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giovedì 16 settembre 2021

DUNE di Denis Villeneuve: impressioni a caldo



 Dune. Detto così com'è scritto D-U-N-E.

Allora, per cominciare, la domanda di rito. E cioè: ti è piaciuto?
In verità sì.
Magari non mi ha entusiasmato particolarmente (ma io sono un pezzo di ghiaccio, quindi questo non conta), con qualche piccola riserva. Nel complesso, però, l'ho apprezzato. E devo anche dire che ero discretamente prevenuto.
Prevenuto per via della monumentalità del testo che prova a trasporre (e che amo). Prevenuto perché la lettura di alcune recensioni di chi l'aveva visto in anteprima avevano iniziato a confermare i miei timori. Cioè di trovarmi davanti a un prodotto ben confezionato, ma pretenzioso e sterile.
Dopo averlo visto non penso sia così. "Dune" di Denis Villeneuve è sicuramente un film ambizioso. Così come è anche un film imperfetto, che punta in alto e non centra tutti i bersagli che si propone. E' un film d'autore, e preso nel modo giusto anche un bel film d'avventura. Inoltre, sono sicuro che sarà un film che dividerà il pubblico.
Non ho riscontrato le lentezze estreme e opprimenti rilevati da altri. Ho seguito il film in modo abbastanza agevole. Forse perché mi annoiano altre cose. Magari prodotti che pretendono di essere fin troppo leggeri e spumeggianti, e mi soffocano proprio per questo.
C'è da dire, comunque, che parlo da fan. Appassionato della saga letteraria, che conosce i personaggi, gli snodi della trama ed è pronto a colmare i buchi e i dettagli appena accennati. Non saprei dire come sarà accolto il film da chi dell'opera di Frank Herbert non sa nulla. Sarà interessante scoprirlo.
Per concludere, dopo essere uscito dalla sala, l'idea di spezzare i primo romanzo (il migliore della saga, anche perché fruibile a se stante) in più capitoli non mi sembra più una cosa tanto barbara. In fondo è stato fatto più volte con altre opere. Quello che conta è la resa. Quindi perché non Dune?
A questo punto, spero solo che Villeneuve abbia la possibilità di completare l'arazzo narrativo. L'ipotesi contraria sarebbe un vero peccato.

sabato 17 aprile 2021

Antebellum

 

Siete tra quelli cui piace il "politicamente scorretto"? Che pensano sia figo?

Ok. "Antebellum", allora, è il film che fa per voi. Dico questo perché il film, opera prima del duo di registi Gerard Bush e Christopher Renz, picchia durissimo ed è politically incorrect dall'inizio alla fine. Non solo. Lo è nel modo giusto. Quello che piace a me. Quando questa visione si applica alle categorie privilegiate, forti, e non a quelle diseredate e messe in un angolo dalla storia. E' scorretto anche nel portare in scena le dinamiche del contrappasso, nel rifiutare soluzioni concilianti e nel suggerire soltanto paura e rabbia. Le etichette di genere che accompagnano "Antebellum" sono tre. "Drammatico", "Thriller" e "Orrore". Credo di potere affermare che sono tutte e tre veritiere. Il film di Bush e Renz passa da un genere all'altro senza che quasi ce ne rendiamo conto, e lo fa assestando calci nello stomaco mica da ridere. Il punto è che "Antebellum" è uno di quei film di cui non è possibile parlare veramente senza sciupare tutto. Sarebbero sufficienti quattro parole in fila per guastare l'esperienza immersiva e ansiogena che si propone. Insomma, è uno di quei film che sarebbe meglio vedere senza sapere nulla della trama. Magari anche niente dello scenario, in modo da affrontarlo e lasciarsi travolgere dai suoi sottotesti nel modo più neutro possibile. Anche se l'esperienza, se siete sensibili, può essere dura. E' stato scritto anche che il film soffre, forse, di una cifra stilistica fin troppo estetizzante. Elemento che potrebbe impoverire la forza viscerale di alcune tra le scene più disturbanti. Può darsi. Di sicuro non ci troviamo di fronte a un film perfetto. Ma io penso che "Antebellum" svolga benissimo il suo sporco lavoro di horror politico. Fa stare male. Ti resta in testa. E ti spinge a chiederti se tra le righe non ci sia tanto, troppo di corrispondente alla nostra realtà contemporanea. Una realtà che spesso ti induce a pensare che il peggio sia passato, quando il passato (come recita la citazione di William Faulkner in apertura) non muore mai, si annida tra noi, e detta l'agenda al presente in modo spaventoso.

lunedì 21 dicembre 2020

The New Mutants: Nuovi mutanti... Anzi, vecchiotti

 


«L'ho visto ieri. E' davvero molto brutto. Indifendibile!»

Quando senti queste parola da una persona che ha fatto del cinema la sua professione, blogger e podcaster più che in gamba, e persona che hai imparato a stimare, le tue aspettative scendono veramente ai minimi storici. Certo, c'è quella vocina. Quella che dice che... Ok, lei è brava, è preparata, però... Ci sono state anche alcune volte in cui vi siete trovati in disaccordo. Qualcosa che a lei è piaciuto, mentre tu non riesci proprio a mandarlo giù. E poi qualcosa che invece tu adori, laddove lei trova e schiaccia pulci che tu non riesci a vedere neanche se ti sforzi. Quindi... insomma! Magari è una di quelle volte. Diamo un'occhiata a questo The New Mutants”. Non è detto che il film non ti possa se non altro intrattenere...

Beh, scordatelo. Aveva ragione lei. Da vendere. “Indifendibile” era la parola giusta.

Che qualcosa non andasse era nell'aria già da tempo. Il progetto su un film dedicato ai Nuovi Mutanti, le nuove leve del franchise X-Men, già a loro volta un piccolo classico nell'ambito della lunga e complessa epopea mutante di casa Marvel, era entrato in produzione nel 2017, ben tre anni fa. Si parlava addirittura di una trilogia. Come se fosse una sorpresa. Oggi se produci un film di intrattenimento devi puntare alla serialità, avere l'occhio lungo, e promettere narrazioni di grande respiro. Promettere, però, non significa mantenere. E l'occhio lungo dei proposito commerciali spesso inciampa nelle gambe corte di un modello ormai spremuto fino all'osso, nella giusta incertezza dettata dalla precarietà dei diritti sui personaggi e da una creatività ormai esaurita per quanto riguarda le storie di supereroi. Nelle intenzioni della Fox (oggi 20th Century Studios) e del regista Josh Boone (che firma la sceneggiatura insieme a Knate Lee) la trilogia sarebbe dovuta procedere sotto il titolo "Growing Pains" (Dolori di crescita). C'è di più, Boone voleva fare di "New Mutants" un film del terrore, dove i poteri mutanti potessero diventare metafora di paure adolescenziali e incertezza del domani. Qualcosa che più che ambizioso puzzava già di vecchio solo a parlarne, e forse anche un pochino arrogante.


"
Legion", pregevole serial televisivo iniziato nel 2017 e anch'esso ispirato alle serie mutanti Marvel, con le sue atmosfere da incubo e i suoi personaggi surreali, aveva già conquistato questa frontiera, e fare di meglio era una bella sfida. Inoltre, il film del 2019 "Freaks!" di Adam Stain e Zach Lipovsky, con la sua umiltà di mezzi e una scrittura non banale, aveva dimostrato di poter parlare degli stessi temi in modi alternativi e affascinanti. Più nuovi di questi “Nuovi Mutanti” sicuramente.

Tralasciando i ripetuti rinvii, le riprese aggiuntive e tutti quegli incidenti di percorso che gridavano a gran voce che in questo film ormai non ci credeva quasi più nessuno, il risultato finale è davvero imbarazzante. Non è neppure la povertà tecnica del film, considerato che un titolo indipendente come il già citato “Freaks!” riesce a essere grande con delle buone idee piazzate nel posto giusto. Il problema imperdonabile di “The New Mutants” è la scrittura. Particolarmente svogliata, con dialoghi che bucano i timpani. Stereotipati da far paura più di qualunqu ripresa aggiuntiva volta a rendere “più simile a un horror” l'ennesimo, frettoloso filmetto supereroistico. Sì, frettoloso, nonostante la lunghissima gestazione asinina. In definitiva, definire “televisivo” il film di Josh Boone sarebbe ancora un complimento. E' difficile trovare la parola giusta. E' come la compulsione a grattare un prurito insistente, che sta lì a tormentarti, e senti di doverlo eliminare a costo di strapparti la pelle e lasciare una ferita sanguinante. Pensare che tutto, per la non più esistente Fox (dopo l'acquisizione da parte della Disney), era iniziato nel 2000 con i primi due “X-Men” di Bryan Singer, oggi risulta sconfortante. E in fondo, si intuisce, produzione e regista lo sapevano pure. Dai, un accanimento terapeutico di anni, una fugace uscita e poi una velocissima distribuzione in home video, allegato a riviste popolari nelle edicole. Fa addirittua provare un po' di tenerezza, e rimorso all'idea di sparare sulla croce rossa.

Ma quei dialoghi, Dio buono! Quei dialoghi!

Le intenzioni sembrano essere quelle di confezionare un thriller da camera. Ma quegli scambi di battute (forse prese in prestito da una collezione di fotoromanzi degli anni 80) non solo presentano relazioni e dinamiche assolutamente telefonate, ma pongono la pietra tombale su uno script dove la fantasia è un cadavere che i vermi hanno già digerito da un pezzo. Il peccato più grande è che qualche (vaga) ideuzza che avrebbe potuto rendere il film almeno un pochino simpatico per i veri fans c'era. Alcuni inside joke intriganti, la riscrittura di un noto personaggio di secondo piano, il disvelamento graduale dei poteri dei giovani protagonisti. Tutto, però, è gestito talmente male da fare incazzare anche il più indulgente lettore delle saghe mutanti. Anzi, più sei preparato sui fumetti e meno potrai goderti il film. Non per sterili bizze da fan tradito, ma per l'assoluta piattezza della trasposizione, cosa che ti fa prevedere ogni singolo passo dei personaggi con il risultato di non aspettare nulla se non la fine delle tue sofferenze. Molto presto ci viene ricordato che in questa dimensione narrativa gli X-Men esistono e sono famosi. Ok, perfetto, i vip sono dietro i paraventi. Ma qualche sforzo di logica in più sembrava brutto? Ci si potrebbe chiedere com'è possibile che un gruppo di giovani mutanti inesperti dai poteri potenzialmente pericolosi siano affidati a una struttura dove sembra esserci un'unica scienziata-custode. Rinunciate, la risposta non esiste. Dobbiamo accontentarci del fatto che si chiami Cecilia Reyes, e che è una vecchia conoscenza di noi lettori. E purtroppo non è l'unico punto debole del film.


Basta, infatti, conoscere le caratteristiche di un certo personaggio e del suo background fumettistico perché l'intera dinamica del racconto sia scoperta nel giro di un minuto, bruciando il climax prima ancora che incominci e sprofondando tutto in una galleria del già visto. E sì, perché mentre “New Mutants” stava ancora cuocendo a fuoco lento, nei cinema usciva
“IT” di Andrès Muschietti, e qualcuno si faceva venire pessime idee.

Maisie Williams come Wolfsbane sarebbe andata pure bene. Parliamo di un personaggio che soffre il peso di un'opprimente morale religiosa e convive con una mutazione che la rende affine a una belva, una furia primitiva incatenata da una repressione culturale lacerante. Non mi crea nessun problema la scelta di renderla protagonista di un romance omosessuale. Ci mancherebbe. Quello che trovo contraddittoria è la sua sicurezza, fin troppo serena nel gestire il rapporto con l'amata considerate le premesse castranti. Il suo alter ego licantropico avrebbe dovuto essere espressione di pulsioni sentimentali e sessuali che lottano per liberarsi dai condizionamenti di una vita trascorsa all'insegna della repressione. Invece tutto risulta buttato a caso, senza un vero ordine. Il fatto, poi, che la regia scelga di suggerire il suo orientamento sessuale mostrandola mentre assiste rapita a una scena di bacio lesbo in un celebre show televisivo, è semplicemente irritante e nemico della buona scrittura. Anya Taylor-Joy come Illyana è forse quella che rende di più. Ma è tutto da attribuire al suo naturale carisma e non al modo in cui la sua parte è stata scritta. Non si capisce nemmeno come funzionano i suoi poteri. E in effetti, la sua storia non sarebbe stata facile da riassumere neppure per uno bravo.

Non una delusione, in verità. Solo un senso di spreco e di confusione. Ma soprattutto di tristezza. Tristezza per un film nato zoppo, e definitivamente stroncato da ripetuti rimandi che ne hanno solo prolungato l'agonia. Triste per il suo titolo, che contiene la parola “Nuovi”, posta sulla confezione di un prodotto scaduto e ormai, aimé, immangiabile.











martedì 29 settembre 2020

Seoul Station

 


Finalmente ho trovato il tempo per recuperare la visione di "Seoul Station", lungometraggio animato diretto da Yeon Sang Ho. Per chi non lo sapesse, si tratta del prequel animato di "Train to Busan", film coreano in live action del 2016 diretto dallo stesso regista, e decisamente uno dei migliori zombi-movie degli ultimi vent'anni. "Seoul Station" uscì a distanza di un mese dal film precedente e in seguito fu allegato all'edizione in home video. Possiamo definirlo un prequel, ma anche un altro episodio ambientato nello stesso universo narrativo, in quanto ci narra lo scoppio dell'epidemia zombesca da un'altro punto di vista. "Train to Busan" ci mostra il dilagare degli zombi, famelici e centometristi, sul treno diretto a Busan, e gli sforzi per sopravvivere dei passeggeri in viaggio su un convoglio infestato da mostri carnivori. "Seoul Station" si svolge in città, partendo dalla stazione e da quanti vivono nei suoi paraggi. Lo sviluppo è quello classico del survival horror. Un pugno di personaggi, le dinamiche tra loro, e l'incertezza su chi sopravviverà e come. Ma a differenza di "Train to Busan", focalizzato sui protagonisti e le loro caratterizzazioni, "Seoul Station" punta di più su un contesto generale, in questo caso decisamente degradato e pessimista. L'assenza di empatia, il pregiudizio, l'individualismo. Una corsa a perdifiato per la sopravvivenza in un mondo che era già cupo e ostile prima ancora dell'arrivo della piaga zombi. Un gioiello di animazione che conferma la capacità di Yeong Sang Ho di creare situazioni tese come corde di violino e fare partecipare lo spettatore al destino dei personaggi. A questo punto, i dubbi su "Peninsula", il seguito appena uscito in Corea di "Train to Busian" non sussistono. Sarà una corsa a perdifiato, con le viscere annodate, e quando penseremo di sapere cosa ci aspetta, ci troveremo davanti all'inatteso.



martedì 14 luglio 2020

Muori, papà, muori!

Un padre poliziotto grande e grosso. Una figlia con dei segreti. Un fidanzato innamorato. Un duello lungo un film. Violenza e sangue a profusione. Divertimento a mille. La cosa buffa di "Muori, papà, muori" (opera prima del giovane regista russo Kirill Sokolov) e quella di essere stato distribuito con l'azzeccato titolo internazionale "Why Don't You Just die!" ("Perché non muori e basta!"), suscitando la consueta mitraglia di insulti (in genere meritati) contro i titolisti nostrani. Buffo, perché in questo caso ci si è limitati ad aggiungere una reiterazione al titolo originale russo, cioè "Papa, sdokhni" ("Muori, papà!"). E' ormai un rito quello di definire "tarantiniano" un film in cui violenza, l'elemento pulp, l'umorismo nero e le pennellate di surrealtà la fanno da padroni. E forse c'è qualcosa di vero anche qui. Ma in verità, più che allo zio Quentin, guardando il film di Sokolov, mi sono scoperto a pensare a un Pedro Almodovar sotto acido e assetato di sangue. Non è semplice definire il genere di "Papa, sdokhni". Commedia nera? Sicuramente. Horror? Forse, dipende a chi chiedi. Thriller? In qualche modo anche. Cartone animato girato con attori in carne e ossa. Sì, assolutamente. Grattachecca e Fighetto ringraziano. E il pubblico anche. Non è nemmeno il caso di perdere tempo a riassumere la trama. Un ragazzo decide di eliminare il padre tiranno della fidanzata che pare l'abbia molestata nell'infanzia e che forse continua a farlo. Uno spunto sufficiente a far partire una lotta senza fine tra due personaggi fisicamente indistruttibili, con buona pace dell'anatomia, delle scienze balistiche, del realismo (chi se ne frega quando un film è così divertente?). Una faida che innescherà una spirale di violenza e distruzione, ma anche di rivelazioni inaspettate. Un divertissement dal ritmo impeccabile, che non lesina neppure citazioni ai western di Sergio Leone, in alcune scelte di regia e nell'uso, studiato e ironico della colonna sonora. Pochi attori, una recitazione che definire sopra le righe sarebbe un eufemismo. E tanto, tantissimo splatter. Meglio non aggiungere altro, e scoprire il film, uscito da poco in dvd in Italia e visibile su Chili. Un film di situazione e di forma che riesce a divertire. Speriamo che Sokolov, che prima di questo film (uscito in patria nel 2018) aveva realizzato solo alcuni cortometraggi, si dimostri all'altezza delle promesse di questo esordio. E di avere la possibilità di metterlo alla prova anche sugli schermi italiani.

martedì 23 giugno 2020

L'Immensità della notte (The Vast of Night)

"L'immensità della notte" (The Vast of Night), film indipendente diretto a budget zero da Andrew Patterson nel 2019, sta diventando un piccolo caso su Amazon Prime Video, che provvidenzialmente ha scelto di acquisirlo nel suo catalogo, dopo il consueto giro nei festival di fantascienza (e dopo essere stato snobbato, a torto, da quelli più blasonati).
Gli aspetti più sorprendenti di "The Vast of Night" sono il coraggio con cui un budget praticamente inesistente è stato convertito in virtuosismo filmico (segno che a volte i limiti aguzzano la creatività), e l'audacia di affidare l'intero crescendo del racconto interamente alle voci dei protagonisti. Due personaggi centrali, pochissime location e persino lunghe conversazioni al telefono. Verrebbe da definire "The Vast of Night" un saggio sull'uso virtuoso del dialogo e dei tempi drammatici, più che un film fantastico sull'inizio di un'invasione aliena. Invasione di cui ci sarà mostrato solo la crescente inquietudine, poi frenesia e dunque paura dei personaggi. E nient'altro. Se non gli effetti della presenza extraterrestre sulla nostra realtà. Ambientato strategicamente negli anni 50 (ma anche concettualmente, in un periodo storico fatto di tensioni internazionali e paranoia politica), il film di Patterson gioca con lo spettatore in modo scoperto, iniziando subito con una citazione esplicita dei serial televisivi d'altri tempi ("Ai confini della realtà", "Oltre i Limiti"). Sin dalla prima scena siamo invitati a entrare in un piccolo schermo in bianco e nero che presto si accenderà di colori, ma che conserverà il tono e le suggestioni di un prodotto d'altri tempi. Quando gli effetti speciali non consentivano particolari acrobazie visive e si era costretti a lavorare di allusioni, di atmosfera e di racconti paurosi. Dove erano le parole e le emozioni suggerite a dare i brividi.


"The Vast of Night" non manca neppure di interessanti invenzioni visive, come il ricorso al piano sequenza che in più occasioni attraversa in soggettiva la minuscola cittadina del New Mexico in cui la vicenda è ambientata, dandoci effettivamente consapevolezza di un centro urbano piccolissimo, abitato da poche centinaia di abitanti, divenuto a un tratto l'occhio di un ciclone destinato ad allargarsi. Due le principali location. Anzi tre, sebbene la prima venga presto accantonata. La palestra di una scuola in cui l'intera cittadina di Cayuga è riunita per assistere alla partita di pallacanestro, evento che lascia praticamente deserto il resto del borgo. La piccola radio in cui lavora come conduttore il giovane Everett, un'emittente che guarda caso si chiama WOTW (e non ditemi che non ci arrivate), e il centralino dove quella notte Fay sta lavorando da sola, e dove per prima sentirà un misterioso suono dalla provenienza indecifrabile... In qualche modo, è bizzarro considerare come uno dei temi del film, ambientato negli anni 50, sia anche la rapida evoluzione delle tecnologie. Soprattutto quelle legate alla comunicazione e alla conservazione dei dati. La conversazione iniziale tra Everett e Fay, che commentano le notizie sui prossimi sviluppi nell'ambito dei trasporti e della telefonia, non è messo lì a caso, ma prelude proprio al progressivo salto nell'ignoto che aspetta i due protagonisti dietro l'angolo. Si faccia caso alla battuta incredula di Everett sulle future evoluzioni del mezzo telefonico, e potremmo avere un'altra chiave di lettura per l'intero film. Dalle loro parole apprendiamo che entrambi, in fondo, sono affascinati dal progresso, e ambiscono a crescere individualmente e professionalmente nell'ambito dei rispettivi campi, che riguardano sempre le comunicazioni. "The Vast of Night" è quindi un gioco di scatole cinesi in cui le voci e i mezzi di trasmissione sono i veri protagonisti. Radio, telefono, bobine, registratori. Quasi come se ci venisse suggerito che la vera conquista avverrà attraverso questi strumenti e il controllo dei principali canali di comunicazione, non grazie a raggi della morte o all'occupazione di città da parte di mostri verdi. La notte immensa, infinita, che ci circonda non è che l'incertezza per il nostro domani, e le nuove inattese minacce che potremmo trovarci ad affrontare. Siano essi extraterestri in agguato, risoluti a conquistarci, o un progresso tecnologico veloce e ambiguo. Talmente rapido e sorprendente da diventare alieno e incontrollabile a sua volta.


Insomma, "La vastità della notte" riesce a rendere tematica e fortemente allegorica la sua struttura basata sulla comunicazione verbale a causa di un budget ridottissimo. E acquista un'identità molto spiccata proprio grazie ai binari su cui deve adattarsi a correre, evitando di diventare un prodotto dozzinale che racconta una storia già narrata mille volte. Non dimentica, però, di essere comunque cinema. Usando la presenza in scena, a volte anche insistita e ossessiva, dei suoi interpreti. A volte seguiti di spalle, come se ci trovassimo lì, a tallonarli lungo un interminabile piano sequenza. In altri casi, chiamati a reggere lunghi primi piani, in cui le loro maschere rappresentano una componente visiva molto importante di quello che funzionerebbe benissimo anche solo come radiodramma. E non è un caso neppure che durante certe sequenze, lo schermo si oscuri del tutto, affidandosi alle sole parole. Un film diverso, quindi. Strano e particolare. Sicuramente da vedere, da ascoltare, da apprezzare.

mercoledì 6 maggio 2020

All the Boys Love Mandy Lane



"All the Boys Love Mandy Lane" è uno slasher. Partiamo da questo assunto. Un film di genere thriller-horror di cui oggi anche i sassi conoscono le regole. Il film di esordio di Jonathan Levine (finito di girare nel 2006, ma rimasto congelato a lungo a causa di beghe produttive, uscito addirittura nel 2013, apparso soltanto in qualche festival e presto riciclato per il mercato home video) non è un capolavoro. Anzi, forse non è neppure un prodotto del tutto riuscito, e in parte, per una buona parte di minutaggio, può risultare persino irritante. Per me, almeno è stato così. Un film davvero breve (dura un'ora e venti minuti) che si presenta con tutti gli stereotipi incastrati al posto giusto, per poi disattenderli uno dopo l'altro e farci chiedere che cavolo stiamo guardando e perché. "All the Boys Love Mandy Lane" è anche Amber Heard. La Mandy Lane del titolo. E' la sua presenza, il suo incedere, il suo essere tra noi (e nel film) pur dando la sensazione di non appartenere a questa terra. Mandy Lane è una final girl. No. Mandy Lane è LA final girl. Un archetipo del genere che lo attraversa, lo calpesta e fa suo un ruolo assegnatole dal destino. "All the Boys Love Mandy Lane" è un altro di quei cazzo di film dei quali non puoi parlare veramente senza ammazzare tutte le ragioni per vederlo. E questo sì che è frustrante. Perché sebbene la lampadina sulla mia testa si sia accesa 30 secondi esatti prima del twist in cui il film svolta e mostra la sua vera identità, l'anima di questa fiaba nera (ah, ricordiamoci! E' uno slasher!) risiede tutta lì. "All the Boys Love Mandy Lane" non è "Scream". La trilogia di Wes Craven che aveva elencato, decostruito e disinnescato i cliché del genere, si basava molto su una componente metafilmica e un tocco abbondante di humor nero. Il film di Levine si prende sul serio da morire. Ha un'aura sporca, da pellicola anni 70. Sembra quasi un film fuori dal tempo, per certi versi. Si rischia di non riuscire a guardarlo fino alla fine, tanto può sembrare scontato. Eppure... Possibilmente, per cogliere certi aspetti e notare tutte le libertà e le sovversioni giocate sul genere, sarebbe necessario vedere il film una seconda volta, ma la sensazione morbosa che lascia addosso quando iniziano i titoli di coda sulle note della romanticissima "Sealed With a Kiss", non incoraggia a farlo tanto presto. E' difficile anche dire se il film mi sia piaciuto o meno. Diciamo che mi sono piaciute le sue intenzioni e lo sforzo per rappresentarle. E in fondo, non è poco, considerato che parliamo di un piccolo film che si dimostra malatissimo. Spiazzando lo spettatore a metà film, facendogli cadere le braccia (e le difese) per poi assestargli un calcio da mulo. "All the Boys Love Mandy Lane" è un film tuttora inedito in Italia. Difficile da reperire, e questo forse ha contribuito ad accrescere la sua nomea underground di opera horror "diversa" e spiazzante. Amber Heard, oggi, forse non è in cima alle simpatie di molti, ma in questo film è davvero splendida sotto tutti i punti di vista. Del resto "Tutti i ragazzi amano Mandy Lane", e l'unica certezza è che questo non porterà a niente di buono.

lunedì 4 maggio 2020

I morti non muoiono [di Jim Jarmush]

Non sono sicuro di avere capito bene "I morti non muoiono" di Jim Jarmush. Nel senso che non sono certo di avere compreso del tutto che cosa Jarmush si proponeva di fare con questo metafilm a base di zombi, comedy, spunti satirici, omaggiante un genere, il proprio cinema passato e... si direbbe altro ancora. Non posso dire neppure che non mi sia piaciuto. Forse perché "I morti non muoiono" è talmente carico di spunti simpatici, di attori mostruosi e camei illustri, che semplicemente ti bagna le polveri del dissenso e ti induce comunque a un atteggiamento indulgente. Eppure, quello che penso sia più ragionevole dire è... che non credo di averlo capito. Limite mio, probabilmente, che non riesco ad allineare in modo perfetto le tessere di un mosaico citazionista e allegorico in cui i temi centrali sono già stati talmente sfruttati da risultare ovvi. La cosa che mi affascina di più, paradossalmente, è proprio la scelta di adottare un ritmo compassato. Non lento, ma di una calma esasperante (rappresentata in modo encomiabile dall'imperturbabile personaggio di Bill Murray) che praticamente ti conduce attraverso l'inizio dell'apocalisse con una rassegnazione inedita. Forse è proprio questo il bandolo della matassa. Il fluire del racconto filmico, affidato a un'ironia placida che non si scompone neppure nelle scene in cui le urla, il sangue e la morte dovrebbero farla da padrone. Un mondo che non finisce con fragore, ma con un gemito sommesso e quasi un sorriso cinico, come se l'intero pianeta, nel soccombere alla piaga che lo sta distruggendo, anziché urlare, mormorasse sogghignando «Che fregatura, eh!» Se l'intento era quello di spiazzare, con me l'obiettivo è stato sicuramente centrato. Forse, un tema così abusato, già filtrato più volte dalla commedia, e persino cannibalizzato da altri generi, non può più essere rappresentato se non con distacco. Il disincanto di chi ormai conosce non solo le regole del gioco, ma ogni possibile sviluppo e l'inevitabile finale. Un distacco emotivo e formale, perché ormai certe storie non si possono più raccontare fingendo di crederci. Oppure si possono descrivere soltanto ammettendo di non crederci più, sapendo che il giocattolo è irrimediabilmente rotto, e arrendendosi ormai alla noia di una parabola nera che avrà comunque ragione delle nostre resistenze. Vediamo il baratro, contiamo i passi, ma sappiamo di non essere in grado di fermarci. Possiamo solo accettare la fine, e andarle incontro rassegnati. Nessun twist ci illuderà con un'effimera ondata di adrenalina. Nemmeno il segreto (di Pulcinella, ormai) che i diversi, gli strani, rivelano risorse in più in situazioni di emergenza, e che forse è proprio la loro diversità, la loro stramberia, a condurli in salvo, lasciando gli omologati, i normali al loro destino infausto. E anche in questo caso, mi accorgo, non posso fare a meno di azzardare interpretazioni, anche quando ritengo di non avere ben capito. Ma mi resta la sensazione che "I morti non muoiono", con la sua placida, quasi inerte, ironia citazionista, sia un film di un pessimismo devastante.

venerdì 1 maggio 2020

CREEP [di Patrick Brice]


Sarebbe molto facile elencare tutto quello che non persuade in "Creep", piccolo film thriller indipendente diretto da Patrick Brice, interpretato dallo stesso accanto a Mark Duplass e scritto da entrambi. A partire dal titolo, abusato e confondibile con più pellicole horror del passato. Dalla sua natura di POV (point of view) o Found Footage, se preferite, in cui in più occasioni, e come in molti altri film che adottano questo espediente, è poco plausibile che la telecamera continui a funzionare e stia inquadrando determinati accadimenti. Punti deboli, quindi, talmente scontati da passare in secondo piano, e farci chiedere che cosa ci spinge a seguire il film di Brice e Duplass (è il primo a firmare la regia, ma "Creep" è una creatura figlia di entrambi) fino all'ultimo sconcertante fotogramma. Uscito con il marchio della Blumhouse, etichetta horror prolifica che non disdegna di produrre esperimenti bizzarri e a basso costo, "Creep" segue in apparenza un percorso lineare, ma che diventa in fretta meno prevedibile di quanto potrebbe sembrare e presenta anche un paio di rovesci spiazzanti. Un cameraman risponde a un annuncio per un lavoro che lo terrà impegnato una sola giornata in un cottage fuori città, e fa la conoscenza di un uomo eccentrico che desidera realizzare una sorta di diario filmato per il figlio che deve ancora nascere. E' subito chiaro che le cose non sono come sembrano, ma quello che importa in "Creep" non è tanto la destinazione, ma il viaggio e le sue emozioni. Due attori soltanto in scena per tutto il tempo, mentre la situazione si fa sempre più strana. Imbarazzante. Inquietante. L'attore Mark Duplass si trova a fare da mattatore in un crescendo drammatico in cui l'occhio della telecamera è piantato prevalentemente su di lui, disegnando un personaggio straniante e polimorfo, in grado di instillare dubbi nel suo interlocutore e nello spettatore. La recitazione e il senso opprimente di minaccia sono le vere ragioni d'essere di "Creep", in cui lo spunto da Found Footage è solo un mero pretesto per un progressivo sprofondare nella follia. Un gioco psicologico che a molti sembrerà assurdo, ma che presenta disturbanti parallelismi con dinamiche reali e tragiche.
Non un capolavoro, forse, ma sicuramente un esperimento di horror da camera indipendente tra i più interessanti, nonché un'ottima prova attoriale. Esistono già due seguiti, il che mi rende parecchio curioso. Certo è che la povertà di mezzi spesso aguzza l'ingegno, e che le performance da parte di attori di talento possono da sole rappresentare l'anima di un film. Riuscendo a inquietare, peraltro. Naturalmente, se ne sente parlare veramente poco. Ma questo non deve sorprenderci.

domenica 26 aprile 2020

Spoorloos (cioè The Vanishing, l'originale)


Fa davvero uno strano effetto scoprire oggi "Spoorloos", film franco-olandese diretto da George Sluizer nel 1988, tenendo ben presente il remake statunitense che lo stesso regista avrebbe diretto qualche anno dopo, nel 1993, con un budget più alto, qualche nome di richiamo e il titolo "The Vanishing ". Parliamoci chiaro. Che la versione originale fosse più riuscita era qualcosa che si sentiva dire da tempo. Dalla critica che non accolse con molto entusiasmo il rifacimento e dai pochi fortunati che avevano avuto la possibilità di vederlo. In effetti, il confronto con la pellicola che Sluizer realizzò con Kiefer Sutherland, Jeff Bridges e una quasi esordiente Sandra Bullock nei ruoli principali, accanto alla prima versione fa l'effetto di una copia molto sbiadita e dalla personalità annacquata. Il vero pregio di "Spoorloos" ("Senza Traccia", ma anche la prima versione aveva avuto come titolo "The Vanishing" per il lancio internazionale) è che riesce a essere disturbante nonostante lo scialbo remake americano abbia ormai svelato il punto di arrivo della storia. Anzi, è un film malsano e angosciante proprio perché SAPPIAMO dove il racconto sta per andare a parare. La vicenda di Rex e Saskia (così si chiamano i protagonisti, a differenza della rilettura USA, in cui si chiamano Jeff e Diane) si apre subito con presagi funesti di quello che avverrà, e la semplicità quadrata del tutto, una conduzione dove alla fine tutti i pezzi del mosaico vanno al loro posto con una perfezione devastante, fa vivere allo spettatore un incubo cinematografico che picchia duro nella forma oltre che nella sostanza, magari già nota ai più. E non si tratta solo del fatto che, a differenza della versione pensata per il pubblico americano, il finale è agghiacciante e per niente consolatorio (una storia del genere non potrebbe proporre niente di diverso). Sarà forse la presenza dell'attrice Johanna ter Steege, che riesce a farci empatizzare con il suo personaggio in pochi minuti, e a rendere un vero pugno nello stomaco quello che le succederà. Qualunque cosa le succeda, che lo si sappia o no. Sarà la presenza di un luciferino Bernard-Pierre Donnadieu, che riesce nell'impresa non facile di eclissare la prova (tutto sommato manierata) di Bridges nel ruolo del villain del film. In parole povere, la curiosità cinefila potrebbe temere che il meccanismo di "Spoorloos - The Vanishing" sia disinnescato dallo spoiler storico generato da un remake non all'altezza. Cosa che potrebbe portare qualcuno a rinunciare di recuperarlo, ma non è così. Il film, di difficile catalogazione (thriller, drammatico, horror?), ha parecchie cartucce da sparare. Vanno tutte a segno e fanno un male cane. Insomma, vale la pena far finta di non ricordare il "The Vanishing" americano, che - ricordiamolo - fu diretto con mano meno felice dal medesimo regista olandese, e scoprire la prima versione. Con la consapevolezza che sarà un viaggio affascinante che ci farà stare malissimo.

venerdì 10 aprile 2020

Il fabbro e il diavolo

"Il fabbro e il diavolo" (in originale "Errementari") è un film diretto da Paul Urkijo Alijo e prodotta da Alex de la Iglesia nel 2017. Il film, una produzione basco-francese, è una fiaba nera che riprende motivi popolari presenti in molte culture e le colloca nel XIX secolo, dopo la prima guerra civile carlista. I protagonisti sono archetipi senza tempo. Il diavolo e la sua ricerca di anime da assoggettare tramite un patto, e una figura di popolano che in qualche modo gli resiste, con l'astuzia, la forza o magari entrambe. Questo piccolo, simpatico film, presenta una struttura in fondo molto semplice e per l'appunto archetipica. Ma vive soprattutto di forma, di tempi narrativi e delle caratterizzazioni dei personaggi, sia centrali che di contorno. La pellicola di Alijo non ha un budget altissimo, ed è possibile (anzi, è successo) che alcuni sentano il bisogno di criticare gli effetti speciali (in realtà didascalici) presenti nell'ultimo segmento del racconto. Cosa a mio parere abbastanza inutile, perché "Errementari" è un'opera che si regge sulle atmosfere e funzionerebbe anche su un palcoscenico teatrale, con le assi di legno che scricchiolano sotto i piedi degli attori, e con fiamme di carta mosse da ventilatori. Dimentichiamoci, dunque, gli effetti contemporanei, che ci hanno mangiato occhi e cervello, e concentriamoci su una novella semplice ma dalle passioni forti, che non racconta niente di nuovo, ma che lo fa con uno stile davvero accattivante.



"Il fabbro e il diavolo" è un film fantastico, in una cornice storica ricostruita piuttosto bene. E' un film horror sotto diversi aspetti, e a sorpresa è anche una commedia grottesca. Il suo tema centrale è la diversità e l'incomprensione che condanna questa alla solitudine. E' una parabola morale sul senso della colpa e della punizione. L'inferno, diceva Thomas Mann in un suo romanzo, è una condizione dell'anima. Soltanto chi aspira a essere giusto comprende i propri difetti, le proprie colpe e ne soffre, condannandosi all'inferno. Ed è per questo che all'inferno, praticamente, ci finiscono solo le brave persone. "Errementari" in qualche modo sfiora questo pensiero etico e confeziona una favola sull'ambiguità di bene e male. Siamo il nostro inferno, e le circostanze possono renderci non troppo diversi dallo stesso diavolo venuto a reclamare la nostra anima. Visivamente, il film ha una sua potenza, e la figura centrale, quella del fabbro, figura temibile, ma anche mitica, acquista una simbologia non scontata, che parla di colpa attraverso un percorso di redenzione disseminato comunque di violenza e crudeltà. Piacevoli i rimandi (sicuramente volontari) a feticci del cinema e della televisione di genere. Qualcuno ravviserà il seminale "Ululati nella notte", celebre episodio di "Ai confini della realtà", già omaggiato dal film "I trapped the devil" (ma qui si va oltre e si supera il limite). Al genere slasher, echeggiato dalle location, dalla narrazioni che circondano il misterioso protagonista e la sua prima, spettacolare apparizione (che prende comunque una direzione ben diversa). In definitiva, "Il fabbro e il diavolo" pur non essendo un film particolarmente originale o riuscito, è un divertentissimo esercizio di stile a cui è facile voler bene. E se i serpenti vi fanno paura, se li odiate... stavolta potreste ricredervi, e piangere persino.

giovedì 26 marzo 2020

The Invisible Man



In questo momento buio, la distribuzione di tanti film è rimandata a data da destinarsi. Ma qualche scelta differente fa discutere. La Universal ha infatti deciso di anticipare l'uscita per lo streaming di una manciata di film. "Emma", "The Hunt" e "The Invisible Man". Per quanto sia un peccato che film interessanti e attesi non possano attualmente essere visti in sala, è consolatorio poter fruire di alcune novità nonostante il periodo dell'isolamento. C'era, infatti, una discreta aspettativa circa il nuovo "Uomo Invisibile" di Leigh Whannell. Pellicola che si presenta come un possibile nuovo inizio del progetto che doveva intitolarsi "Dark Universe", e si proponeva di essere una rivisitazione moderna dei classici horror che la Universal produsse a partire dagli anni 30 del ventesimo secolo. Parliamo, quindi, di una nuova versione de "L'Uomo Invisibile" di H. G. Wells e dell'omonimo film diretto da James Whale nel 1933 con Claude Rains protagonista. Quel che va detto subito è che il film di Whannell (che aveva diretto il piacevole "Upgrade") non è esattamente un remake dell'opera di Whale. Non potrebbe, non vuole esserlo. Possiamo dire che le somiglianze con il film del 1933 e il romanzo di Wells sono soltanto il concetto dell'invisibilità e il nome del villain. Detto questo, il film di Whannell naviga su ben altre rotte, e per una volta il panorama è molto interessante. Un modo per reimmaginare il topos narrato da Wells alla luce di una sensibilità aggiornata, rendendolo specchio di una realtà inquietante. “The Invisible Man” si potrebbe ascrivere alla fantascienza, ma la scelta estetica vira decisamente nei territori dell'horror. Di un horror sociale, peraltro, simbolico, in cui la paura e il sangue dipingono mali contemporanei. Bastano i primissimi dieci minuti di “The Invisible Man” per mettere un'ansia insostenibile. Una sequenza quasi muta, ma che comunica più di una valanga di parole, descrivendo in poco tempo un inferno e un senso di angoscia che già da soli sono sufficienti a suscitare nello spettatore un disagio incredibile. E il film è soltanto all'inizio.
E' facile prevedere che, a visione ultimata, non mancheranno le segnalazioni di qualche buco logico, ma per una volta... lasciamoli perdere. “The Invisible Man” va visto come un'allegoria da guardare in prospettiva non come lavoro geometrico. E da quel punto di vista funziona alla grande. Ha ragione da vendere chi lo ha paragonato, per forma e intenti, a “Babadook” di Jennifer Kent. Anche in quel caso, l'orrore era un pretesto per parlare di un antico male del quotidiano, un incubo da vivere e da riconoscere come proprio... o del proprio vicino. E questo “Uomo Invisibile” è uno dei terrori peggiori del nostro tempo, proprio perché non viene visto, non è riconoscibile, non ha un volto, e di conseguenza non esiste. O così vuol farci credere. Così ci fa comodo credere. Elisabeth Moss (vista ne “I Racconti dell'ancella”) rappresenta il punto di vista (!) e vero cuore del film. La sua espressività, suscita un'empatia cruciale che deve fare riflettere. La minaccia narrata dal film, che per una volta non riguarda un genio folle che usa la sua scoperta per andare alla conquista del mondo, può essere letta in modo più o meno circoscritto o in modo più o meno esteso. E quello che vediamo... Anzi, quello che non riusciamo a vedere, fa paura. Maledettamente paura.


lunedì 23 marzo 2020

El Hoyo (Il Buco)


Il film "El Hoyo" presentato da Netflix, rappresenta uno di quei casi in cui gli odiati servizi di streaming possono rendere possibile la visione di opere interessanti, che magari non avremmo visto e che potrebbero giacere nel dimenticatoio per molto tempo. Al di là di queste riflessioni, "El Hoyo" (intitolato "The Platform" per il mercato internazionale, e in Italia "Il Buco", con lungimiranza incommentabile), sta facendo discutere molta gente. Tanti ne sono entusiasti. Altri sconcertati. Qualcuno ritiene di riconoscere influenze di opere già viste. Altri ancora ne lodano gli intenti metaforici, accettando gli aspetti più esoterici di una trama che lavora in sottrazione. Opera prima del regista spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia, "El Hoyo" (perché non tradurlo "La Fossa", cazzo?!) è una vera sorpresa, che magari non brillerà in modo particolare per originalità, ma che se recupera semi del passato lo fa con criterio, stile, e ottime intenzioni in larga parte ben realizzate. Non è semplice parlarne. In primo luogo perché è uno di quei racconti di cui è meglio scoprire il meccanismo poco per volta. In seconda istanza, perché presenta un curioso e riuscito mix di generi pur non essendo (a sorpresa) un vero film di genere. Potremmo parlare di fantascienza distopica, di horror (sotto parecchi aspetti), di thriller, e di apologo politico. Ma anche mistico, filosofico. "El Hoyo" è anche un ottimo esercizio di stile in cui un pugno di attori, tutti molto bravi, riescono a creare un microcosmo angosciante da uno scenario ridotto e da un'idea semplicissima nella sua crudeltà. Chi conosce e apprezza il teatro dell'assurdo di Samuel Beckett potrebbe avere qualche dejavu da incubo. La costrizione, il senso di vuoto morale, la mostruosità di personaggi che hanno perso quasi del tutto la loro umanità. Finita la visione del film, è lecito interrogarsi in quale misura il messaggio (neanche tanto) nascosto verta sulla rappresentazione allegorica di un ordinamento sociale in classi dove l'incapacità di collaborare destina tutti all'abisso o sulla ricerca di una ragione per andare avanti nonostante tutto, nutrendo la speranza nel domani per i posteri se non per se stessi. Ma un'opera veramente riuscita formula domande e incita alla riflessione più che elargire risposte. E "El Hoyo" questo lo fa. Lo fa dannatamente bene, mettendo in scena un dramma dove conta molto il dialogo, la parola e le atmosfere. Davvero un bell'esordio per un regista che incoraggiato su questa strada potrebbe offrire meraviglie in futuro.

mercoledì 18 marzo 2020

Riscoprire "Castaway on the Moon" durante la quarantena


Questo periodo di isolamento potrebbe essere l'occasione per recuperare (o rivedere) "Castaway on the moon", film sud-corano diretto da Lee Hae-Jun nel 2009. Una commedia agrodolce che dà molteplici spunti di riflessione sulla solitudine (vera o presunta), i possibili modi di arginarla, la riscoperta della fantasia per superare le difficoltà e una diversa modalità di interazione con gli altri, al di là delle convenzioni sociali e delle dinamiche di cui siamo in larga parte dipendenti. Un giovane uomo afflitto dai debiti e dal senso di fallimento, tenta il suicidio lanciandosi da un ponte nel fiume che attraversa la sua città. Ma si ritrova su un piccolo atollo, circondato dall'acqua, in un punto in cui nessuno può vederlo o sentirlo. Quindi naufrago di fatto sia pure vicinissimo alla civiltà da cui si era sentito schiacciato. Non sapendo nuotare, e non potendo lasciare l'isolotto, l'uomo cerca di sopravvivere come può, sfruttando gli oggetti che trova per imparare nuove pratiche, nuove forme di vita, e costruendo giorno dopo giorno una rinnovata forma di indipendenza. Da lontano, tuttavia, qualcuno che si accorge di lui c'è. Una ragazza con seri problemi di agorafobia e asocialità, quello che nel linguaggio orientale è definito hikikomori. Persone afflitte da problemi relazionali che le inducono a isolarsi in una stanza mantenendo con l'esterno solo contatti telematici. Il rapporto, stabilito attraverso mezzi tecnologici e un cannocchiale, getta un ponte emotivo tra i due soggetti isolati, e... E il resto è da scoprire. E amare. "Castaway on the moon" è un film semplicemente delizioso, fatto di dettagli e di un'idea potentissima nella sua tenerezza. Se vi sentite soli, annoiati, prigionieri, e non lo conoscete... cercatelo, scopritelo. Se lo conoscete già, meditatelo. Magari rivedetelo. Ci sono troppe cose date per scontate che contribuiscono a farci sentire soli e inermi se ci vengono sottratte all'improvviso. E l'arte, come questo bellissimo film è qui per ricordarci che le nostre risorse non sono poche, e che dobbiamo solo allungare la mano e darci da fare per scoprire che possiamo andare avanti comunque. E che ci sono tanti modi per smettere di essere soli, impauriti, alla deriva, naufraghi. Si può essere naufraghi. Ma sulla luna, e guardare le stelle da vicino. Vedete "Castaway on the moon". La bellezza può ancora salvare il mondo.

lunedì 16 marzo 2020

Die Farbe (Il Colore)


"Die Farbe" (letteralmente "Il colore") è un film indipendente tedesco del 2010 ispirato a "Il colore venuto dallo spazio" di H. P. Lovecraft. A parte la variante geografica, che ambienta la vicenda nella campagna tedesca, e qualche libertà, il film diretto da Huan Vu è molto più fedele alla fonte letteraria di tanti altri adattamenti. Il racconto è articolato in tre atti che rimbalzano su altrettanti piani temporali. Subito prima il secondo conflitto mondiale. Subito dopo la fine della guerra, e quindi molti anni più tardi, dal punto di vista del figlio di un ex militare americano che di recente è tornato a visitare la Germania, dove aveva vissuto una strana esperienza, facendo perdere le sue tracce. La vera peculiarità del film è la scelta di lavorare in sottrazione. Nessun effetto speciale vero e proprio, nessuna mostruosità evidente e in piena luce, ma solo tanta suggestione. Né più né meno dell'irriferibile portato in scena dallo scrittore di Provvidence nei suoi racconti. Un altro aspetto importante di "Die Farbe" è quello di essere una pellicola in bianco e nero, dove l'unico colore è quello maligno venuto da un'altra dimensione. Qui ancora più alieno, in quanto unico colore presente nel film. Curiosamente, anche qui parliamo di una sfumatura di fucsia, come avrebbe scelto molto tempo dopo Richard Stanley per la sua recente versione. Peccato per l'uso di una CGI molto approssimativa in alcune scene di cui si sarebbe potuto fare a meno. Peccato per un uso forse non del tutto equilibrato del contrasto tra fotografia in bianco e nero e colore fuori contesto. Idea molto interessante, ma che forse poteva essere sfruttata meglio e in modo più ossessivo. "Die Farbe" è comunque un esperimento interessante. E se vi chiedete se è migliore del recente film di Richard Stanley... Non credo abbia senso paragonarli. Troppa distanza formale, intenzioni troppo diverse, con la sola base del racconto di Lovecraft che rende i due film lontani cugini. Ovviamente è inedito in Italia, e nel dvd mancano i sottotitoli nella nostra lingua. Questi sono comunque reperibili in rete, nei consueti modi esoterici.



venerdì 13 marzo 2020

Swiss Army Man


Tra tutti i film stralunati, bizzarri, sorprendenti, "Swiss Army Man" occupa sicuramente uno dei posti più alti in classifica. Diretto da Dan Kwan e Daniel Sheinert (che firmano la regia in tandem con il nome "Daniels"), è una pellicola davvero difficile da inquadrare. Daniel Sheinert avrebbe in seguito diretto da solo "The Death of Dick Long", altrettanto curioso e spiazzante, ma meno... poetico. Possiamo dirlo? E' strano, ma un film weird (bizzarro) come "Swiss Army Man" può essere definito poetico? Considerato che durante il suo svolgimento (neanche lunghissimo, appena un'ora e trenta) oscilla tra la commedia (nera che più nera non si può), il dramma, il grottesco, il film surreale se non demenziale, e finisce con l'offrire persino spunti commoventi. E ho detto tutto se premettiamo che non mancano alcune scene e situazioni che potrebbero fare schifissimo, e che una buona parte del contrappunto (anche tematico) del film è fornito dai rumori naturali. Sicuramente ci troviamo di fronte a un film di attori, in cui Paul Dano ("Little Miss Sunshine", "Prisoners") e Daniel Radcliffe (che si è da tempo scrollato di dosso l'ingombrante identificazione con Harry Potter) danno il loro meglio, con un duetto virtuoso e un dialogo strampalato ma efficacissimo. Un giovane naufrago su un atollo in mezzo al pacifico è prossimo alla disperazione quando la corrente sbatte sulla spiaggia un cadavere vestito di tutto punto. I gas della decomposizione fanno sì che il morto si trasformi in una imprevedibile zattera di salvataggio (anche più di questo) che trasporta lo sventurato su un nuovo lido. Forse sarà la salvezza, forse no. Ma il rapporto tra il naufrago e il suo inatteso mezzo di sopravvivenza è appena cominciato. Anche perché il cadavere rivelerà risorse insospettabili, e a un tratto... Daniel Radcliffe nel ruolo del cadavere mandato (forse) dalla provvidenza è straordinario. E non meno Paul Dano, in grado di sviluppare un personaggio di cui c'è dato conoscere solo informazioni essenziali, possibilmente per aumentare l'empatia e rendere universale l'identificazione con questo novello Robinson Crusoe alla ricerca della salvezza, ma anche di se stesso. Un film davvero curioso, che potrebbe non incontrare il gusto di tutti. Ma comunque da scoprire.

mercoledì 11 marzo 2020

The Color Out of Space [di Richard Stanley]


"The Color Out of Space" rappresenta il ritorno di Richard Stanley alla regia di un lungometraggio dopo un periodo piuttosto lungo. Infatti, dopo le ottime prove di "Hardware" e "Dust Devil" (noto anche come "Demoniaca"), nella prima metà degli anni 90, il regista sudafricano aveva firmato soltanto corti, documentari e brevi episodi in film antologici. Nel 1996 avrebbe dovuto dirigere "L'isola perduta", ma la sua visione personale e l'ingombrante presenza della star Marlon Brando, causarono il suo allontanamento dal progetto che fu portato a termine da John Frankenheimer. Un peccato, considerato il valore dei suoi primi film. Opere di genere horror baciate da una sensibilità autoriale e una capacità evocativa visionaria, in cui scenografie, fotografia e colore danno vita a sogni lucidi inquietanti e di grande impatto sulla memoria. "The Color Out of Space", del 2019, è quindi un film di una certa importanza. Che somma il ritorno in scena di un regista che ha tanto da dire (e che lo dice in modo personalissimo) con un nuovo approccio alla narrativa di H. P. Lovecraft, ritenuto (e non a torto) uno degli scrittori horror meno filmabili per via della sua particolare poetica, fatta di orrori suggeriti e sempre collocati oltre l'immaginazione umana. "Il Colore venuto dallo Spazio" è peraltro uno dei racconti più noti e adattati di Lovecraft. La sua prima versione cinematografica risale al 1965 e al film "Die, Monster, Die!" di Daniel Haller, che in italiano diventa "La morte dall'occhio di cristallo" e vede come protagonista il mitico Boris Karloff. Da allora, la vicenda dell'entità extraterrestre che giunge in una zona boscosa della terra all'interno di un meteorite e che si manifesta come un colore inesistente nel nostro piano di realtà, dotato di una volontà maligna che ridefinisce il mondo intorno a sé secondo uno schema alieno e incomprensibile, mutando cose e corpi, è stata più volte ridotta per lo schermo. Raramente in modo efficace. E già, parliamo sempre del non adattabile Lovecraft. Diciamo anche che il titolo italiano del racconto forse non rende giustizia all'idea del suo autore. "The Color Out the Space" è un "colore fuori dello spazio" più che "venuto dallo spazio". Qualcosa di indefinibile e inqualificabile. Un elemento portatore di caos che azzera le norme e stravolge spazio e tempo, infettando ambiente, menti e corpi. Nel racconto il colore non appartiene a nessuna tavolozza, non è descrivibile nella sua alienità, e ovviamente questo non può essere reso al di fuori della rappresentazione letteraria. Richard Stanley, che aveva già dato prova di notevoli suggestioni oniriche con "Dust Devil" (di cui consiglio il recupero della versione Director's Cut con il titolo originale), sceglie per questa tinta aliena una sfumatura di fucsia iridescente (neanche a farlo apposta, un colore che io detesto). Caldo, ma nello stesso tempo morboso. E lo rende centrale e malevolo con la sua crescente onnipresenza a mano a mano che il film va avanti. Non c'è molto da raccontare, in quanto l'opera di Lovecraft, come abbiamo detto, è ampiamente nota e sfruttata. Quello da considerare, dunque, non è tanto il racconto e il suo progredire (che oggi chiunque può facilmente prevedere) quanto la personale visione scenica di Stanley, che la racconta con un ritmo dapprima rilassato e poi sempre più convulso, mentre le sue invenzioni cromatiche divampano e il body horror che si è già fatto interprete degli orrori lovecraftiani su schermo nelle opere di Stuart Gordon e Brian Yuzna si manifesta in tutto il suo disgustoso splendore. E poi... già! Poi c'è Nicolas Cage. In realtà non c'è solo lui. C'è Joely Richardson, protagonista di almeno due scene che mi hanno fatto saltare i nervi. E Madeleine Arthur, veramente brava e intensa. Ma ci si aspetta di sentir parlare di Cage. Nicolas Cage è praticamente diventato il caprio espiatorio di una quantità di film di genere. Per osmosi, sembra che il povero Nicolas sia ormai identificato con il marchio di infamia che definirà un film come pessimo. Quasi come se le sue scelte, la sua stessa presenza, abbiano la stessa caratteristica nefasta del "colore fuori dello spazio". Quella di guastare e trasformare tutto ciò che tocca in qualcosa di indescrivibile nel suo orrore. Beh, non è vero, dai. Nel film di Stanley, Cage è del tutto funzionale al racconto. Ci sarà, nell'ultima parte del film, un momento in cui lo vedremo andare fuori di testa (ma vorrei vedere chiunque in quella situazione) e fare le sue smorfie. Ma mi domando se il regista non lo ha scelto proprio per questo. Per rappresentare la progressiva marcescenza mentale e la trasformazione di un individuo posato e mite in qualcosa di grottesco e privo di senso. Come molti oggi vedono Nicola Cage, dopotutto. Insomma, "The Color Out of Space" è un felice ritorno per Richard Stanley. Potrà non colpire particolarmente, in quanto narra una storia già vista ormai mille volte (anche in numerose varianti del tema), ma dimostra che la poetica visiva del regista è ancora viva e vitale. E il suo progetto di realizzare una trilogia basata sull'immaginario di H.P. Lovecraft non può che ispirarmi un'interessata attesa.