemperie. La pioggia lo martellava duramente, ma noi eravamo al sicuro. Lo scroscio accompagnava il cammino del bus fermata dopo fermata, le rade gocce d'acqua che sfuggivano non erano sufficienti a incrinare la regolarità del viaggio. Dal canto mio, sapevo di dover scendere alla penultima fermata e ringraziavo la sorte per la presenza di quella sia pure raffazzonata protezione. Raggiungemmo infine la periferia. La vettura si fermò appena dopo l'incrocio e aprì le bussole per lasciare scendere chi era giunto a destinazione. Fu in quel momento che una signora di mezza età, bionda e dall'aria giuliva, agguantò il manico dell'ombrello. Lo chiuse con un gesto rapido sfilandolo dal telaio della vettura e scese dal bus sorridendo. Improvvisamente flagellati dalla pioggia furiosa, i passeggeri ancora in viaggio iniziarono a imprecare. Lo stesso autista s'era quasi piegato in due, curvo sul volante per sopportare il peso di quella scarica d'acqua cui non poteva sottrarsi a causa della sua incombenza lavorativa. Presto il bus prese ad allagarsi mentre i passeggeri in tumulto cozzavano vocianti l'uno contro l'altro. Una voce tentò invano di essere accomodante. «Che volete farci? L'ombrello era suo. Doveva scendere e basta.» Zuppo come un pulcino, mi rivolsi all'autista per chiedergli di avvisarmi quando ci saremmo avvicinati alla penultima fermata del tragitto. Il povero diavolo, fradicio a sua volta, annuì stillando acqua dai capelli mentre le dita livide stringevano il volante come il collo di una vittima che avrebbe amato strangolare. Il vecchio piccolo bus continuò il suo viaggio nella pioggia. Ecco i sogni che faccio. Ecco cosa succede ad addormentarsi ascoltando suoni ASMR con la pioggia.

martedì 11 settembre 2018

Conferenza al Palermo Comic Convention 2018 - Questa l'abbiamo già sentita!


Terrestri, il 14 Settembre prossimo sarò ospite del Palermo Comic Convention 2018. Sarò in giro per tutta la durata della fiera (che ha luogo dal 14 al 16), ma il primo giorno terrò una conferenza intitolata "Questa l'abbiamo già sentita!". Un'occasione per parlare di alcune delle più evidenti citazioni, imitazioni e in qualche caso spudorati plagi che il mondo del fumetto ha prodotto nel corso della sua lunga storia. Un duello durato molti anni soprattutto tra Marvel e DC, che insieme hanno prodotto una quantità di figli... bastardi e no. Potrete venire a trovarmi nell'area New Media alle ore 15:30 il prossimo 14 Settembre.

domenica 9 settembre 2018

Avere... quanti anni? Diciamo l'ergastolo e non se ne parli più!


Andando avanti con gli anni, mi convinco sempre di più che sono soprattutto i giovani a sentirsi "vecchi".
Forse sono fortunato, e soffro (per modo di dire) di una sorta di sindrome alla Benjamin Button. Sono nato con la testa di un vecchio amareggiato, e crescendo vado diventando un giovanotto appassionato e desideroso di mettersi in discussione. Certo, solo al livello psicologico, ma non si può avere tutto. Ascoltare giovani che pensano di essere entrati nella senilità a trent'anni, da un lato mi fa sorridere, da un altro mi irrita. Poi ci sono gli aspetti (seri) della società e quelli (in progress) che riguardano il mondo della comunicazione. Sulla piattaforma Youtube ho solo cinque anni, e periodicamente mi sento dire (o direttamente, dal piscialetto di turno, o indirettamente, da trentenni che stanno solo scegliendo strade diverse) che persone della mia età in quell'ambito appaiono soltanto patetiche. Che sono visti come dei poveri mentecatti e che inesorabilmente la mancanza di numeri sottrarrà loro l'ossigeno (sempre questi benedetti numeri che si direbbero essere il Baal dei millenials e che se restano sotto una certa soglia, sembrano pesare più di una scomunica).

Trovo questo atteggiamento decisamente miope e tristemente discriminatorio, soprattutto se arriva da chi ha studiato. Parliamoci chiaro, nel mio piccolo sono stato fortunatissimo. Oggi ho tanti amici giovani che mi coinvolgono nelle loro iniziative, che mi fanno sentire rispettato e dimostrano di avere piacere della mia compagnia. Io non modello il mio linguaggio pensando a un target preciso. Me ne infischio, faccio quello che mi pare. Parlo a chi ha piacere di ascoltarmi e amen. Come tanti recito lo stesso mantra. Non lo faccio per soldi (quali?), non lo faccio per lavoro (magari!). Non dico neanche di farlo "per passione", anche se ci starebbe. Lo faccio solo perché mi va. Perché la mia storia personale mi ci ha condotto, perché è una finestra attraverso la quale lanciare messaggi per sostenere altre iniziative nel mondo reale. Lo faccio anche perché sogno un mondo dove certi confini non esistano più. Dove il confronto tra generazioni non sia limitato da tabù ingombranti, e dove chiunque possa sentirsi accolto in un ambito comune e valutato in base ai suoi meriti. Non al suo genere, non alla sua età e chi più ne ha più ne metta. Non accetto di vivere in un mondo a "La fuga di Logan" che pone un limite burocratico (anche se solo virtuale) alle aspettative di vita e a ciò che si può fare. Anche questa è una forma di segregazione, di discriminazione, e in quanto tale va rifiutata e confutata. Per questo ringrazio chi accoglie in rete le persone un po' mature come me, ascoltandole, magari apprezzandole. E invito a una maggiore delicatezza, anzi, una maggiore ponderatezza tutti quei giovani che arrivati a una certa soglia non riescono semplicemente... a tacere su qualcosa che evidentemente non hanno ancora sperimentato. Perché esiste anche questo, e nessun dottorato ce lo può insegnare. A volte a crescere non è tanto la nostra età anagrafica. Più che altro è il nostro ego. E quello è un animale difficile da addomesticare. Riflettiamo su questo.

Lake Mungo



In queste sere di fine Estate, mentre il caldo, mio grande nemico, continua a posticipare la sua ritirata, sono tornato a dedicarmi a una delle mie passioni più inveterate: la visione di film horror, possibilmente scelti tra titoli poco noti e potenzialmente portatori di sorprese.

Eccomi dunque affrontare la visione di “Lake Mungo”, film australiano del 2008, inedito in Italia, ma del quale avevo sentito parlare solo bene. Il film è un mockumentary, cioè un falso documentario. Non un found footage, non un Pov. Siamo lontani dal concetto dei filmati amatoriali ritrovati per caso che narrano un'esperienza in prima persona secondo il modello di “The Blair Witch Project”. Qui siamo in presenza di un finto documentario fatto e finito. Composto da interviste, filmati di repertorio, vecchie foto, testimonianze, e – inevitabilmente, sì – anche qualche video amatoriale dalle immagini traballanti. La cornice potrebbe essere quella di un programma ascrivibile al giornalismo-spettacolo, ma senza la presenza di un anchor-man in video. “Lake Mungo” non esce mai dagli argini formali che si è imposto, e il suo ritmo è dilatato, costruendo il racconto di una testimonianza alla volta, una scoperta alla volta. La storia è innescata dalla morte improvvisa di un'adolescente, Alice Palmer, che annega in un lago durante una gita con la famiglia. Già, di cognome fa Palmer. E il suo nome non può che far pensare a una citazione d'autore, e infatti è così. Tutto parte come un dramma familiare canonico, ma mentre genitori e fratello minore, affrontano il difficile cammino del lutto, in casa si comincia ad avvertire qualcosa di strano. Una presenza. Iniziano gli incubi. Gli improvvisi avvistamenti. E a un certo punto qualcosa si manifesta in foto e filmati...


Credo che “Lake Mungo” sia la più bella e terribile ghost story degli ultimi vent'anni. Un film che parte da un presupposto che più classico non si può per virare improvvisamente (con inattese sterzate da mal di mare) in territori che non ci si aspetta. In apparenza un piccolo film, tra l'altro abbastanza statico per lo stile documentaristico che adotta. Una narrazione fatta di parole, senza sangue né salti sulla sedia. Eppure, a visione completata, quando tutti i pezzi del puzzle sono andati al loro posto, ci si accorge di essere rimasti profondamente turbati. Lake Mungo” è davvero una strana creatura cinematografica. E' un dramma ed è un horror (ma anche un thriller psicologico) che alterna la marcia tra questi due generi mutando registro più volte. E' un film sul lutto, e sulle consolazioni che il paranormale in qualche caso potrebbe offrire. Ma è anche un formidabile esercizio di regia, che ammirato nella sua completezza si dimostra perturbante come poche altre pellicole. Una storia sul rapporto tra vivi e morti che nel finale (fortemente metaforico) comunica, insieme a una profonda inquietudine, una sensazione di tristezza devastante. Gli ultimi secondi di film, con le loro rivelazioni, inducono a riguardare alcune scene alla luce di una nuova consapevolezza. E notare quello che a una prima occhiata non si era visto, distratti da una regia maliziosa, fa davvero gelare il sangue. Se non fosse che a quel punto, a film finito, non si sa più se avere paura o piangere.



Il concetto di fantasma, inteso come archetipo del terrore, è da ricondurre sostanzialmente alla domanda “cosa c'è dopo la morte?”. La paura di incontrare qualcuno di trapassato, anche se un proprio caro, è quella di trovarsi in presenza di un gancio con l'aldilà. Qualcuno che in teoria potrebbe portarci con lui oltre quella soglia sconosciuta. La paura dei fantasmi è in realtà paura della morte stessa. E in “Lake Mungo” questo concetto viene ulteriormente affermato, con un twist agghiacciante e nello stesso tempo disperato che lascia lo spettatore con ulteriori domande sulla tragica morte di Alice.

E' anche un dramma sulla comunicazione tra familiari. Meglio, sulla difficoltà (o impossibilità) di comunicare e sulle sue nefaste conseguenze. Un dramma sulla solitudine dei vivi quanto dei morti, tra i quali potrebbe, in un certo senso, non esserci troppa differenza.

Lake Mungo” è un film bellissimo e strano. Sicuramente poco commerciale e di fruizione non facile per un pubblico generalista. Il fan horror di ultima generazione potrebbe non riuscire ad arrivare a metà pellicola, liquidandola come noiosa e priva di mordente. Sarebbe un gravissimo errore. Perché pochi film, sia pure solo dopo che i titoli di coda sono terminati, lasciano una tale sensazione di smarrimento. Se parliamo di orrore, orrore del quotidiano, orrore del vivere (e del morire), “Lake Mungo” è di sicuro un piccolo capolavoro.



venerdì 31 agosto 2018

Le cose che tornano (Altroquando e la Biblioteca SRA)



 «Mia mamma diceva sempre che le cose che perdiamo trovano sempre il modo di tornare da noi... Anche se non sempre come noi ce l'aspettiamo.»


Così dice Luna Lovegood a Harry Potter. E a volte... E' VERO. Cose perdute, per sfortuna, per scelte sbagliate, per cause incontrollabili, possono ritornare da noi. Una quantità di fumetti per una ragione o per l'altra persi per strada, stanno lentamente tornando. Una grossa donazione da parte di un vecchio amico di Salvatore Rizzuto Adelfio (che oggi dà il nome alla biblioteca in cui la sua libreria, Altroquando, si propone di reincarnarsi) ha riportato a casa una gran quantità di titoli. I primi 200 numeri di Nathan Never, speciali compresi. Collezioni di Julya, Magico Vento. Miniserie complete come VoltoNascosto, Demian. Ken Parker. I primi, mitici speciali di Dylan Dog. Lazarus Ledd, la serie completa originale di Cybersix e tante riviste antologiche d'autore. 



Molti di questi fumetti erano stati acquistati da Altroquando. Tanti conservano ancora la storica busta con il nostro timbro di famiglia. Non possiamo che essere grati a quanti, dimostrando una vera amicizia, hanno scelto di far tornare a casa questi titoli. La nostra iniziativa di uno spazio per condividere gratuitamente il fumetto a Palermo continua a crescere. E noi siamo entusiasti e grati. 




Per sostenere la biblioteca autogestita potete donare libri e fumetti (contattateci alla mail altroquandopalermo@gmail.com) o fare una piccola donazione monetaria sul nostro conto Paypal: http://paypal.me/altroquandopalermo
Ma potete anche scegliere un titolo dalla nostra lista dei desideri su Amazon (http://amzn.eu/5qHcH99e farlo pervenire alla nostra associazione. Grazie a tutti per l'affetto e la solidarietà che dimostrate. Ci sarà sempre un Altroquando.









sabato 11 agosto 2018

Riscoprire "52"

 

Ho appena finito di rileggere "52", la saga settimanale che copre le 52 settimane seguenti all'evento DC "Crisi Infinita", e che sostanzialmente reintroduce il concetto di multiverso (cancellato anni prima da "Crisi nelle Terre Infinite"). Pubblicato nel 2006, scritta da Geoff Johns, Mark Waid, Grant Morrison, Greg Rucka e Keith Giffen, "52" illustrava l'anno del cosmo DC durante il quale i personaggi fondamentali di Superman, Batman e Wonder Woman erano scomparsi. I protagonisti, infatti, sono le retroguardie dell'universo narrativo, personaggi secondari o addirittura marginali, alcuni dei quali ripescati dal dimenticatoio editoriale. Un'operazione bizzarra, che si dipana come un grande feuilleton fitto di enigmi ben congegnati, in cui villains storici acquistano un definitivo spessore (soprattutto Black Adam) e nuovi eroi ricevono la loro consacrazione (la nuova Question e la nuova Batwoman). Un dipanarsi di trame e sottotrame intricate, complotti complessi, risvolti fantapolitici e squarci di space opera. Un mistery dove spionaggio e soprannaturale si mischiano, seguendo il cammino del detetive Ralph Dibny (l'ex Elongated Man) che cerca un modo per riportare in vita la moglie defunta, mentre il signore del tempo Rip Hunter (anche lui scomparso) muove dietro le quinte le fila di una machiavellica resistenza. Un storia supereroistica dedicata ai comprimari che è anche un ottima occasione per i neofiti di studiare un compendio di storia DC, e imparare ad amarla. In fondo, un gran bel lavoro nella sua particolarità. Peccato sia difficile recuperare tutti e 52 gli albetti (uno per settimana) che compongono la saga. Ma una ricerca che vale la pena di fare per chi non ha avuto occasione di leggerla.


mercoledì 1 agosto 2018

Hereditary


Ossessione. Infestazione. Possessione.
Visto “Hereditary” di Ari Aster. Film horror che divide il pubblico. Chi lo esalta, chi lo boccia senza appello. E tutto sommato un motivo c'è.

“Hereditary” è un'opera ambiziosa, volta a essere un horror d'autore. Ari Aster, regista giovanissimo al suo esordio, dimostra di non essere un velleitario qualunque, e di possedere delle felici intuizioni visive. Il problema è la confezione generale, la cesura quasi netta che sembra dividere il film in due blocchi narrativi collegati ma sotto certi aspetti non omogenei. Cosa che porta alla nascita di una creatura attraente, ma claudicante. Gioca la sua parte anche un'eccessiva caduta di stile nel finale, in cui la volontà di concludere in fretta sembra mostrare il conto a una regia interessante che giunta a quel traguardo ha però esaurito le cartucce, e si adagia in un manierismo che dopo tanta atmosfera risulta tanto più fastidioso. Parecchio fastidioso. Lacuna ancora più grave quanto tutta la prima parte del film è stata affascinante, sprecando in sostanza un buon potenziale e presentando in definitiva un'opera non del tutto compiuta.


Questo non rende “Hereditary” un film da buttare. Ricordiamoci, soprattutto, che ci troviamo di fronte a un'opera prima. E ad averne. Il giudizio si colloca in una posizione intermedia, una materia potenzialmente buona, una regia suggestiva e soprattutto un ottimo comparto attoriale guidato da una Toni Collette al suo meglio. Se non fosse per quello scotto pagato a una conclusione che se scritta con maggiore cura, se fosse stata più suggerita e meno declamata, magari avrebbe reso di più e conservato la solidità della prima ora. Diciamolo. “Hereditary”, come molti altri film di genere, echeggia spunti già visti, e in questo non c'è niente di insolito né di male. Nella fattispecie, a me ha ricordato “Darkness”, film spagnolo di Jaume Balaguerò del 2002, che presenta più di un dettaglio in comune con la narrazione di base del film di Aster. Dal mio punto di vista, il confronto tra questi due horror è curioso. Infatti, se in “Darkness” la rivelazione dell'intrigo soprannaturale e delle sue dinamiche aveva una sua efficacia drammatica, mostrata più che spiegata, “Hereditary” pecca proprio in questo, ma risulta (sempre a mio parere) più riuscito del film di Balaguerò dal punto di vista del ritmo e del crescendo preparatorio, laddove “Darkness” girava a vuoto senza seminare le suggestioni malate che invece nel film di Aster abbondano.


“Hereditary” si affida molto ai dialoghi, anche quelli che sono apparentemente relegati a rumore di fondo, per suggerire significati e dare un senso a quanto vedremo accadere sullo schermo. I vari riferimenti mitologici, uno scambio di battute tra madre e figlia, il ricordo di tragedie passate. Il racconto di spavento fa leva sulla memoria e sull'attenzione per il dettaglio dello spettatore. Se si guarda a questi elementi con occhio distratto, il film perderà un'altra ampia porzione della sua ragion d'essere. Come dicevo all'inizio, è un'opera ambiziosa che fallisce sul lungo tragitto, ma che è apprezzabile per le buone intenzioni e non lascia del tutto indifferenti. Al contrario, fornisce sequenze e situazioni che generano autentico raccapriccio (in senso emotivo, non come shock visivo, in ogni caso molto ridotto). I rapporti di causa e di effetto, le scelte dei personaggi (che quasi sempre finiscono col produrre un risultato opposto a quello che si proponevano di ottenere) esprimono un sottotesto fatalista e claustrofobico (reso benissimo dalla sovrapposizione con l'arte artigianale cui si dedica la protagonista, che realizza miniature in scala dei momenti cardine nella vita della propria famiglia) trovano la loro ragion d'essere in una verità angosciante espressa chiaramente sin dalle prime battute del film. Per questo “Hereditary”, nonostante l'intrusione non sempre ben gestita del tema demoniaco, potrebbe essere interpretato come la metafora di una malattia ereditaria. Ineluttabile, immeritata, e contro il cui decorso è vano ribellarsi. Un dna malato il cui destino è già stato scritto.


La regia di Aster sceglie un ritmo lento ma scandito, e alcune scelte visive sono realmente inquietanti. Compresa la scelta del volto particolare di Milly Shapiro (cinicamente mi ha fatto ripensare all'uso fatto da Wes Craven dell'attore Michael Berryman in “Le colline hanno gli occhi”), vera e propria maschera del film in un ruolo che non si dimentica.
Poi arriva la parte finale. La corsa (eccessiva) alle rivelazioni, e la scelta di espedienti fin troppo dozzinali per svelare un background che per tutta la prima parte è stato latitante. I riferimenti a “Rosemary's Baby” sono evidenti, ma se il film di Roman Polansky sin dal principio era generoso di indizi che lentamente formavano un mosaico d'angoscia, “Hereditary” si affida a poche sequenze che veramente non reggono per immaturità e faciloneria il confronto con le intuizioni drammatiche del primo tempo. Si legge in rete che in alcune sale il pubblico risponde ridendo a determinate scene. Ci può anche stare, ma lascia il tempo che trova. Al di là della fretta di determinate soluzioni, e quindi alla loro goffaggine, sono abituato a sentire la gente ridere in sala di tutto senza distinzione. Quando è giustificato e anche quando non lo è. Ricordo di aver sentito la platea ridere davanti al cadavere congelato di Leonardo Di Caprio nel finale di “Titanic”, pertanto non do alcun peso a questo fenomeno di massa.

In definitiva, “Hereditary” è un film che gli appassionati di horror dovrebbero vedere con molta attenzione. Giusto per coglierne gli spunti migliori separandoli da quelli palesemente malriusciti, valutando lo stile di alcune variazioni su un tema già affrontato in passato. Non mi sento di condannare l'intero film nel suo complesso, la valutazione si colloca nel mezzo. Come un lavoro che dimostra un potenziale che però dovrà forse esprimersi e confermarsi in produzioni future.
Del resto, l'eredità cinematografica di Ari Aster non era agevole. Bacchettate sulle mani per la chiusura del film, e rimandato a Settembre per portare a compimento tutto quello che di buono ha lasciato intravedere.