mercoledì 23 dicembre 2020

The Leftovers

 


Non so ricostruire che cosa mi abbia fatto scoprire "The Leftovers" (serie TV prodotta da HBO iniziata nel 2014 e conclusa dopo tre stagioni) con tanto ritardo. Forse perché l'anno del suo debutto per me fu particolarmente duro, e la mia soglia di attenzione in fatto di spettacolo era molto bassa. Oppure perché la serie è stata oggettivamente sottovalutata dai più, e mentre la critica e quella fetta ridotta di pubblico che aveva avuto il piacere di scoprirla la elogiava, altri brand dal fandom agguerrito facevano molto più rumore rubandole la scena. Curioso, considerando che tra le tante serie che nel corso degli anni sono state paragonate alla leggendaria "Lost", "The Leftovers" è una delle poche, forse l'unica a meritare seriamente questo accostamento. Pur trattandosi di un prodotto per molti aspetti differente, e nonostante il fatto che la mano di chi scrive, in collaborazione con Tom Perrotta, l'autore del romanzo alla base di tutto, sia quella di Damon Lindelof, cocreatore di "Lost" e suo principale sceneggiatore.

The Leftovers (sottotitolato "Svaniti nel nulla", che poi sarebbe il titolo italiano del libro di Perrotta) è veramente una strana creatura. Tutto ha inizio con la simultanea sparizione di migliaia di persone nel mondo. Una sorta di rapimento mistico (alcuni, almeno, lo interpretano così) del tutto privo di spiegazione. Evento incomprensibile e traumatico, che lascia milioni di persone alle prese con un lutto difficile da elaborare. Figli, mogli, mariti, genitori, amici, sono svaniti senza una ragione apparente. Non si ha idea di quale sia stata la loro sorte, e quello che hanno lasciato è un mondo ferito, diverso, che a tre anni da quell'evento apparentemente soprannaturale è profondamente cambiato. Lo scenario è quello di una società dove tante certezze sono state ridotte in cenere (la sparizione è un evento isolato o potrebbe ripetersi da un momento all'altro?), e dove lo shock planetario ha prodotto una miriade di nuove forme di fanatismo. Per quanto le persone si sforzino di continuare a vivere normalmente, niente è più come prima. E ognuno reagisce come può, secondo la propria storia, il proprio carattere, le proprie ferite.

Damon Lindelof fa tesoro della narrazione frammentata sdoganata da "Lost", ma mettendola al servizio di una storia più compatta (solo tre stagioni, neanche troppo lunghe). Ancora una volta siamo di fronte a un mosaico le cui tessere sono state incasinate, e anche stavolta dovremo attendere che tutti i pezzi vadano pian piano al loro posto. Ma in "The Leftovers" c'è molto più di un accattivante trucchetto narrativo. La regia è sempre molto curata, il cast superbo, e alcuni frangenti hanno il sapore spiazzante di un'opera surrealista. Un po' alla Luis Buñuel, ma a tratti assume anche toni alla Lars von Trier, intinti in un misticismo che ha qualcosa di perverso. Un romanzo corale che presenta una galleria di personaggi dai destini intrecciati, e una serie di avventure singole che si incastrano significativamente nel disegno generale, risultando in qualche caso dei piccoli film preziosi in sé.

Al tono drammatico, si mischia in modo insinuante un vago elemento grottesco (in qualche caso si potrebbe parlare di vero e proprio humor nero), accompagnato dal commento di una colonna sonora spiazzante come la stessa narrazione, fatta di scelte eterogenee, canzoni folk, opera lirica e altro ancora, che contribuiscono a conferire alla serie un alone di intrigante follia.


Un peccato che (così pare) la serie abbia finito col diventare un prodotto d'essay, mancando la ribalta e sottraendo agli attori Justin Theroux e Carrie Coon (attrice teatrale pluripremiata, e prossimamente protagonista al cinema di “Ghostbusters: Legacy”), ma anche al sempre straordinario Christopher Eccleston e a un'imprevedibile Liv Tyler, l'attenzione che le loro performance avrebbero meritato.
Una serie, dunque, della quale mi sento di consigliare spassionatamente il recupero. Aspettatevi tanti pugni nello stomaco. Ma anche un coinvolgimento che vi toglierà il sonno imponendovi di andare avanti. E di innamorarvi di ogni singolo personaggio, anche quelli apparentemente odiosi. Forse soprattutto quelli.





lunedì 21 dicembre 2020

The New Mutants: Nuovi mutanti... Anzi, vecchiotti

 


«L'ho visto ieri. E' davvero molto brutto. Indifendibile!»

Quando senti queste parola da una persona che ha fatto del cinema la sua professione, blogger e podcaster più che in gamba, e persona che hai imparato a stimare, le tue aspettative scendono veramente ai minimi storici. Certo, c'è quella vocina. Quella che dice che... Ok, lei è brava, è preparata, però... Ci sono state anche alcune volte in cui vi siete trovati in disaccordo. Qualcosa che a lei è piaciuto, mentre tu non riesci proprio a mandarlo giù. E poi qualcosa che invece tu adori, laddove lei trova e schiaccia pulci che tu non riesci a vedere neanche se ti sforzi. Quindi... insomma! Magari è una di quelle volte. Diamo un'occhiata a questo The New Mutants”. Non è detto che il film non ti possa se non altro intrattenere...

Beh, scordatelo. Aveva ragione lei. Da vendere. “Indifendibile” era la parola giusta.

Che qualcosa non andasse era nell'aria già da tempo. Il progetto su un film dedicato ai Nuovi Mutanti, le nuove leve del franchise X-Men, già a loro volta un piccolo classico nell'ambito della lunga e complessa epopea mutante di casa Marvel, era entrato in produzione nel 2017, ben tre anni fa. Si parlava addirittura di una trilogia. Come se fosse una sorpresa. Oggi se produci un film di intrattenimento devi puntare alla serialità, avere l'occhio lungo, e promettere narrazioni di grande respiro. Promettere, però, non significa mantenere. E l'occhio lungo dei proposito commerciali spesso inciampa nelle gambe corte di un modello ormai spremuto fino all'osso, nella giusta incertezza dettata dalla precarietà dei diritti sui personaggi e da una creatività ormai esaurita per quanto riguarda le storie di supereroi. Nelle intenzioni della Fox (oggi 20th Century Studios) e del regista Josh Boone (che firma la sceneggiatura insieme a Knate Lee) la trilogia sarebbe dovuta procedere sotto il titolo "Growing Pains" (Dolori di crescita). C'è di più, Boone voleva fare di "New Mutants" un film del terrore, dove i poteri mutanti potessero diventare metafora di paure adolescenziali e incertezza del domani. Qualcosa che più che ambizioso puzzava già di vecchio solo a parlarne, e forse anche un pochino arrogante.


"
Legion", pregevole serial televisivo iniziato nel 2017 e anch'esso ispirato alle serie mutanti Marvel, con le sue atmosfere da incubo e i suoi personaggi surreali, aveva già conquistato questa frontiera, e fare di meglio era una bella sfida. Inoltre, il film del 2019 "Freaks!" di Adam Stain e Zach Lipovsky, con la sua umiltà di mezzi e una scrittura non banale, aveva dimostrato di poter parlare degli stessi temi in modi alternativi e affascinanti. Più nuovi di questi “Nuovi Mutanti” sicuramente.

Tralasciando i ripetuti rinvii, le riprese aggiuntive e tutti quegli incidenti di percorso che gridavano a gran voce che in questo film ormai non ci credeva quasi più nessuno, il risultato finale è davvero imbarazzante. Non è neppure la povertà tecnica del film, considerato che un titolo indipendente come il già citato “Freaks!” riesce a essere grande con delle buone idee piazzate nel posto giusto. Il problema imperdonabile di “The New Mutants” è la scrittura. Particolarmente svogliata, con dialoghi che bucano i timpani. Stereotipati da far paura più di qualunqu ripresa aggiuntiva volta a rendere “più simile a un horror” l'ennesimo, frettoloso filmetto supereroistico. Sì, frettoloso, nonostante la lunghissima gestazione asinina. In definitiva, definire “televisivo” il film di Josh Boone sarebbe ancora un complimento. E' difficile trovare la parola giusta. E' come la compulsione a grattare un prurito insistente, che sta lì a tormentarti, e senti di doverlo eliminare a costo di strapparti la pelle e lasciare una ferita sanguinante. Pensare che tutto, per la non più esistente Fox (dopo l'acquisizione da parte della Disney), era iniziato nel 2000 con i primi due “X-Men” di Bryan Singer, oggi risulta sconfortante. E in fondo, si intuisce, produzione e regista lo sapevano pure. Dai, un accanimento terapeutico di anni, una fugace uscita e poi una velocissima distribuzione in home video, allegato a riviste popolari nelle edicole. Fa addirittua provare un po' di tenerezza, e rimorso all'idea di sparare sulla croce rossa.

Ma quei dialoghi, Dio buono! Quei dialoghi!

Le intenzioni sembrano essere quelle di confezionare un thriller da camera. Ma quegli scambi di battute (forse prese in prestito da una collezione di fotoromanzi degli anni 80) non solo presentano relazioni e dinamiche assolutamente telefonate, ma pongono la pietra tombale su uno script dove la fantasia è un cadavere che i vermi hanno già digerito da un pezzo. Il peccato più grande è che qualche (vaga) ideuzza che avrebbe potuto rendere il film almeno un pochino simpatico per i veri fans c'era. Alcuni inside joke intriganti, la riscrittura di un noto personaggio di secondo piano, il disvelamento graduale dei poteri dei giovani protagonisti. Tutto, però, è gestito talmente male da fare incazzare anche il più indulgente lettore delle saghe mutanti. Anzi, più sei preparato sui fumetti e meno potrai goderti il film. Non per sterili bizze da fan tradito, ma per l'assoluta piattezza della trasposizione, cosa che ti fa prevedere ogni singolo passo dei personaggi con il risultato di non aspettare nulla se non la fine delle tue sofferenze. Molto presto ci viene ricordato che in questa dimensione narrativa gli X-Men esistono e sono famosi. Ok, perfetto, i vip sono dietro i paraventi. Ma qualche sforzo di logica in più sembrava brutto? Ci si potrebbe chiedere com'è possibile che un gruppo di giovani mutanti inesperti dai poteri potenzialmente pericolosi siano affidati a una struttura dove sembra esserci un'unica scienziata-custode. Rinunciate, la risposta non esiste. Dobbiamo accontentarci del fatto che si chiami Cecilia Reyes, e che è una vecchia conoscenza di noi lettori. E purtroppo non è l'unico punto debole del film.


Basta, infatti, conoscere le caratteristiche di un certo personaggio e del suo background fumettistico perché l'intera dinamica del racconto sia scoperta nel giro di un minuto, bruciando il climax prima ancora che incominci e sprofondando tutto in una galleria del già visto. E sì, perché mentre “New Mutants” stava ancora cuocendo a fuoco lento, nei cinema usciva
“IT” di Andrès Muschietti, e qualcuno si faceva venire pessime idee.

Maisie Williams come Wolfsbane sarebbe andata pure bene. Parliamo di un personaggio che soffre il peso di un'opprimente morale religiosa e convive con una mutazione che la rende affine a una belva, una furia primitiva incatenata da una repressione culturale lacerante. Non mi crea nessun problema la scelta di renderla protagonista di un romance omosessuale. Ci mancherebbe. Quello che trovo contraddittoria è la sua sicurezza, fin troppo serena nel gestire il rapporto con l'amata considerate le premesse castranti. Il suo alter ego licantropico avrebbe dovuto essere espressione di pulsioni sentimentali e sessuali che lottano per liberarsi dai condizionamenti di una vita trascorsa all'insegna della repressione. Invece tutto risulta buttato a caso, senza un vero ordine. Il fatto, poi, che la regia scelga di suggerire il suo orientamento sessuale mostrandola mentre assiste rapita a una scena di bacio lesbo in un celebre show televisivo, è semplicemente irritante e nemico della buona scrittura. Anya Taylor-Joy come Illyana è forse quella che rende di più. Ma è tutto da attribuire al suo naturale carisma e non al modo in cui la sua parte è stata scritta. Non si capisce nemmeno come funzionano i suoi poteri. E in effetti, la sua storia non sarebbe stata facile da riassumere neppure per uno bravo.

Non una delusione, in verità. Solo un senso di spreco e di confusione. Ma soprattutto di tristezza. Tristezza per un film nato zoppo, e definitivamente stroncato da ripetuti rimandi che ne hanno solo prolungato l'agonia. Triste per il suo titolo, che contiene la parola “Nuovi”, posta sulla confezione di un prodotto scaduto e ormai, aimé, immangiabile.











lunedì 30 novembre 2020

Mi ricordo carri, maschere... e pazienza!






"Il Carro e la Maschera" è stata una brillante compagnia teatrale bolognese fondata da Luigi Monfredini che, sotto questo nome, allestiva magnifici spettacoli per ragazzi. Ebbi il piacere di conoscerli e conversare a lungo con Luigi ed Elisabetta Muner quando portarono a Palermo "Il compleanno dell'infanta" dal racconto di Oscar Wilde, al Teatro Europa, dove in quel periodo lavoravo. Uno spettacolo coloratissimo basato sull'animazione di marionette e pupazzi di vario genere, musiche originali e una ciurma di attori-animatori davvero in gamba. Le locandine non erano da meno. E mi mangio le mani ricordando che ne conservai una, tenendola appesa per molto tempo nella mia stanza, ma che negli anni è andata, aimé, perduta. Il tocco finale di questo ricordo è che le locandine di molti spettacoli prodotti da "Il Carro e la Maschera" erano firmate da Andrea Pazienza. Quando ripenso ai miei trascorsi, al teatro e ai fumetti che hanno sempre caratterizzato la mia vita, scorgo un fatale filo rouge.


Per inciso: oggi quelle stesse locandine sono in vendita in rete a prezzi discretamente importanti.

mercoledì 11 novembre 2020

Dalla parte di Sadakiyo...



Quando avevo quattordici anni e iniziavo il liceo ero un ragazzino molto schivo. Mi facevo lunghe passeggiate da solo, e posso capire che apparissi strano. Qualche anno dopo venni a sapere che si era diffusa una leggenda metropolitana che mi riguardava. I compagni di scuola affermavano che salissi sui terrazzi dei palazzi cittadini per cercare di mettermi in contatto con gli extraterrestri, sperando che mi rispondessero. Non c'era niente di vero, ovviamente. E' probabile che la cosa fosse nata come uno scherzo, ma nel tempo aveva finito col mettere radici nei ricordi dei miei coetanei e - ebbi modo di appurare - adesso veniva raccontato come un aneddoto reale. Quando, a diciotto anni, scoprii che si raccontava questo, rimasi sconcertato. Mi sorprende ancora di più, però, realizzare che questa "leggenda scolastica" sia praticamente identica alla storia di Sadakiyo, personaggio di "20th Century Boys", magnifico manga di Naoki Urasawa. E mi chiedo se certe storie non nascano nell'immaginario infantile spontaneamente, forse ispirate dai caratteri delle persone, dalle domande che ci poniamo su di loro quando, per una ragione o per l'altra, non riusciamo a conoscerle davvero. In antropologia si parla di poligenesi e convergenza, cioè di un'idea, una tradizione, una suggestione dell'immaginario, che nasce in molte zone geografiche distanti tra loro, ma tende a convergere assumendo aspetti simili in paesi diversi. Magari è un concetto applicabile anche a certe dinamiche dell'adolescenza, e alle fantasie che la accompagnano. Con la differenza che queste cose, nel manga di Urasawa, Sadakiyo le faceva veramente. Io, invece, non le avevo mai fatte. Come che sia, mi convinco sempre di più che i fumetti abbiano influenzato tutta la mia vita, e che stiano continuando a farlo.

lunedì 26 ottobre 2020

Ripensando a The Strain...


Un recupero tardivo, da parte del sottoscritto, quello dell'intera serie TV ispirata a "The Strain", la trilogia letteraria scritta da Guillermo Del Toro e Chuck Hogan. Quattro stagioni che adattano tre romanzi horror dalle venature fantascientifiche, e che particolarmente si prestano al clima autunnale di chi sta aspettando Halloween. La serie si era conclusa già da un po', tra l'altro passando discretamente sotto silenzio nella provincia virtuale dei consumatori seriali. Uno di quei prodotti che macinano una stagione dopo l'altra, arrivando alla loro naturale conclusione senza suscitare clamore, più che in sordina. Lontanissimi dal berciare suscitato da ogni episodio di "Game of Thrones" o di "The Boys", ma anche da titoli più di nicchia, come "Doom Patrol". Forse non sufficientemente pubblicizzato. Forse sottovalutato per via del tema abusato. O forse perché non ha neanche l'ombra di una componente "teen".

Un rimosso mediatico che per lungo tempo ho ignorato anch'io. Anche se forse per motivi differenti ai più. C'è da dire che quando la serie ha esordito (in America su FX, in Italia su Fox) avevo da pochissimo finito di leggere tutti i libri della saga letteraria. I vampiri creati da Del Toro e Hogan non avevano più segreti per me. Ogni personaggio aveva incontrato il suo destino e io ero decisamente satollo. Inoltre, chi mi segue su Youtube sin dall'inizio, forse ricorda quanto mi fece incazzare la girata fantasy (posticcia e contraddittoria) presente nell'ultima parte del terzo romanzo (la spiegazione sull'origine degli strigoi), e il mio rapporto con l'intero corpo narrativo della trilogia ne era uscito vagamente compromesso. Aggiungiamo che avevo completato la lettura dei romanzi in uno dei periodi in assoluto più brutti della mia vita, e il quadro sarà completo. "The Strain" per me era stato consegnato alla memoria. Non aveva nessuna voglia di ricominciare da capo e farmi raccontare tutto in live action. Non in quel momento. Ma il tempo passa, e le cose cambiano.


A distanza di qualche anno, a serie terminata, i tempi erano evidentemente maturi. Senza sapere neanche bene perché, probabilmente influenzato dal parere positivo di altri stimati cultori, ho deciso di dare una chance al "The Strain" di FX, e alla fine l'ho consumato in maniera quasi bulimica, bevendomi un episodio al giorno fino a esaurire tutte e quattro le stagioni. Attualmente, quando si parla di serie TV, sento ripetere sempre più spesso aggettivi come "Perfetto" e "Geniale". E altrettanto spesso non riesco a mettermi nei panni di chi le pronuncia. Bene. Nel caso di "The Strain" non c'è proprio nulla né di geniale né di perfetto. Anzi, è un prodotto pieno di imperfezioni. E a tratti qualche buco logico rischia di ingoiarci per non sputarci più. Eppure è un serial che si fa vedere dannatamente bene. Forse proprio per la sua onestà, la sua capacità di mantenere alto il ritmo, l'assenza di pretese e l'uso di personaggi caratterizzati molto bene. Quei buchi, quindi, alla fine appaiono come dei nei su un corpo che esteticamente, nel suo complesso, si difende benissimo e riesce a risultare più che attraente. Chiedere altro a una serie TV è lecito. Ma bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare. "The Strain" intrattiene, cattura e ti spinge ad andare avanti. Grazie anche alle numerose libertà che si prende rispetto ai romanzi. Cosa, per una volta, saggia e tutto sommato riuscita. Giusto quello che serviva a me per riavvicinarmi a una storia che avevo già approfondito in forma diversa.


Parliamo di uno spunto horror che più classico non si può. L'aereo che atterra a New York e subito interrompe i contatti, spegne le luci e rimane inerte come un antro buio e silenzioso rimanda dichiaratamente a uno degli episodi più iconici del "Dracula" di Bram Stoker. Parliamo di vampiri, dunque, ma i succhiasangue di Del Toro e Hogan hanno qualcosa di diverso da quelli che siamo abituati a frequentare. Niente di romantico, niente di sensuale. Il vampirismo è visto più come una malattia, un virus (e sì) altamente trasmissibile, che muta la fisiologia del corpo ospite dando vita a una forma predatrice che è anche veicolo per ulteriori contagi. I romanzi di Gullermo Del Toro e Chuck Hogan, soprattutto il primo, sono fortemente debitori allo stile di Michal Chricton, e al suo approfondimento scientifico (o fantascientifico), legato a filo doppio alla storia che sta raccontando. I vampiri, insomma, sono descritti in modo molto fisico, come una malattia da combattere. Ed è per questo che tra i principali protagonisti troviamo subito un'equipe di epidemiologi. Ma anche uno zelante e pragmatico disinfestatore specializzato nella derattizzazione.
L'attore inglese David Bradley, sempre grande, è praticamente nato per interpretare Abraham Setrakian, l'anziano rigattiere ebreo, sopravvissuto all'olocausto, che sembra attendere da tempo l'insorgere di un male che ha già incrociato il suo cammino in passato. Inoltre, devo ammettere che uno degli elementi che mi avevano finora tenuto lontano dalla serie era la presenza di Kevin Durand. Attore che, dai tempi di "Lost", per qualche motivo mi ha sempre ispirato un'epidermica antipatia, e che non vedevo tanto nei panni del disinfestatore ucraino Vasily Fet. "The Strain" è stata invece l'occasione per riconciliarmi con Durand, e il suo Fet, per quanto caratterizzato in modo un po' diverso dalla sua controparte cartacea, funziona benissimo. Ma tutto il cast è al posto giusto. E mi sento di dire che la versione televisiva riesce a lasciarsi alle spalle alcune lungaggini presenti nei libri e ad avanzare agile lungo quattro stagioni dicendo tutto quello che aveva da dire senza perdersi per strada.
L'episodio pilota, diretto dallo stesso Guillermo Del Toro, è forse quello più vicino alle atmosfere originali. Ma le deviazioni (meritevoli) dal percorso sono probabilmente riconducibili allo stesso regista messicano, show runner dell'intera serie assieme al corresponsabile Chuck Hogan, scrittore con cui aveva firmato la trilogia. Magari, questo, perché Del Toro funziona meglio sul set che alla scrittura di un romanzo. Non lo so, ma è un'ipotesi da considerare. Infatti, la serie glissa sulla parte mistica (stucchevolissima) che tanto avevo odiato nell'ultimo libro. Proprio non se ne fa menzione (emmenomale!). Aggiungiamo qualche personaggio inesistente nei romanzi, altri che vedono lievitare di molto il loro ruolo (Ruta Gedmintas e Samantha Mathis sono proprio brave). Qualche risoluzione differente, caratterizzazioni rivedute... e "The Strain" si dimostra un prodotto fruibile e godibile sia da chi ha apprezzato i libri che da chi li ha trovati appena sufficienti. Niente che faccia gridare al capolavoro, ma al prodotto di qualità sì. E con il suo bel carico di difetti. Ma parliamo di quei difetti che ti fanno voler bene a un caro amico. Insomma, ho fatto pace con "The Strain". Guillermo Del Toro rimane l'uomo più bello del mondo, e i suoi vampiri "virali" sono tornati per restare definitivamente nel mio immaginario.

sabato 24 ottobre 2020

Super... Trump... Moore...


Fa riflettere il proliferare di immagini in rete che raffigurano supereroi che picchiano il presidente USA Donald Trump. Soprattutto in un momento in cui lo scrittore di fumetti (dovrei dire ex?) Alan Moore (che da sempre si distingue per dichiarazioni e atteggiamenti radicali) afferma che l'attuale successo del filone cinematografico dedicato agli eroi con superpoteri è riconducibile alle medesime dinamiche culturali che hanno prodotto l'elezione di Trump in America e la Brexit in Inghilterra.


A mio parere non c'è né contraddizione né conferma. La cultura popolare è per sua natura espressione di visioni del mondo variegate, ma anche mutevoli. Spesso semplificate, è vero. Ma questo non deve portarci a sottovalutarle. Del resto, sulla prima copertina che lo vedeva protagonista, nel 1941, Capitan America tirava un pugno in faccia ad Adolf Hitler. Si trattava di propaganda, l'espressione mediatica di una paese che aveva appena deciso di entrare nel conflitto mondiale. E che in seguito avrebbe acquisito il discutibile titolo di "gendarme dell'umanità".
Il punto nevralgico è che gli Eroi (con poteri o meno) possono essere adottati da qualunque schieramento politico, qualunque ideologia. Dichiarata, consapevole, o meno, non fa differenza. Quelli della mia generazione ricorderanno (forse) che per lungo tempo la trilogia de "Il Signore degli Anelli" (parlo dei romanzi di J.R.R. Tolkien) era stata adottata come feticcio dalla gioventù di destra. Non per ragioni specifiche, ma perché le imprese eroiche, cavalleresche e votate al sacrificio parlano alla pancia, e molti possono leggerci quello che vogliono. Qualcun altro, prendendo in mano quei libri in tempi più recenti, legge una storia di resistenza contro un male che tutto conquista e corrompe gli animi. Praticamente un totale rovescio della medaglia, considerato anche che per ognuno il male si identifica con il proprio antagonista. I supereroi, soprattutto quelli più moderni, sono spesso indicati come emblema di ansie sociali.


L'Uomo Ragno, un tempo, prima che il giovanilismo del nuovo millennio lo fagocitasse, era metafora di diversità, solitudine e desiderio di redenzione. I mutanti, gli X-Men, nel tempo sono stati consacrati come emblema delle minoranze bistrattate. Eppure parliamo sempre di prodotti commerciali. Prigionieri di una narrazione eterna, compulsiva, che li sfrutta fino ad annichilirne il senso. E per loro natura, pertanto, terribilmente ambigui. Alan Moore, probabilmente, esprime un assoluto riconducibile alle sue abituali posizioni estreme. Questo, però, non significa che la questione sia da liquidare con un'alzata di spalle davanti all'uscita di un eccentrico. Qualcosa di vero, in fondo, c'è. Le storie, i simboli, compresi fumetti e film commerciali, sono totem in cui un popolo si rispecchia. E come in ogni specchio l'immagine appare rovesciata. Quello che dovremmo, potremmo fare, è prendere atto di quanto questo argomento sia sfuggente e ambiguo. Quanto possa cambiare anche a seconda del contesto, storico e culturale, con il quale ci rapportiamo. Non si tratta, dunque, di dare ragione o meno a Moore. Ma semplicemente di non smettere di pensare. E interrogarci su quello che leggiamo, vediamo, fruiamo. Soprattutto se sentiamo di apprezzarlo. Chiediamoci sempre perché. E non pretendiamo di avere una salomonica risposta definitiva. Dubito che esista. Su certi argomenti, le risposte definitive (o presunte tali) sono nemiche del pensiero critico.



A proposito! In questo periodo si possono trovare anche molte immagini di Donald Trump vestito da supereroe, compreso Capitan America.



venerdì 9 ottobre 2020

Altroquando: Archivio e Biblioteca... si lavora!


Problemi (economici), ostacoli (emergenza sanitaria, e piccoli acciacchi personali), ci hanno rallentato, ma non fermato. 


Stiamo lavorando affinché presto si possa ripartire per il nostro bel viaggio. Quella nelle foto è solo una parte del patrimonio della Biblioteca. Dovremo trovare altri scaffali e razionalizzare lo spazio per tutto l'ulteriore materiale (che è tutt'altro che poco). Ma non ci fermiamo. Il progetto, anzi, si fa più complesso. L'intento è quello di dare vita a un "Archivio Altroquando". Una raccolta del materiale che testimonia la storia di Altroquando a Palermo, la fumetteria-libreria, ma anche spazio mostre e punto di riferimento per la controcultura e la realtà LGBTQ. 


Quindi ritagli di giornale che documentano le iniziative prese dal fondatore Salvatore Rizzuto Adelfio in quei vent'anni e più di storia palermitana. Disegni e quadri donati, le cartoline e le tracce delle mostre, e ovviamente gli scritti e le foto di Salvatore. Tutto questo sommato alla biblioteca del fumetto che porta il suo nome. C'è ancora un bel po' di lavoro da fare, ma ne vale la pena. Grazie a tutti quelli che ci sostengono, donando volumi a fumetti o offrendoci caffè virtuali. Ma anche seguendo i nostri approfondimenti sul media fumetto sul canale Youtube che porta sempre il nome di Altroquando. A presto, per aprire le porte di un Altroquando rinnovato, fatto di storie, memorie, creazioni vecchie e nuove e una meravigliosa biblioteca del fumetto.

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