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mercoledì 12 giugno 2019

Fushito: Il mio amore per procura



In Giappone, una giovanissima influencer chiamata Fushito è diventata popolarissima non con un canale di cucina, o parlando di musica. Non realizzando scenette comiche, e neppure commentando fatti del giorno o proponendo tutorial di trucco. La sua ascesa nell'olimpo delle celebrità del web è legata a filo doppio alla vicenda umana di un giovane di diciannove anni, Neruo, già assurto agli onori della cronaca dopo aver tentato il suicidio due volte senza successo. Neruo è perdutamente innamorato di una ragazza (il cui nome non è stato reso pubblico) di una famiglia in vista di Tokyo. Il problema è che la giovane (la chiameremo Rosalina, come il primo amore che causava lo struggimento di Romeo prima di incrociare la strada di Giulietta) di Neruo non vuole proprio saperne. Neruo l'avrebbe incontrata occasionalmente a un concerto e da allora non riesce più a non pensare a lei. Lettere, doni, richieste di appuntamento non hanno sortito nulla, e il giovane, palesemente fragile da tempo, ha intrapreso un lento cammino di autodistruzione, trascurandosi nel nutrirsi, lavarsi, e tentando di uccidersi per due volte consecutive. La prima con dei barbiturici, la seconda cercando di tagliarsi i polsi in diretta su Internet. Oggi, Neruo è irriconoscibile. Magro come un chiodo, coperto di sporcizia come il bambino Pig-Pen delle strisce dei Peanuts, non fa che piangere e pregare la famiglia di Rosalina che gli lascino incontrare l'amata.

Qui entra in scena Fushito.

Fushito è una studentessa di diciotto anni, amante dei manga e dei videogiochi, che fino a poco tempo prima viveva una beata invisibilità planetaria. La vicenda di Neruo l'ha però colpita molto, e per questo ha pensato bene di aprire un canale Youtube in cui ha preso a pubblicare accorati appelli, poesie, canzoni, tentativi di persuasione nei confronti di Rosalina (che finora si è categoricamente rifiutata di incontrarla) e della sua famiglia, affinché Neruo possa ricevere la chance d'amore cui tanto aspira. In poco tempo, Fushito ha scalato le vette di Youtube ed è approdata in televisione.
«Tanta dedizione e senso di sacrificio» dice, «non possono lasciare indifferenti. E' chiaro che Neruo ha molto amore da dare. E se non può riceverlo, tanta sofferenza meriterebbe almeno il premio di poter manifestare il proprio affetto alla persona amata. Soltanto una conversazione, in presenza dei genitori, non mi sembra una pretesa esagerata. E' un ragazzo talmente intelligente e sensibile che sarebbe uno spreco non dargli almeno un'opportunità. Sono entrambi così giovani. Provino a conoscersi. Poi si vedrà.»

Oggi Fushito ha pubblicato un libro intitolato “Il mio amore per procura” e presenzia a raduni di giovanissimi fans in compagnia dello stesso Neruo, che le sta incollato come un vero e proprio simbionte, spesso nascondendo il viso ridotto a una maschera di sporcizia contro il vestito di lei. Fushito sorride al suo pubblico, lo accarezza e porta avanti con pertinacia il suo ruolo di ambasciatrice d'amore. I consigli e gli appelli di migliaia di fans per provare ad approcciare l'inarrivabile principessa sono accuratamente vagliati e quelli ritenuti più persuasivi sono letti pubblicamente. Né mancano i commenti riguardo il fatto che Fushito sia ritenuta più carina della stessa principessa senza nome. E va da sé che le orde di ragazzini sperino in un lieto fine magari alternativo a quello desiderato inizialmente da Neruo.

Non è allucinante?
No, questa non è la realtà. Non è un manga. Non è un racconto. E non è neppure un episodio di “Black Mirror”.

E' un sogno che ho fatto stanotte. 
In qualche modo mi ritrovavo a fare il mio vecchio lavoro (il giornalista) ed ero inviato a questo folle raduno (non era chiaro se in Giappone o durante una trasferta italiana della web-celebrity). Per chi se lo sta chiedendo, Fushito (ma esiste questo nome?) era pienotta, caruccia, capelli raccolti in due code fluenti, e indossava una salopette azzurra. Neruo non si vedeva in faccia, sempre in ginocchio a nasconderle il viso in grembo, e lo si sentiva piagnucolare che la famiglia di Rosalina era “molto tradizionalista”.
A un certo punto succedeva qualcosa di poco chiaro e tutti si spostavano in massa verso l'uscita di questo edifico dove avveniva il raduno. Cercavo di seguire la folla (sì, c'erano un casino di ragazzini, ma anche adulti) e mi bloccavo davanti a un gradino che era in realtà un cornicione sul vuoto. Come avessero fatto gli altri a passare, rimane un mistero. Magari saltavano. Ma io dicevo a me stesso che col cazzo avrei rischiato l'osso del collo per correre dietro a loro. Anzi, mi venivano le vertigini e mormoravo un «Help...» Segno che forse non eravamo in Italia, dopotutto.
E fine. La storia dell'influencer Fushito, dell'innamorato autolesionista Neruo e della principessa senza nome si interrompeva qui.

Per chi se lo stesse chiedendo, avevo mangiato una minestrina e un'orata al forno.


mercoledì 12 settembre 2018

Rain Bus


Viaggiavamo su un autobus, discretamente affollato. Non che ci volesse molto. Era una di quelle vetture piccole, che danno l'idea di essere una specie di taxi allargato. Saremo stati una ventina di persone tra quelle in piedi e i passeggeri seduti. La vettura era vecchia e si vedeva. Non brillava certo per il suo lindore, e i segni del tempo non potevano essere ignorati. Il problema più serio lo dava il tetto del bus. Sfondato al punto di essere praticamente assente. Una vettura scoperchiata, un rudere prossimo alla rottamazione che nonostante tutto marciava e sembrava risoluto a fare il suo dovere fino in fondo. La pioggia battente era il vero dramma. Torrenziale, invasiva. Tanto che avrebbe potuto allagare il bus, se qualcuno non avesse pensato di incastrare un grande ombrello in quella volta sfondata che un tempo era stata il tetto della vettura. Un ombrello davvero grande. Insolito nel suo provvidenziale gigantismo, di colore giallino chiaro che lasciava intuire in trasparenza i colpi delle intemperie. La pioggia lo martellava duramente, ma noi eravamo al sicuro. Lo scroscio accompagnava il cammino del bus fermata dopo fermata, le rade gocce d'acqua che sfuggivano non erano sufficienti a incrinare la regolarità del viaggio. Dal canto mio, sapevo di dover scendere alla penultima fermata e ringraziavo la sorte per la presenza di quella sia pure raffazzonata protezione. Raggiungemmo infine la periferia. La vettura si fermò appena dopo l'incrocio e aprì le bussole per lasciare scendere chi era giunto a destinazione. Fu in quel momento che una signora di mezza età, bionda e dall'aria giuliva, agguantò il manico dell'ombrello. Lo chiuse con un gesto rapido sfilandolo dal telaio della vettura e scese dal bus sorridendo. Improvvisamente flagellati dalla pioggia furiosa, i passeggeri ancora in viaggio iniziarono a imprecare. Lo stesso autista s'era quasi piegato in due, curvo sul volante per sopportare il peso di quella scarica d'acqua cui non poteva sottrarsi a causa della sua incombenza lavorativa. Presto il bus prese ad allagarsi mentre i passeggeri in tumulto cozzavano vocianti l'uno contro l'altro. Una voce tentò invano di essere accomodante. «Che volete farci? L'ombrello era suo. Doveva scendere e basta.» Zuppo come un pulcino, mi rivolsi all'autista per chiedergli di avvisarmi quando ci saremmo avvicinati alla penultima fermata del tragitto. Il povero diavolo, fradicio a sua volta, annuì stillando acqua dai capelli mentre le dita livide stringevano il volante come il collo di una vittima che avrebbe amato strangolare. Il vecchio piccolo bus continuò il suo viaggio nella pioggia. Ecco i sogni che faccio. Ecco cosa succede ad addormentarsi ascoltando suoni ASMR con la pioggia.

domenica 3 gennaio 2016

Linea 103: L'onore delle armi

Palermo, non più capolinea 103... Un minuto di silenzio per la Linea 103 di Palermo. No, non è stata "sospesa" come altre linee della rete bus palermitana. Ma nel cambiamento generale dei percorsi, il suo DNA ha subito una profonda mutazione genetica, e adesso percorrerà il tratto che va da Piazzale Giotto a Piazza XIII Vittime. Insomma, si chiama 103 ma non è più lei, è qualcos'altro. Ignoro se le dinamiche sociali di cui era teatro continueranno a essere rappresentate nel modo di cui sono stato spettatore per quasi vent'anni. Le zone di sosta, i tragitti e - non ultimi - i conducenti, diversi possono cambiare un intero mondo. Che fine faranno i Grilli Sparlanti che gravitano intorno alla stazione Notarbartolo? I loro talk show improvvisati ogni giorno a fianco dell'autista, farcito di commenti sul calcio, espressioni razziste, maschiliste, fascistoidi o semplicemente demenziali? Troveranno un nuovo habitat? Trasmigreranno? Le amicizie con i nocchieri infernali sopravviveranno al cambiamento. Non conoscerò presto la risposta. La linea 103 è ormai fuori dalla mia portata, non farà più parte del mio quotidiano. Una comodità (quando gli equilibri dell'universo erano favorevoli) e un supplizio (quasi sempre) nello stesso tempo. Una finestra sulle miserie umane non indifferente che dal primo Gennaio 2016 si è chiusa. Ed è giusto salutare come si deve questa rubrica. Buon viaggio, linea 103. Chiunque ti guidi, chiunque ti prenda. Tanto a Palermo sei. Non ci credo che cambierai del tutto. Proprio no.




http://altroquandopalermo.blogspot.it/search/label/Linea%20103

giovedì 17 dicembre 2015

Linea 103: Per signore...


Palermo. Fermata bus via Roma, altezza Vucciria. Ecco arrivare la linea 103.

E' una storia vecchia. Quella delle vetture che arrivano alla fermata a pochi secondi l'una dall'altra. Questo fa scattare il dilemma del prigioniero... pardon, del passeggero. La domanda è: l'autista del secondo bus è osservante, sciatto o semplicemente stronzo?

Mi spiego. Le moderne vetture sono spesso discretamente lunghe. Se due di queste si mettono in fila, le porte della seconda resteranno abbastanza fuori dall'area della fermata, e quindi distanti per il viaggiatore in attesa. I casi possibili sono due.

Caso 1: l'autista aspetta che la vettura precedente riprenda la sua corsa, fa qualche metro allineandosi con la fermata. Infine, apre le bussole.

Caso 2: apre le bussole là dove si trova. Quindi a parecchi metri dai poveri coglioni che attendevano il bus regolarmente ad altezza fermata. Soluzione: devi fendere una folla di gente (ma solo a me dà fastidio sbattere addosso a degli estranei? I palermitani sono tutti così estroversi?), se hai un acciacco o sei anziano farti venire il fiatone e raggiungere la vettura prima che richiuda le porte e riparta lasciandoti con un palmo di naso e una bestemmia che frigge in gola.

Da manuale, senza distinzione di linea. Ma qui parliamo della 103 e c'è sempre la sorpresa.

Tagliando corto... il bus avanza un po', ma la bussola di davanti (per capirci, quella in teoria destinata agli abbonati) resta chiusa. La cosa mi scoccia un po'... ma non è niente di terribile. Non c'è folla. La vettura è come sempre semivuota, salgo dalla prima bussola che trovo aperta (anche i più ligi, se stanchi, a un certo punto cedono al lato oscuro e salgono o scendono da dove capita) e mi seggo proprio nei pressi della porta rimasta chiusa, alle spalle dell'autista, mentre rifletto che forse la bussola è semplicemente guasta. Non sarebbe neppure la prima volta che succede.

Vedo, nel frattempo, la donna alla guida della vettura. Un'autista che ho già visto nei giorni passati. A Palermo non ci sono ancora moltissime donne a condurre i mezzi pubblici, e la cosa si fa notare. Quello che noto di più, però, è la presenza del sidekick. Ma sì, della spalla. Insomma... ne ha una pure la signora. I colleghi maschi (gli auriga della 103) hanno sempre una piccola folla di amici che chiacchiera senza sosta né ritegno, neppure l'abitacolo dell'autista fosse una ricevitoria di scommesse. Ho perso il conto di quante volte li ho menzionati in questo diario di un viaggiatore urbano per caso... Beh, la signora alla guida detiene un corrispettivo femminile dell'articolo in esame, un'amica. Una donna tra i trenta e i quaranta, seduta di lato al cruscotto, proprio dentro l'abitacolo dove di norma si chiude il conducente. Questo, in effetti, è una cosa che vedo per la prima volta... ma tant'è. Sono così abituato a sentire sproloqui da stadio, tempeste di razzismo e urla da trogloditi che una signora comodamente seduta di fianco all'autista mi lascia del tutto indifferente.

Non ci sto a pensare più di tanto e cerco di “godermi il viaggio”.

Passano pochi minuti. Giusto un paio di fermate (durante le quali la bussola davanti non si apre neppure una volta). Poi... inizia la festa.

«Tu non apri porta davanti! Tu così lavori? Tu dove credi essere? Tuo salotto? Perché non apri porta davanti?»

La voce, con pesante accento straniero arriva dal fondo della vettura (che cavolo gli frega della bussola davanti, quindi?). Scelgo di non voltarmi, ma ho già capito che il teatrino ha appena alzato il sipario. Dovrei organizzarmi meglio e portare del popcorn.


«La bussola è guasta,» risponde la signora alla guida del bus. «Non è colpa mia. Non si apre.»
La voce alle mie spalle continua a sbraitare, ignorando quanto gli è stato appena detto.
«Tu credi essere in tuo salotto?! Tu lavora male! Tu NON APRI PORTA!»
«Le ho detto che la bussola è guasta. Vede?»
Fa l'atto di spingere il pulsante che dovrebbe aprire le porte davanti.
«E'... GUASTA. Non dipende da me.»
Niente da fare. L'invettiva non si ferma.
E il bus non riparte.
«Tu lavora male... tu non sai guidare... tu non apri porta!»
«Deve scendere o no? Io devo ripartire. Siamo fermi già da un minuto.»
L'autista comincia a perdere la pazienza mentre la nenia «Tu non lavori bene... tu non apri...» continua in loop. Io resisto e non mi volto. Ma la scena mi è descritta dalla stessa autista che a un certo punto contrattacca.
«E poi... dovrebbe scendere dal centro, non dalla bussola in fondo!»
«Tu lavora male... tu non in tuo salotto!»
«Il biglietto lo HA FATTO?»
La signora sta inziando a bollire. Nonostante tutto continua a dare educatamente del lei all'interlocutore.
«Tu parli con tua amica... tu non lavori... VA' A LAVARE PIATTI CHE E' MEGLIO!»
«Senti... VAFFANCULO!»
A rispondere in modo colorito è stata la sidekick, la passeggera... l'amica insomma. La donna seduta accanto all'autista ha perso i freni inibitori. Ha detto la sua. Nell'unico modo a quel punto possibile. Del resto, secondo l'intelocutore... era meglio se lavavano i piatti.

Il tizio comunque scende. Dal finestrino vedo un uomo di mezza età, dalla pelle chiara, con berretto di lana e sciarpa che gli seminasconde la faccia. Non riesco a capire a quale etnia appartenga. Non che abbia importanza. Anche dalla strada continua a lanciare improperi all'autista. Finalmente... dopo alcuni minuti persi inutilmente e un vaffanculo, la vettura riparte.


L'intervallo dura molto poco. Lo spettacolo riprende quasi subito.

Un signore anziano, circa ottant'anni, cappotto scuro, cappello di feltro, ombrello... anche lui un passeggero abituale della linea, si avvicina alla postazione del conducente. Apostrofa l'autista in modo grave.
«Ma lei è così che lavora? Pensa davvero di essere nel salotto di casa sua?»
«Qual è il suo problema, scusi? Ha rilevato qualche disservizio?»
«L'altra signora non dovrebbe sedere qui. Non dovrebbe neppure esserci. E' una vergogna! E' contro ogni regola.»

Ok... qui avrebbe pure ragione...

«Ci sono stati incidenti, signore? Ha bisogno di qualcosa? Deve scendere alla prossima fermata?»
«No. Non devo scendere. Sono venuto a reclamare. Lei si comporta davvero come se fosse nel suo salotto. E lei...» ora si rivolge alla sidekick, «... dovrebbe subito togliersi da lì.»

In effetti... se le circostanze e i modi non fossero così allucinanti...

«Io resto dove mi pare! Chiaro?»

Minchia! I palermitani sono palermitani. Uomini o donne... il marchio di fabbrica si vede.

«Lei lavora veramente male! E poi ha insultato quel signore extracomunitario... che la criticava GIUSTAMENTE!»
«Guardi, la bussola davanti è guasta. Lei ha sentito solo una parte del discorso.»
«Ho sentito quanto bastava. E lei... lei... che si è permessa di urlargli quella parolaccia... una cosa inascoltabile... IN BOCCA A UNA DONNA!»

Forse soddisfatto della chiusa teatrale, il signore anziano torna a sedersi. La sidekick, per evitare altri commenti, decide di alzarsi ed esce dal recinto. Dalle mie spalle sento arrivare un'altra voce, maschile. Non capisco tutta la frase, solo la parola “fimmini”. L'autista è esasperata. La sento mormorare all'amica che una volta giunta al capolinea, chiederà di terminare il turno in quanto la vettura è guasta (sempre la bussola).

Ormai siamo quasi al capolinea quando si verifica un altro classico della linea 103.
La voce, stavolta è femminile.
«Autista! La fermata! L'ho richiesta! Non fa la fermata?!»

Ecco... La sindrome della 103. Alla fine la signora si è omologata. Se tutti i colleghi maschi, conversando di calcio, di immigrazione, di quando c'era lui e di femmine che oggi pretendono di comandare, saltano le fermate prenotate... perché dovremmo aspettarci che una donna sia più attenta mentre conversa con un'amica? Forse perché è solo una, mentre di solito gli uomini si portano dietro un intera osteria schiamazzante? Perché lo hai fatto? Perché hai dovuto scivolare proprio adesso su una buccia di banana che potevi così facilmente aggirare? Perché dargli RAGIONE, CAZZO?!

Scendo dal bus con una sensazione di smarrimento e pieno di domande. Mai avevo visto tanto sdegno, tanto accanimento contro un autista uomo e la sua personale corte di compari. Raramente vedo palermitani ed extracomunitari solidarizzare in modo così passionale. Quale magia è scaturita stavolta dalla meravigliosa linea 103? Quale elemento chimico (di norma assente) ha fatto sì che si manifestasse tanto rispetto per le regole, tanto sdegno perché venivano infrante, e un'inedita solidarietà tra un anziano cittadino e uno straniero, categoria spesso ignorata se non disprezzata?

Il sessimo?
Una generica solidarietà tra maschi?

Già, al volante oggi c'era una donna. E certe parole... “in bocca a una donna” non suonano bene, soprattutto se ti ci manda quando le dici che il suo posto è ai fornelli.

Doveva fare i piatti. E doveva tacere.
Magari stava... stavano... sbagliando.
Ma anche la chimica sbaglia.

E il degrado tracima.


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lunedì 17 agosto 2015

Dimmi come fai


Una volta ho letto che i sogni modellano la realtà.
Era descritto in un fumetto… un po’ particolare. Se mille individui sogneranno la stessa cosa tutti insieme… il mondo cambierà, prendendo la forma del loro sogno comune.

Da allora ci penso spesso. Tutte le volte che inciampo o vedo altri inciampare. I sogni. Li diamo per scontati. Eppure sono importanti. Io per vivere, a lungo, ho venduto fumetti. E i fumetti, come disse un grande fumettista, possono spezzarti il cuore.

Mi chiamo Filippo… Altroquando… e sono morto due anni fa. Ma per molti versi, è allora che la mia vita è iniziata. Circondato da orrore, ho conosciuto l’amicizia e la lealtà. Il sacrificio e il coraggio. E ho capito che l’Umanità non è una specie. Ma una condizione da conquistare.
Non è facile. Proprio per niente. E la vita non ti aiuta. Quasi mai. Per questo, da nerd (che in inglese, un tempo, significava solo “perdente”), da malato cronico di sindrome di Peter Pan, mi affido spesso ai sogni. Non quei piccoli squarci di morte tra una veglia e l’altra. I sogni a occhi aperti. Quelli che si lasciano ispirare dalle letture, dall’ascolto di una canzone. Persino dalla TV. Bastoni da passeggio. O una stampella di fantasia per arrivare a fine giornata. Seconda stella a destra… poi dritto fino al mattino.
Spesso non posso farne a meno. Certo. Al mondo c’è un’infinità di gente che ha avuto una storia peggiore della mia. Non a tutti si può dire: quando una cosa va storta, troviamo un motivo per essere contenti lo stesso. Magari funzionasse tutte le volte.
Ma dimmi. Come fai a non aver paura? O sei incosciente… o forse sai che è un sogno.
Io, per esempio, ho paura tutti i giorni. Anche in quel caso, i sogni (i MIEI sogni) mi aiutano un po’. Ricordo le parole di un personaggio celebre che ti spiega che la paura è un superpotere. Il cuore pompa a tutto spiano, il sangue scorre, l’adrenalina dilaga. Puoi correre velocissimo, essere più forte della norma, essere capace di tentare di tutto. Guarda l’altro. Pensi che abbia paura? No. Chi non ha paura è uno sfigato.
L’immaginazione è la chiave. La chiave per accedere allo stato mentale che chiamiamo Umanità. Quella che smuove le montagne. Che salva le anime. E la bellezza… che salverà il mondo. Se non sogniamo non esistiamo. Nel bene come nel male. Persino l’inferno. Che potere avrebbe, se i dannati non potessero sognare il paradiso? Prova solo ad ascoltare per un momento queste voci dentro di te. E se non vuoi ascoltare il suono della mia chitarra… bruciala! Ma che almeno nasca la fiamma.
I Have a Dream! Io ho un sogno.

I Care! A me… importa.
Ma non limitarti a sognarlo. Vivilo.


Oramai già lo sai cosa ti puoi aspettare dai pirati. Non rinunciare al tuo vantaggio.
Non tutti hanno il potere di cambiare il corso degli eventi. E dal potere deriva una grande responsabilità. La responsabilità di fare un passo. Anche solo uno. Basta cominciare. Qualcuno DEVE cominciare per fare la differenza.
Ho la testa farcita di cazzate. Alla mia età c’è chi si vergognerebbe.

Un altro superpotere dell’essere umano, sempre secondo quel personaggio popolare, è la capacità di dimenticare. Dimenticare le cose brutte, le cose traumatiche, e andare avanti. A me questo manca. Ho il problema inverso. Un disturbo raro… che mi impedisce di rimuovere i ricordi superflui. Il passato che non diventa passato. Rivedo tutta la mia vita come se fosse registrata su un VHS, e non è sempre una cosa carina… non ti aiuta nelle indagini come racconta la TV. Ti rende solo più difficile perdonare.


Ma anche i difetti si possono domare come cavalli selvaggi. Anche le ossessioni. Si possono cavalcare, dritti verso la meta. Seconda stella a destra.

Ci vuole fantasia per andare avanti.
A volte deve succederci qualcosa di terribile per scoprire quanto siamo forti. O quanto potremmo esserlo.

Non è facile. Mai.

Ma se ci credi ti basta.
Poi la strada la trovi da te.


[di Filippo Messina - brano tratto da (Umanissime) Resistenze - #unbacinoperahmed]

Pubblicato anche su Abattoir.it


domenica 28 giugno 2015

Linea 103: Dopo il Pride...




Palermo. Linea 103. Il giorno dopo del Pride LGBT 2015.


Quello scalcinato Talk Show su quattro ruote chiamato Linea 103, "format di approfondimento" che si colloca nell'area dell'estrema destra più ignorante, mi ha veramente rotto i coglioni. 


Un tempo era "vietato parlare al conducente". Ora il conducente ha la "velina" (nei panni di maturi signori, spesso pensionati che evidentemente fanno avanti e indietro sulla vettura perché non hanno altri hobby). Ho già parlato più volte di loro: li chiamo "grilli sparlanti". Ma sono più simili a scimmie urlatrici. Non solo. Ti tirano anche addosso le loro feci.

Come sa bene chi frequenta la linea, il fatto che la vettura sia spesso quasi vuota, trasforma la linea in un salotto ambulante dove si sente di tutto e di più. Normalmente commenti su calcio e... "politica", inframezzati da osservazioni razziste, maschiliste, omofobe. 

E' il 28 Giugno 2015, il mattino dopo del Pride.

La vettura percorre via Roma, e si commenta quel che resta del Pride (anzi... "a festa ri gay" a sentire i pensatori). In realtà, niente di peggio o diverso da quel che si trova al mattino in Vucciria dopo una notte di eterissima (?) Movida. Bottiglie di birra, rifiuti... Ok, non va bene. Come non andrebbe bene dappertutto. Ma questa è un'altra storia. Qui invece sembra essere tutta colpa "ra festa ri froci". L'autista di turno è lo stesso che vorrebbe riaprire i forni crematori per i Rom. Che cosa ti vuoi aspettare? Che sia tenero con una massa di froci festanti che bevono e ballano? Pensi che le sue cellule grige siano in grado di assimilarli alle masse che popolano la Palermo by night con risultati identici? Ovviamente no.

C'è pure un sidekick aggiunto, che sta più indietro. Vicino a me. Troppo. E parla. Parla. Anzi, strilla.

«Un ci manca nenti... su gay... su vastasi... su alcolizzati... e macari puru trocati!»

Mi piacerebbe dire che non è da me. Ma non è vero. Io mi sforzo di apparire bonario, ma sono un tipo irruento. Forse addirittura violento. Mi costa fatica mantenere il controllo. Anche stavolta ho dovuto fare uno sforzo. Ma all'ennesimo raglio non ci ho visto più. Restando seduto, ho voltato la testa e ho detto al "signore" che "i gay l'aviani tutte... ma che iddu parrava assai". E iddu: "Ma parro giusto". A quel punto gli ho detto chiaro e tondo che mi aveva appena insultato quattro volte. E quando ha mostrato di non capire (ma va?!) l'ho cordialmente invitato ad andare per la sua strada e ad allontanarsi da me. Ha trotterellato fino al posto del conducente, ancora impegnato a cinguettare di bottiglie di birra abbandonate e di... "qualche malattia grave". Più vicino alla materia di cui era fatto, probabilmente si è sentito rincuorato. Avere scoperto di essere stato vicino a un gay, alcolizzato, magari pure drogato, doveva averlo sconvolto assai. Poi, per grazia di Dio, è sceso ed è andato a fare in culo dove gli tocca.

Sono stufo. 
E mi rivolgo direttamente all'azienda Amat di Palermo.

Stufo che chiunque si senta in diritto di sparare stronzate, dando per scontato di parlare di creature mostruose e mitologiche che sicuramente non possono nascondersi vicino a lui, perché le riconoscerebbe. Stanco di sentire inneggiare a forni crematori per rom e immigrati... Stanco di sentire tanta ignoranza, odio, pregiudizio esprimersi senza che nessuno intervenga per condannare la puzza di fogna che avvolge quel bus che sono costretto a prendere (da abbonato) per ragioni pratiche. 
Se questa gente ha il coraggio di sparare le sue stronzate è perché nessuno interloquisce. Nessuno manifesta dissenso. Vedere o sentire qualcosa di sbagliato e non intervenire, è un po' come legittimare. Invito l'azienda AMAT di Palermo a conversare con i suoi dipendenti autisti, a ripristinare un religioso silenzio intorno al conducente (che per inciso, tanto è impegnato a ripetere che il ruolo della donna è quello di lavare i piatti, da saltare sistematicamente fermate regolarmente richieste dai passeggeri) e a rendere le linee dei luoghi confortevoli per chiunque paghi il biglietto. Non solo per ignoranti reazionari in vena di blaterare ad alta voce come fossero in taverna. 

Le opinioni sono le loro. Io non ho nessun dovere di doverle ascoltare mentre viaggio.

Una postilla.
 Per rispondere al cialtrone incontrato sul bus stamattina, quello che diceva che "le hanno tutte... gay... alcolizzati... vastasi... magari drogati... Tutte le hanno!" rispondiamo: No. Qualcosa ci manca. La tua ignoranza. La tua cattiveria. Tutti i tuoi pregiudizi. Che vuoi farci? Siamo esseri imperfetti. E meglio PORCO (e gay) CHE FASCISTA!




mercoledì 20 maggio 2015

Linea 103: Il mio problema (e il problema degli altri)


Palermo. Linea 103. In viaggio. Via Terrasanta.

Sono circa le sei del pomeriggio. Siedo sul bus come al solito, pensando al lavoro che mi attende a casa... e ai gatti, che passano tante ore da soli e non appena mi vedono non mi danno neppure un istante di tregua. Poveretti! Non hanno torto, dopotutto. La vettura fa sosta davanti alla chiesa della Madonna di Fatima. Scorgo dal finestrino un gruppetto di donne Rom che attendono presso la fermata. Salgono in vettura e restano in fondo al bus a conversare tra loro.

Ho un problema. I Rom mi mettono a disagio. Il disagio peggiore è che mi sento in colpa. Vorrei non provare questo imbarazzo, questa opprimente sensazione di fastidio e diffidenza per altri esseri umani. Ragionare sul fatto che spesso siano petulanti, e che mi chiedano denaro che non ho, che a volte rubino, non è sufficiente a farmi stare meglio. Non mi piace sentirmi così. E' come se dentro di me ci fosse una briciola di razzismo che non sono ancora riuscito a eliminare. Ad ogni modo, questo gruppo di donne non mi arreca nessun disturbo. Stanno semplicemente lì, per i fatti loro e viaggiano. Non credo abbiano fatto il biglietto... ma è l'ultima cosa a cui penso. A Palermo non lo fa quasi nessuno e sicuramente non è l'inadempienza dei Rom, ormai non più nomadi, a fare la differenza.
Nel frattempo, il bus è arrivato in via Dante. Una delle donne Rom si rivolge all'autista con la sua cadenza straniera.


«Ci fai scendere, per favore... Visto un'altra linea... Così noi prendiamo quella.»

L'autista dà la risposta consueta.

«Fuori fermata non si può. E' un tratto pericoloso. Poi la responsabilità è mia.»
«Noi dobbiamo prendere altra linea...»
«Ora! Tra poco... Alla fermata.»

Bastano pochi metri, in verità. Il bus si approssima alla fermata. Proprio in quell'istante, sul marciapiede avanza un quartetto di controllori. Il gruppo delle donne Rom manifesta un leggero senso di urgenza.

«Facci scendere... Se no ci fai fare multa!»

La risposta dell'autista non tarda.

«Seeeeeeeee! Siccome vuatri a pagate a multa, veruuuuu?!!!»

La vettura si ferma. Le donne Rom scendono. I controllori salgono. Nessun incidente. Sul bus sono rimasto soltanto io. Abbonato. La breve scena si direbbe conclusa. Invece l'autista ha ancora qualcosa da dire (dopo essersi scambiato saluti, pacche e bacetti con i controllori).

«Siccome iddi pagano i multe! A sintistivu? “Accussì ni fai fari a multa”! Picchì iddi i pagano i multe!»

I controllori non hanno niente da controllare. Sostano nella zona anteriore del bus parlottando tra loro, ma l'autista sembra non avere pace. Evidentemente gli è stato toccato un nervo scoperto.

«Picchì chisti pagani i multe! Seeee! Io grapissi arrieri i forni crematori!»

Uno dei controllori, quello più grasso, sente il bisogno di dare una risposta laconica.

«Sì, fanno schifo.»
Ma all'autista non basta. Deve per forza ripeterlo.

«Io grapissi arrieri I FORNI CREMATORI!»

Scendo dal bus con un pensiero che mi mulina nel cervello.
Nel mondo ci sono cose e persone che per qualche motivo mi suscitano imbarazzo.
Devo imparare a conviverci.
Poi ne esistono altre... che mi causano profondo disgusto e che odio con tutto me stesso.

Tutto sommato... non devo essere poi così male.



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venerdì 20 giugno 2014

Linea 103: Se telefonando...


Palermo. Linea 103. Capolinea.
Quadro primo.

L'autista, una donna sulla quarantina, capelli fluenti di un colore arrabbiato, spende la sua pausa seduta al posto di guida con il cellulare in mano. Volume al massimo.

    - Pronto, ELENA? Sono CATERINA.
    - …
    - Guarda, finirò di lavorare alle 20. Non appena stacco vengo da te.
    - …
    - Sì, tienilo pronto. Non appena rientro in rimessa, alle 20, vengo da te. Come sempre, in via Marzio Teofrasto 5.
    - Alle 20, Elena, sì. Vengo a riprendermelo stasera.
Osservazione estemporanea. Se tra i passeggeri in attesa sulla vettura ci fosse stato un potenziale stalker, Caterina (ma anche la sua amica Elena, residente in via Marzio Teofrasto) avrebbero anche potuto vedersela brutta. Nome dell'una, nome dell'altra, orario di fine lavoro e dettagliato programma delle ore successive. Quando il concetto di privacy e opportunità è solo un'opinione. 



Linea 103. Vettura in movimento.
Quadro Due.

L'autista (auricolare inserito) declama al cellulare. Anche stavolta il volume è senza confini.

    - Che ne so! No, no, è cretina! E' PAZZA! Dice che non pagherà nulla.
    -…
    - Ma più di farla chiamare dall'avvocato che posso fare? E' cretina, ti dico.
    - …
    - Ma che cazzo ne so? Se la casa volessimo venderla... o affittarla... o anche abitarci... Ma lei NON SE NE VUOLE ANDARE. L'avvocato l'ha chiamata ieri, le ha spiegato la cosa... ma niente! E' pazza! Finge di non capire.

Nel frattempo si giunge a piazza Virgilio. La vettura è sulla sinistra della strada. L'autista continua a sciorinare un elenco di carte legali, beni immobiliari e la descrizione di un contenzioso con una misteriosa pazza che non vuole saperne di lasciare la casa. Qualcuno tra i passeggeri chiede timidamente di scendere fuori fermata. Qualcosa che di norma è severamente vietato.
- Lei se ne fotte! Non se ne va da quella casa! NON SE NE VA!

Più che altro sembra che stia parlando con un sordo. Non fa che ripetere come una cantilena i medesimi concetti con un tono di voce sempre più alto.

      - Potremmo affittarla... Venderla... Oppure viverci... MI SONO SPIEGATO!
Bzzzz. Le bussole si aprono, la gente sciama fuori direttamente in mezzo al traffico. Mi scopro a ripensare alla filosofia di Protagora. Al concetto di uomo, misura delle cose, e di come a Palermo le norme siano sfuggenti e mutevoli a seconda di chi è chiamato ad applicarle. Di solito sento gli autisti arrivare quasi a ringhiare per spiegare a passeggeri insistenti che non possono lasciarli scendere fuori fermata, giacché la loro incolumità è una seria responsabilità di chi conduce il mezzo. Osservo i miei concittadini fluire tra le macchine, in un certo qual modo felici di essersi lasciati alle spalle quel monologo surrealista che non porta da nessuna parte.
      - La casa è nostra. E' NOSTRA! Ma lei non lo capisce. NON LO VUOLE CAPIRE. Non paga e non va via. E se la volessimo usare...
E via. La vettura riprende la sua marcia per una città sempre meno ignara di storie che non ha alcun desiderio di conoscere.



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lunedì 26 maggio 2014

Linea 103: Soste impreviste


Palermo, linea 103. Come al solito, al capolinea, in attesa di partire.

«Ma quanto tempo ci metti? Li fai dal parrucchiere?»
«Oh! Iu aiu fami!»

Ma no, torniamo indietro di un minuto e procediamo con ordine.

Che questo bus (che fa un percorso tortuoso e poco frequentato dagli utenti, ma comunque utilissimo) sia una linea “oltre i confini della realtà”, l'ho affermato più volte. E' una porta oltrepassata la quale si accede a uno spazio dove la logica cede il passo al surreale più devastante, dove non esistono regole, dove i freni inibitori cadono... e come tutte le figure mitologiche non è facile da acchiappare, se ci si lascia sfuggire l'ora magica.

Altra figura caratteristica della linea103 di Palermo sono i famigerati grilli sparlanti. Ho parlato ripetutamente
anche di loro. Folletti, gnomi, e soprattutto troll, che infestano come mosche lo spazio vicino a quello dell'autista (con il quale hanno un'evidente confidenza e affinità) dissertando del più e del meno a un volume vocale che spesso non ha niente da invidiare a un martello pneumatico.

Insomma, la sensazione, per il cittadino medio che prende il bus, è quella di essersi avventurato per errore in un salotto estraneo, dove un gruppo di amici, vitelloni e disinibiti a prescindere dall'età anagrafica, fanno fragorosa comunella, con inossidabile solidarietà al derelitto compare che ha la sventura di lavorare conducendo una linea pubblica attraverso la città.

Tutto questo è il canovaccio di base. Il teatrino dei troll su ruote apre il sipario prevalentemente il pomeriggio, e il viaggiatore (condannato innocente all'ascolto forzato di tali armonie) una volta giunto a destinazione, si trovetrà erudito su una quantità di dettagli personali che non gli competevano né interessavano affatto.

Poi, beh... ci sono le eccellenze.
Il colpo di teatro.
Il virtuosismo.
Il capolavoro, insomma!

...l'episodio che più di altri ti rode il culo, e ti fa chiedere a chi potresti fare ingoiare il costoso abbonamento ai mezzi pubblici che conservi in tasca.

Vettura praticamente vuota, come quasi sempre alle 18 del pomeriggio. Ad attendere la partenza del bus: il sottoscritto e una ragazza di colore. L'autista sale ridendo in compagnia di ben tre esuberanti compari che – per gli abitué è subito chiaro – faranno tutto il tragitto con lui. Non perde tempo, e senza troppi complimenti si rivolge alla ragazza nera.

«Ma li fai da sola... o dal parrucchiere?»

Si riferisce alla pettinatura rasta, a treccioline fittissime, tipiche di alcune etnie di origine africana. In effetti sono spettacolari. La ragazza risponde velocemente che no, li intreccia da sola, e che la procedura è meno lunga di quanto possa sembrare. L'autista sembra seriamente interessato. Il più anziano dei suoi amici (quello che sembra più composto) afferma che la pettinatura della giovane è un'opera d'arte. Se non altro, il nonno è galante. L'autista rilancia.

«Ma quando fai lo shampoo li tieni sempre così?»

La ragazza conferma.

«Sta' attenta, stai. Così ti restano tutti bagnati dentro le trecce. Male ti fa! E' così che viene l'artrosi cervicale. Accura!»

Ripete questa sentenza un paio di volte. Quindi, esaurito il paternalismo, si mette al volante e la vettura parte tra urla e sghignazzi. Cerco di rilassarmi, seduto al mio posto, guardo fuori dal finestrino e ripasso mentalmente le cose che dovrò fare una volta sceso dal bus. D'un tratto, ecco che la vettura si ferma, nel bel mezzo della strada, lontanissima da qualunque fermata.

«Picchì ti frmasti?»
«L'amico 'cca avi pitittu!»

La bussola davanti si apre. Uno dei troll scende, gira intorno alla vettura e s'incammina neanche troppo speditamente verso un panificio dall'altra parte della strada.


«Dicia ca scunucchiava du pitittu!»

Guardo l'orologio mentre i minuti passano. La vettura è ferma sul lato di una strada trafficata. Simili a fantasmi sfuggenti, mi attraversano la mente chimere come il famigerato “non parlare al conducente” e il divieto di scendere fuori fermata. I minuti passano. Non molti. Ma abbastanza, per me che ho premura, per me che ho pagato la corsa. Nell'attesa che l'amico abbia fatto la sua spesa personale, autista e troll rimasti continuano i loro ragionamenti e le loro risate. Che c'è di strano? In fondo è il soggiorno di casa loro. Io e la ragazza con l'acconciatura a treccine restiamo seduti. Non abbiamo necessità di acquistare il pane. Né le sigarette o altro. E neppure di fare pipì. Speriamo solo di arrivare a destinazione, quindi non possiamo fare altro che stare seduti ad aspettare. Finalmente il troll ca scunucchiava du pitittu torna con una busta piena di pane. Cosa strana, non ne mangia neppure un pezzetto. Si sarà strafogato di qualcosa dentro il panificio? Non è impossibile. Il tempo non gli sarebbe mancato.

E alla fine la vettura riparte. Verso nuove avventure. Nuovi spettacoli palermitani. Alla scoperta di strani, nuovi mondi. E di quella cosa aliena chiamata civiltà.



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domenica 3 novembre 2013

Linea 103: Nord e Sud


Palermo. Linea 103. Capolinea.

Come sempre, la vettura è quasi vuota.
Nel prendere posto, incontro uno degli autisti che, in attesa di partire, conversa con un giovane immigrato, forse indiano. I toni del discorso sono rozzi, ma tra i due non c’è vera tensione. So dai viaggi precedenti che il giovane è un passeggero abituale del bus, conosciuto dalla maggior parte degli autisti che, di norma, lo trattano in modo amichevole, sebbene paternalistico.

- Devi piantarla di addormentarti sull’autobus, capito?
- Ma... io... stanco...
- Non importa, devi restare sveglio. Se me lo combini un’altra volta, ti arriva una secchiata d’acqua. Poi non dire che non ti ho avvertito.
- Ma io... sonno...
- Se dormi, e mi capita di fare una frenata brusca... Ti sfasci il muso per terra, capito?! E la responsabilità è mia. Quindi non azzardarti a dormire. Giuro. Se ti becco un’altra volta a russare, la doccia ti faccio.

Dalla bussola aperta sale un nuovo passeggero. Si tratta di una donna di mezza età, biondastra, dinoccolata, ben vestita. Anche lei visibilmente assonnata. Si rivolge all’autista con un marcato accento emiliano.

- Mi scuuusiii, dovrei andaaare al palaaazzo del reeeettoraaato. Lo Steri di Paleeermooo. Questa liiinea ci va, veeero?

L’autista esita un attimo. Tenta di rammentare dove si trovi esattamente il rettorato. Suggerisco istintivamente.

- E’ a piazza Marina.

La signora conferma.

- Mo siiì, è là deeevo andaaare.

L’autista sorride.

- Che vuole farci? Sono un po’ ignorante.

Torna a conversare con il giovane indiano e a raccomandargli di non addormentarsi. Il tono della conversazione si fa sempre più scherzoso. Anche troppo.

- Non dormire, intesi. Io ti controllo. Lo vedo che stai per chiudere gli occhi.
- Cooome tra poooco farò anch’iiio.

A parlare è stata la signora del Nord. Si mette a sedere palesando torpore.

- C’è un conveeegno allo Steeeri. Oggi dovrebbe finiiire. Mo sooono stanca anch’iiio. Tra poooco potrei cadere addormentaaata come quel ragaaazzo.

- E’ un bravo ragazzo, signora. E’ impiegato. Ed è sposino. Di giorno lavora. La notte fa... il suo dovere. Mi sembra chiaro che abbia sonno. Ma tu non azzardarti a dormire, sai! Nel caso della signora chiuderei un occhio. Perché è una turista... Ed è un caso eccezionale... Ma tu non provarci...

- Ah! Mo da cooosa l’ha capiiiiiito che sooono una tuuuriiista.

Seguono vaghi convenevoli, che ci spiegano che la signora è di Bologna, che si trova a Palermo da qualche giorno per seguire un convegno medico. Si parla delle attrazioni della città. La signora del Nord ha fatto un piccolo tour con degli amici, ma è davvero assonnata e non sembra gran che entusiasta.

- Sì. Ieri seeera a Mondello, ovviameeeenteee. M’han fatto vedeeere questo, quest’aaaltro. Per mangiare, ieeeri c’era il catering del conveegno. Mo staseeera nooo. Andremo fuooori do qualche paaarteee.

- E cci piace a Sicilia, signò.

Brevissima, stranissima pausa. Giusto il tempo che ci vuole a un neurone per ruttare.
La sciura sbadiglia, stiracchiandosi sul sedile.

- Le diiirò. Per meee... la Siciliaaaa... un terremooooto, un mareeemoooto, ci vorreeebbe, che la facesse scivolaaare fino alle coooste dell’Africa. Dovrebbe finire E RESTARE lì, la Siciiiiliaaa.

E’ seguito un istante di gelo. L’autista e io ci siamo scambiati un rapidissimo sguardo fatto di sconcerto, imbarazzo e (almeno dal mio punto di vista) disgusto. Ma la “signora” non aveva ancora finito di farsi conoscere.

- A meee piacciono gli uomini che lavooorano. Non quelli che alle 14 hanno già finito e non fanno più un caaazzooo.

E sì, perché la sciura biondastra, slavata, dinoccolata, ben vestita e pure laureata, oltre ad avere becere uscite razziste, ha anche spesso il cazzo in bocca. Pure un bel “minchia” a un certo punto fa la sua comparsa sbarazzina su quelle impunite labbra dipinte.

- Perché quiii non faaate una miiinchia, e vi fooottete tutti i nooostri soooldi.

L’autista sogghigna. Si trova sul luogo di lavoro, deve pensarci bene prima di prendere di petto un utente del servizio.

- Emmm... Noi qui... lavoriamo tutto il giorno. Quindi... dovremmo essere a posto.

La sciura fa spallucce e si dispone come se volesse davvero lasciarsi andare e dormire durante il viaggio. Mi chiedo se è il caso di dire qualcosa. Magari una battuta bruciante. Ma siamo ancora al capolinea, mi tocca fare tutto il viaggio con questa creatura seduta vicino e non ho nessuna voglia di far partire un dibattito che non porterà altro che frustrazione. Però ho come un presentimento, gli sviluppi di questo teatrino promettono di essere interessanti. Così scelgo di attendere, e osservare. L’autista ha assunto un atteggiamento difficile da decifrare. Sembra tra l’imbarazzato e il divertito, con una punta di stizza. La butta sui luoghi comuni, ridacchiando.

- A nuatri invece PIACCIONO le bolognesi, signò. Io ci avissi proprio voglia di mangiare un beddu piatto di gnocchi alla bolognese. Ma dove andare per trovarli buoni?

La “signora” ovviamente non ha dubbi.

- Mo a Bolooognaaa, mio caaaro.

Intanto s’è fatta l’ora della partenza. Il bus si muove. Il giovane indiano sta veramente per addormentarsi. La “signora” non è da meno. Presto socchiude gli occhi. Mi scopro a pensare che non le ho visto obliterare il biglietto. Certo, potrebbe essere abbonata, o avere in borsa un ticket ancora valido da una precedente corsa. Eppure chissà perché la sua stucchevole volgarità di leghista impudente mi fa attendere un colpo di scena. Uno sviluppo ideale. Qualcosa che darebbe un senso al mio silenzio, alla mia attesa cinese per le sorti del nemico e allo stomachevole frangente tutto.

Attraversiamo il centro. Superato il Teatro Massimo, un sonoro: “Buon pomeriggio, signori” segnala l’ingresso in vettura di due controllori. Durante il tragitto, il 103 non si riempie mai molto, e il controllo si svolge rapidamente, in questo caso senza incidenti. Almeno finché la sciura non riapre gli occhi, si rizza a sedere, e comincia a frugare nella borsa in modo convulso.

- Mooo tu guaaarda! Non trooovo piiù il miiio biglieeetto. Mo le assiiicurooo. Sono saliiita poooco faaa.

Bugia.
La rea colta in fallo cerca istintivamente la connivenza dell’autista.

- Mi ha visto, lei, mentre faceeevo il biglieeetto.

Altra bugia.

L’autista, senza togliere gli occhi dalla strada, accenna un vaghissimo, assenso (si suppone per generico cavalierato o per l’ancor più generico modus palermitano: “Iu un sugnu spiuni”). Ma mentre la “signora” continua a cercare nella borsa e a lagnarsi per aver perso il biglietto appena fatto, lui sogghigna, agita la mano destra tenendo dritti indice e pollice, e sospira: “Un ci l’avi”.

Non resisto. Mi accosto all’autista. Lui intuisce cosa sto pensando e mi rivolge un sorriso sardonico. Gli bisbiglio:

- Giusto per sfogarmi... Per lei la Sicilia dovrebbe scivolare fino all’Africa... Ma viaggiare sugli autobus di Palermo, senza pagare biglietto come un immigrato nullatenente, sembra le piaccia.

I controllori hanno chiesto alla “signora” di esibire un documento e stanno già redigendo il verbale per emettere la multa (salata) che tocca ai passeggeri trovati sprovvisti di biglietto. Mi scopro a pensare che è un toccasana, per una volta, vedere applicare la procedura a questa stronza invece che a uno dei soliti extracomunitari. Il controllore più giovane ha notato il mio scambio di battute con l’autista e gli prende la fregola di inquisirmi.

- Qual è il suo problema?
- Nessuno, pensi un po’.
- No, mi dica. Vuol parlarmi di qualcosa?

E’ chiaro che l’amico ha interpretato il mio rivugghio come insofferenza nei confronti del controllo (in realtà, per una volta, mi trovavo a godere di un piacere sadico nel vedere multare qualcuno).
Dal posto di guida interviene l’autista.

- Niente di serio. Io e il signore avevamo un discorso aperto dal capolinea.
- Ah, ok.

Il giovane sceriffo si fa finalmente persuaso che non sono un pericoloso oppositore del sistema. Si scusa e torna a occuparsi della “signora”.

- Con la ricevuta della multa, signora, può viaggiare. Se dovesse, più tardi, ritrovare il biglietto, potrà contestare la contravvenzione.

- Mooo siiì, graaazieee.

Era chiaro che non avrebbe potuto.


A pochi passi dallo Steri, e dal convegno di medicina cui quella caricatura laureata era diretta, scendo sentendomi un po’ più leggero. Giusto un pochino.

Trovo la dinamica di questo episodio drammaturgicamente esemplare, neppure fosse stato un copione scritto per uno sketch satirico. Il razzismo è sempre sintomo di un infimo livello intellettuale, e questo a dispetto di qualunque teoria o orpello ideologico voglia ammantarsi. La sciura bolognese di cui sopra era probabilmente un’elettrice della Lega Nord, ma questo non è sufficiente a qualificare né il suo personaggio né lo spettacolo miserrimo che ha offerto su un autobus di Palermo. Performance, didascalicamente introdotta dal greve prologo che aveva visto come protagonista un giovane immigrato.

Si può essere leghisti... O meglio... Va bene! Non capisco fino in fondo come si possa esserlo, OK, lo ammetto. Ma diciamo che posso concepire l’esistenza di una visione politica opposta alla mia. Eppure qui, parlare di orientamento politico non basta. La battuta sul terremoto e il provvidenziale slittamento della Sicilia lontano dall’Italia, starebbe bene recitata tra bifolchi in un’osteria del Nord. Qui è una signora (docente o ricercatrice universitaria) in terra di Sicilia, che rivolgendosi agli autoctoni non frena il suo rigurgito razzista, intavolando una conversazione che non solo esprime un capacità di elaborazione perlomeno rozza, ma soprattutto una maleducazione di proporzioni costernanti. Per non parlare dell’idiozia di fondo di chi ritiene di essere toco lasciando libero di spurgare senza selezione qualunque liquame stia ribollendo nell’angusto spazio della sua testa.

Ma parliamo del biglietto... Quel biglietto assente, non pagato e non obliterato, che è costato una multa a questa fine pensatrice. Quel biglietto assente che tanto spesso causa guai (contravvenzione, identificazione in polizia, pubblica umiliazione) a tanti immigrati. Anche se tecnicamente in difetto, in molti casi è lecito pensare che alla base del mancato pagamento da parte di certi individui ci sia una realtà di miseria, un lavoro sicuramente in nero e un goffo tentativo di risparmiare sulle piccole spese, come il biglietto del bus, appunto. Chi ruba per fame e chi per capriccio, forse andranno inevitabilmente incontro alla stessa sanzione legale, ma non certo allo stesso giudizio morale. Di sicuro, non il mio.

Non accetterò mai di mettere sullo stesso piano extracomunitari in palese difficoltà e italiani benestanti. Gente come questa dinoccolata, annoiata e razzista dottoressa bolognese, che si risciacqua la bocca sentenziando sulla Sicilia e sui suoi ignavi abitanti, per poi non pagare il biglietto, incappare nel controllo, far scena e cuccarsi una meritata multa. Esattamente come uno dei tanti immigrati, quotidianamente sorpresi e puntualmente sifonati dagli impiegati dell’azienda.

Una figura di merda. Esemplare nella sua boriosa condotta, che sfoggia una svenevole superiorità culturale per poi cadere rovinosamente con il culo per terra, dimostrando di spregiare le regole, e di saper mentire anche davanti all’evidenza, come un autentico pezzente.

Negli studi antropologici, insegnano a usare la parola etnocentrismo. Termine che indica un atteggiamento che il sociologo o lo studioso di tradizioni popolari deve assolutamente evitare. Quello di rapportarsi ad altre etnie usando come strumento di paragone il proprio retaggio culturale, istintivamente vissuto come il migliore possibile. Un sinonimo neutro per indicare un concetto molto prossimo a quello di razzismo. Peccato che al giorno d’oggi tanta gente frequenti l’Università, consegua dottorati e intervenga a convegni, conservando un tale livello di arretratezza e volgarità. Qualcosa che dovrebbe ricordare a noi italiani del Sud e del Nord, che potrebbe bastare spingersi non troppo lontano per sentirci apostrofare nel medesimo modo riservato agli immigrati che arrivano nel nostro paese.

Tutto sommato ci andrei anche a vivere in Africa. Restare solo con gli italiani... con certi italiani, può essere davvero dura. Adesso ho capito perché nel sentire la sciura snocciolare le sue stronzate mi ha causato una paralisi delle corde vocali.
Per certe cose non esistono parole. Lo aveva capito ed espresso molto bene lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, nel suo libro “Il razzismo spiegato a mia figlia” (Le racisme expliqué à ma fille), con le parole conclusive di quel bellissimo romanzo-dialogo affidate alla voce innocente di una bambina di dieci anni:

«Adesso dirò una brutta parola, papà. Il razzista è un porco.»
«Non è una parola abbastanza brutta, figlia mia.»