giovedì 21 settembre 2017

Palermo Comic Convention 2017: ai nastri di partenza


Ok, siamo arrivati. Domani inizia il Palermo Comic Covention. Venerdì potrete incontrarmi in giro per la fiera. Sabato alle 15,30 nel padiglione 20 area Youtube, faremo due chiacchiere sulla mia visione del Grande Tubo, di come è fatto di sopra, di sotto e di come, a mio parere sta cambiando. Ma anche di come un soggetto bizzarro come me sia finito lì a parlare di fumetti (Quando non c'entro un tubo... appunto, come s'intitola la conferenza). Domenica, invece, sempre padiglione 20, sempre area Youtube, alle 16, 30 parleremo di serie TV, cinema e animazioni in compagnia di un personaggino con cui di norma ci vediamo soltato in hangout e tanta altra bella gente.
Lo so. Quello che "non c'entra un tubo" sono io. Per tanti motivi. Ma il contrasto a volte è chic. Ci vediamo in fiera, terrestri.

lunedì 18 settembre 2017

In scaffale... alla biblioteca Salvatore Rizzuto Adelfio

Presto la biblioteca Salvatore Rizzuto Adelfio, riorganizzata e riarredata, aprirà i battenti.
Nel frattempo, diamo un primo sguardo ad alcuni dei volumi che potrete trovare in scaffale e leggere gratuitamente.


"Kobane Calling" di Zerocalcare. Il reportage a fumetti che narra del viaggio di Zerocalcare nelle vicinanze della città assediata di Kobane, tra Siria e Turchia, raccogliendo le testimonianze di vita dei difensori curdi che si oppongono allo Stato Islamico. Attualità e dramma filtrati dall'umorismo graffiante dell'autore italiano. Un atto di poesia e di testimonianza storica che restituisce umanità alla percezione della politica internazionale. 

"L'INCAL" di Jodorowsky e Moebius. Oltre la fantascienza. Oltre il fumetto. La metafisica sardonica di Alejandro Jodorowsky e il talento visionario di Moebius. Lo psicomago cileno e l'artista francese danno vita a un cult che trascende i generi. In un futuro ipertecnologico, dove tutto si compra e dove l'etica è ormai un sogno lontano, lo scalcinato detective John Difool si trova invischiato in un intrigo più grande di lui. Più grande dello stesso pianeta. Più grande di tutto. Un oggetto misterioso (ma si tratta di un oggetto?) dai poteri miracolosi. E' l'inizio di un viaggio allucinatorio e meraviglioso, psichedelico ed epico. Che soltanto il sodalizio artistico di Jodo e Moebius poteva produrre.


"MAUS" di Art Spiegelman. Il racconto di un sopravvissuto, il padre di Art Spiegelman, che ha attraversato l'inferno della Shoah passando per il campo di concentramento di Majdanek e poi di Auschwitz. Un'opera fondamentale, a suo tempo premiata con il Pulitzer, che porta la narrazione storica e la testimonianza personale nel media fumetto con una potenza mai raggiunta prima. La trasfigurazione in animali antropomorfi (topi gli ebrei, gatti i nazisti, suini i polacchi) conferisce alla cronaca di questa oscura pagina di storia una dimensione allegorica e universale che trascende il tempo e lo spazio. Da questo romanzo a fumetti è iniziato lo sdoganamento del media, portando l'opera di Spiegelman a essere forse l'esempio di nona arte più famoso presso il pubblico mainstream.



"STURIELLET" di Andre Pazienza. Un'antologia che raccoglie le storie brevi realizzare da Pazienza per le riviste "Zut" e "Tango". Storielline brevi, agrodolci, al gusto di vetriolo, che alternano episodi grotteschi di vita vissuta al resoconto, filtrato dall'ironia, di fatti di cronaca degli anni 80. Incontri epici con figure celebri, diario di trip assurdi e irriverenti sberleffi alla società del tempo. Uno dei tanti modi possibili per accostarsi (o riscoprire) una parte del lavoro di un artista che ha lasciato (troppo presto) un'impronta enorme sul panorama del fumetto d'autore italiano.


"Il pasto nudo" di William S. Burroughs. Uno dei romanzi più sperimentali e sfaccettati di Burroughs. Pubblicato prima in Francia alla fine degli anni 50 e successivamente in America in una versione precedente custodita da Allen Ginzberg. Facciamo la conoscenza degli stati immaginari di Anexia e Terra Libera e l'uso della telepatia per il controllo delle menti, mentre scorrono le vicende surreali e le riflessioni dell'autore protagonista. Una narrazione non lineare e allucinata per parlare di manipolazione culturale e mediatica. 

TEATRO MADRE – di Nino Gennaro.
L'opera di un artista corleonese, Nino Gennaro (conosciuto anche come Fufo dai suoi amici), che ha lasciato una forte impronta nella realtà culturale palermitana, sua città d'azione, e non solo. Scrittore, poeta, drammaturgo, artista provocatore e voce delle istanze LGBT nella Sicilia degli anni 70 e 80, mentre l'Italia viveva fermenti culturali che sarebbero diventati storia. Nino Gennaro scomparve prematuramente a causa dell'HIV a soli quarntasette anni, lasciando un patrimonio letterario e teatrale rimasto a lungo inedito. Per usare le sue parole «forse dopo che sarai morto ti pubblicheranno... In Italia funziona così.»
Chi ricorda i suoi primissimi happening a piazza Pretoria, a Palermo, rammenta anche l'idea innovativa del “Teatro Madre”, e la presenza fuori dagli schemi di Nino Gennaro, che aveva trasformato la sua omosessualità, e il suo carattere esuberante in un veicolo eversivo per l'arte e l'attivismo sociale. “Teatro Madre”, pubblicato da Editoria & Spettacolo nella collana Percorsi, raccoglie un'interessante porzione della produzione teatrale di Gennaro, e rappresenta la testimonianza di una personalità artistica di spicco che visse nella nostra Sicilia in un tempo in cui la creatività spontanea non disponeva degli strumenti attuali per mettersi in vetrina, inventandosi e presentandosi al suo pubblico senza mediazioni né filtri censori. Realizzando di fatto la sintesi di artista e personaggio in un individuo unico e irripetibile. 

Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov. Un capolavoro senza tempo della narrativa russa, leggibile a più livelli. Un'esplosione di divertimento, riflessione storica, satira. Satana giunge nella Mosca del XX secolo e lì si confronta con le corruzioni e ipocrisie della società russa del tempo, e con le sue resistenze culturali che afflissero in vita lo stesso autore. Parallelamente, una rinarrazione "revisionista" della passione di Cristo, e una storia di stregoneria che toglie il fiato per potenza visionaria. Un classico che tutti dovrebbero leggere, in grado di parlare a molte tipologie diverse di lettori.


"Sorgo rosso". La saga di un clan familiare distillatore di vino di sorgo che rivela la potenza narrativa del premio nobel per la letteratura cinese Mo Yan. La Cina feudale, le sue tradizioni e i suoi intrighi. I suoi amori, i sotterfugi, i briganti, le sfide e la via dei cani inselvatichiti, mentre avanza la guerra sino giapponese e le sue atrocità. Visionario, feroce, meraviglioso, sconvolgente e incantevole. Un capolavoro di un grande narratore contemporaneo.

Per sostenere la biblioteca autogestita potete donare libri e fumetti (contattateci alla mail altroquandopalermo@gmail.com) o con una piccola donazione monetaria sul nostro conto Paypal: http://paypal.me/altroquandopalermo
Ma potete anche scegliere di acquistare un titolo ancora assente dallo scaffale e farlo pervenire alla nostra associazione. Grazie a tutti per l'affetto e la solidarietà che dimostrate. Ci sarà sempre un Altroquando.

sabato 16 settembre 2017

Addio a Harry Dean Stanton

E ci lascia anche Harry Dean Stanton. Un attore che non è mai stato una star, ma comunque protagonista di grandi performance. Potremmo ricordarlo per uno dei suoi rari ruoli centrali in "Paris Texas", uno degli astronauti vittime dello xenomorfo in una celebre scena di "Alien", e il sodalizio con David Lynch. "Fuoco cammina con me", il cameo in "Una storia vera" e la partecipazione a "Twin Peaks - il Ritorno". Serie evento che ha raccolto le ultime apparizioni di più attori prossimi alla scomparsa, alcuni dei quali già malati durante la lavorazione. Un volto, una maschera, che ci mancherà.



venerdì 15 settembre 2017

Sul Coming Out di Willwoosh


In queste ore il Coming Out di Willwoosh, il popolare Guglielmo Scilla, giovane astro del web che ha contribuito a dare forma allo strumento Youtube come mezzo di intrattenimento, è – com'era prevedibile – oggetto di discussione.

In alcuni casi, i commenti dovrebbero essere superflui. Dovrebbero, insomma, essere dati per scontati. Ma viviamo nell'era dei social, dove a ogni singolo starnuto fa eco non un convenzionale “Salute”, ma qualcosa di spesso farraginoso e imponderabile. In altre parole, non necessario.

Ed è questo il punto di cui parlerò. Di cosa è necessario e di cosa non lo è.

Il commento in primo piano è: «Lo sapevano tutti. Non era necessario.»

Un commento che si palesa non soltanto tra il pubblico “generalista”, ma anche nell'ambito del mondo LGBT, non nuovo a divisioni interne e ad atteggiamenti variegati.

Il mio commento personale, invece, è: «Anche se fosse?»

Personalmente, sarò ingenuo, ma non lo sapevo. Non ci pensavo. Non mi interessava saperlo. Anzi, in verità da qualche parte del mio cervello immaginavo il contrario, ma senza dare all'argomento una particolare rilevanza. Quello che invece mi chiedo è: perché avrebbe dovuto essere scontato?
Forse per la caratteristica di Willwoosh, comune a tanti altri comici più anziani di lui, di essersi fatto conoscere presentando spesso ruoli “in drag”? O perché qualcuno ritiene che emanasse gaytà nel gestire (io non l'ho mai notata)? Ma la domanda rimane quella: che cosa dovrebbe cambiare?

Dire “tutti sapevano... è la scoperta dell'acqua calda”, che fosse vero o no, significa decentrare completamente il bersaglio e banalizzare il tutto. Svuotare il coming out del suo significato politico e sottovalutare l'effetto mediatico del gesto quando a farlo è un personaggio noto e popolare.

Per questo, io voglio ringraziare Guglielmo Scilla. Ha compiuto un gesto costruttivo. Sì, a prescindere che qualcuno lo sapesse già o no. E' di questa seconda istanza che non m'importa. Sì, francamente, miei cari, me ne infischio della vostra onniveggenza gaya.

Qualche anno fa, alla morte di Lucio Dalla, partì la consueta mascoliata social a base di celebrazioni e detrazioni. Di Dalla, infatti, si sapeva DAVVERO da tempo immemore della sua omosessualità, e qualcuno gli rimproverò aspramente di non aver mai fatto coming out. Da un estremo all'altro, in sostanza. Io stesso ci pensai su. Ricordai il mio vivere nel centro storico di Palermo con la mia immagine di gay dichiarato, ricevendo segni di rispetto o insulti a seconda dei casi, ma senza la protezione della fama e forse anche del benessere economico di cui disponeva il noto cantautore. Il coming out di un personaggio popolare contribuisce a lasciare una traccia nell'immaginario, a spezzare i pregiudizi attraverso la visione di una persona pubblica nella sua complessità di artista e di individuo. Insomma, è un gesto con una forte valenza sociale e non è mai il caso di minimizzarlo. Lucio Dalla scelse di non farlo, e una volta defunto fu oggetto di inutili recriminazioni postume. Inutili in quanto nessuno, nemmeno un vip, un personaggio di spettacolo, è obbligato a fare qualcosa che non vuole fare, e questo a prescindere che le sue ragioni siano condivisibili. E' invece apprezzabile quando lo fa. E ridurre tutto al banale “lo sapevamo già” è solo indice di miopia sociale. Quello “sticazzi” (pure legittimo) gratta solo la superficie di un discorso complesso che ha profonde radici storiche. Un discorso che culmina nei moti di Stonewall e che continua a crescere, tra conquiste e passi indietro, in un mondo che sotto questo aspetto non ha ancora raggiunto l'età matura. Fingere che il coming out non sia importante è a mio avviso sbagliato e controproducente. Una retromarcia verso quella mentalità ipocritamente normalizzante che tende in realtà a spazzare la polvere sotto il tappeto per non essere costretti a guardarla e ammettere che esiste un problema.
Certo, ormai siamo tutti uguali, abbiamo tutti gli stessi diritti, nessuno subisce discriminazioni, certe parole non sono più usate con l'intento di offendere, nessuno... nessuno ci fa più caso.
Beh, chi afferma questo o è in malafede o ha qualche problema.

Mi torna in mente quel fumetto di Zerocalcare sulla “Città del decoro” in cui, parlando d'altro, il fumettista romano dipinse un quadretto tipico del senso comune italiota.

«Io ho tanti amici così... che per primi schifano a questi. Loro sono bravi. Se ne stanno nascosti, come le Tartarughe Ninja nelle fogne. Non come questi che si fanno vedere!»

Quando l'ironia dice tutto. Non cadiamo nella trappola che la lotta per i diritti sia finita, che il coming out (di tutti, famosi e no) non sia necessario. Non banalizziamo episodi mediatici come questo, o avremo fatto l'ennesimo passo indietro. Uno dei tanti che l'Italia ha fatto e sta continuando a fare negli ultimi anni.


E per questo: Grazie, Guglielmo. Per la tua spontaneità, per la tua leggerezza, per il tuo essere da oggi una persona ancora più vera.

mercoledì 13 settembre 2017

Biblioteca Salvatore Rizzuto Adelfio... ormai manca poco.


Nel vivo, i lavori di riorganizzazione e arredo della Biblioteca Salvatore Rizzuto Adelfio a Palermo. Ormai manca poco. Ci sarà sempre un Altroquando.






martedì 12 settembre 2017

Twin Peaks - Il Ritorno: una riflessione finale


L'esperienza “paratelevisiva” (nel senso che per contenuti e forma è più prossima al cinema che alla televisione, per cui è stata realizzata) della “terza stagione” di Twin Peaks si è conclusa. Definitivamente, pare. Niente quarta stagione all'orizzonte, a meno che David Lynch non abbia un'imprevedibile (e improbabile, a questo punto) ripensamento. Un'esperienza allo stato delle cose premiata dalla critica e in ottima parte dal pubblico, pur collocandosi in quella nicchia estranea a giochi dei troni e altri fenomeni più fisiologicamente destinati al vasto pubblico.

Una conclusione, a distanza di ventisette anni, da quella “soap d'autore”, come fu definita, bruscamente interrotta, da quei compromessi tra regista e produzione che inquinarono un evento che avrebbe comunque fatto la storia della televisione e cambiato le regole per molti prodotti che sarebbero venuti dopo. Una conclusione destinata a far discutere appassionati e detrattori. Che sta già facendo discutere, e che merita una riflessione dopo diciotto episodi di grande impatto visivo e concettuale.



Inevitabili, per quanto vaghi, gli spoiler. Pertanto se chi legge non ha visto l'intera serie, è consigliabile fermarsi qui e non procedere nella lettura. Sarebbe un peccato. Qualunque cosa possiate avere sentito, qualunque cosa potreste commentare voi stessi a visione ultimata, che il modo di Lynch di fare cinema e televisione vi piaccia o no. Si deve partire da un fatto. Ai tempi della serie classica, Lynch aveva già un suo stile formato e il suo astro artistico era in ascesa. Non aveva comunque raggiunto l'acme della notorietà e il potere contrattuale di oggi, e questo giocò a discapito delle sorti delle prime due stagioni di “I segreti di Twin Peaks”. Questa nuova serie, dunque, la si può intendere non soltanto come un sequel (o terza stagione), ma anche come una sorta di riscossa artistica. Riscossa nei confronti di un mezzo che aveva in buona parte tarpato un potenziale espressivo troppo rivoluzionario per gli anni in cui arrivava in televisione, influenzandola in ogni caso per sempre.

La domanda che sorge spontanea, che in tanti si fanno... anzi, che in tanti formulano non come quesito, ma piuttosto come affermazione per liquidare il tutto, sarebbe: la narrazione di Lynch ha un senso enigmatico da interpretare o non ha senso alcuno e si limita a un mero delirio visivo? Ma anche: David Lynch conosce davvero il significato di quanto mette in scena o il suo intento è rappresentare i propri incubi affastellandoli a caso con il solo intento di disorientare lo spettatore?

A mio modesto parere, la risposta è...

Chi se ne frega?!



L'arte nel suo complesso, cinematografico, fotografico, pittorico, letterario, si stacca dal suo autore nel momento stesso in cui è posta in essere, e giunge a chi la fruisce come un'entità separata e senza difese, pronta a essere valutata, interpretata, gradita o aborrita. I casi di artisti che producono senza avere la piena consapevolezza di quanto stanno dicendo, in realtà, non si contano. E questo non sottrae nulla (quando c'è, ovviamente) alla qualità della loro arte, e alla possibilità di chi la osserva di decifrarla a modo proprio. Anzi, fa parte del gioco e coinvolge in esso lo spettatore-lettore-ascoltatore. Lo invita farne parte, a diventare autore egli stesso. Dunque è del tutto irrilevante che Lynch abbia architettato ogni singolo dettaglio del suo puzzle (cosa che secondo me ha fatto) o si sia affidato ciecamente alla sua febbre creativa.

“Twin Peaks – Il Ritorno” si presenta come un'opera complessa e dalle molteplici sfaccettature. E' un sequel, e nello stesso tempo è un'opera diversa, che percorre le strade (perdute) della maturità di Lynch. Un'opera trasognata che rilegge i feticci della serie classica in un'ottica più dichiaratamente surreale, chiudendo trame lasciate aperte e aprendone altre che forse non si chiuderanno mai, ma che hanno comunque una loro forte ragion d'essere.

Se la serie classica faceva del tema del doppio (a partire dal titolo) il suo spunto portante, il mosaico di David Lynch qui rivela nuovi incredibili aspetti. Il concetto di “vivere in un sogno”, che cita dichiaratamente Jorge Louis Borges, è soltanto la punta dell'Iceberg. La Loggia Nera, fucina di doppelganger e le tante vite parallele di personaggi vecchi e nuovi, acquistano qui un significato ben più ampio della “dimensione oscura” simbolo del male assoluto descritto nella serie originale. La chiusura di cicli narrativi e il voluto spezzarsi di altri non è casuale e risponde a una simbologia precisa. Così come la metanarrativa che pervade l'intero racconto. A volte scoperto (la partecipazione di Monica Bellucci che interpreta se stessa, o la malattia della signora Ceppo, interpretata dall'attrice Catherine E. Coulson, realmente in fin di vita durante le riprese), altre sottinteso e quasi pirandelliano. Vediamo l'agente Cooper emergere dalla dimensione della Loggia dopo venticinque anni, ma a sorpresa il suo ritorno non trova ad attenderlo soltanto il doppelganger posseduto dallo spirito malvagio di Bob. Già il personaggio di Dougie Jones è dissonante, e sin dall'inizio ci chiediamo la necessità del suo ruolo, il perché di un'ulteriore vita parallela, la ragion d'essere di questa terza incarnazione dell'agente dell'F.B.I. rimasto intrappolato nella Loggia. L'accenno alla parentela di Janey-E, la moglie di Dougie, con l'assistente di Cooper, Diane (la quale afferma che lei e sua sorella hanno intrapreso strade diverse tempo prima e non si sentono da anni) è una chiave di volta. L'indizio dell'esistenza di un cosmo fatto di universi narrativi paralleli che possono sfiorarsi, intrecciarsi, ma rimanendo distinti. Un universo cui appartiene, a suo modo, anche lo spettatore che sta seguendo la serie.

Il viaggio nel tempo di Dale Cooper e il salvataggio di Laura Palmer, dal cui assassinio tutto aveva avuto inizio decenni prima, rapresenta il coronamento del quadro metanarrativo dipinto da David Lynch. Laura non è mai morta, Pete Martell non ha mai trovato il suo cadavere in un sacco di plastica, il corso della storia dovrebbe essere cambiato. Tutto sembra combaciare, ma non è così semplice. A David Lynch non basta fornire questa risoluzione rassicurante della sua opera. Offre invece allo spettatore la possibilità di una scelta. Scegliere dove fermarsi, quale finale eleggere a vera conclusione, ma con la consapevolezza che un finale definitivo non potrà mai esserci. In una linea temporale onirica, Cooper ha evitato la morte di Laura. Ma lo svanire di lei nelle tenebre del bosco e l'eco del suo urlo (proveniente da dove, da quando?) è presagio di altre tragedie. Vediamo quindi Cooper tornare, come aveva promesso, da Janey-E e da suo figlio, e salutarli riassumendo la parlata incerta di Dougie. Un finale tutto sommato lieto, dove l'eroe ha concluso la sua missione, ha salvato la vittima e scofitto le forze del male.

Chi vuole, può accontentarsi di questo.

Ma il discorso cinetelevisivo di David Lynch frantuma ogni regola e va oltre, così come William Burroughs nel suo “Pasto Nudo” infrange schemi letterari e linguistici per creare un proprio mondo. I doppelganger non sono più soltanto dei doppi, malvagi o buoni, ma vere e proprie possibilità alternative per i personaggi, e i cammini ramificati che possono intraprendere sono infiniti.



Lo shock finale ci era già stato anticipato dalla conclusione della delirante storyline relativa a Audrey Horne. Dopo un lungo dialogo debitore alla tradizione del teatro dell'assurdo con un marito che non c'era dato conoscere, alla ricerca di un amante perduto che non conosceremo mai (ma che porta il nome dell'attore Billy Zane, interprete di un interesse amoroso di Audrey nella serie originale), Audrey si ritrova a danzare in un locale pubblico sulle note del tema musicale di Angelo Badalamenti a lei dedicato. Tema che fino a quel momento della serie contemporanea non avevamo ancora sentito. E tutto a un tratto si sveglia ritrovandosi in camice bianco, in una stanza bianca, confusa, spaventata. Un'altra realtà possibile, insomma. E non è neppure detto che la Audrey che abbiamo visto fino a pochi secondi prima fosse la stessa che ricordavamo.

Potrebbe significare che Audrey non era mai uscita dal coma in cui era entrata dopo l'esplosione alla banca avvenuta quasi trent'anni prima, e che tutto quello cui abbiamo assistito fosse un sogno che preludeva al suo effettivo risveglio nel presente. Ma non solo. E adesso viene il peggio. O il meglio, a seconda dei punti di vista.

L'ultima puntata, che potremmo considerare una nota conclusiva, una sorta di epilogo, ci mostra un Cooper più ambiguo che mai, di nuovo scisso da Dougie, consumare un rapporto sessuale con Diane per poi destarsi in quella che si rivelerà essere una realtà alternativa. Non una linea temporale modificata, come il finale dell'episodio precedente avrebbe potuto lasciare intendere, ma qualcosa di ben più alieno. Il biglietto lasciato da Diane, in cui chiama Dale e se stessa con nomi diversi, è un indizio abbastanza evidente che qualcosa non torna. Il ritrovamento di Laura Palmer, che non si chiama Laura, ma è ugualmente perseguitata da una scia di morte e distruzione, ricorda l'entrata in scena della seconda versione di Kim Novack ne “La donna che visse due volte” di Alfred Hitchcock. Una donna uguale eppure diversa. Diversa, ma che potrebbe comunque essere la stessa, o almeno diventarlo. La metanarrativa di Lynch raggiunge il suo apice se si considera (cosa che lo spettatore occasionale non può sapere, o perlomeno non da subito) è il ritrovarsi, una volta giunti a Twin Peaks, presso la casa in cui Laura era vissuta, di fronte alla donna che è l'effettiva proprietaria della location nella vita reale. Ma aldilà del gioco civettuolo, volto a stuzzicare gli appassionati esegeti dell'opera, è presente un'esca intellettuale molto più concreta. Il nome della donna e quello dell'uomo (invisibile per lo spettatore) cui lei si rivolge chiamandolo “Tesoro”, sono gli stessi delle due presenze demoniache, nonna e nipote, presenti nella serie classica.

A quel punto lo smarrimento è totale, sia per lo spettatore che per il personaggio di Cooper (che possibilmente ha riconosciuto i nomi che gli sono stati riferiti) e chiede stordito: «In che anno siamo?»

La voce echeggiante di Sarah Palmer che chiama il nome della figlia, le luci della dimora che si spengono di botto e l'urlo terrorizzato di Laura (lo stesso che abbiamo sentito in lontananza nella puntata precedente) suggellano la fine, probabilmente definitiva, di Twin Peaks.



Cosa vorrebbe dire?

Che Twin Peaks è una grande metafora onirica sulle storie e sui modi possibili di raccontarle. Che la vita, così come nelle “soap” (anche quelle d'autore) non tutto ha sempre senso compiuto, e che le vicende dei personaggi che sfioriamo possono avere una conclusione come esplodere e scomparire a un tratto in una bolla di sapone (sì, “soap”). Perché non sempre nella vita ci sono risposte, e non è sempre il caso di pretendere che le narrazioni seguano regole differenti. La Loggia Nera, più che una dimensione di puro male, è un crocevia del caos. Un punto da cui partono e convergono storie e personaggi che possono manifestarsi in più versioni, una quantità infinita di letture e possibilità alternative, in un ciclo senza fine. Una narrazione mutevole, che potremo ritrovare altrove, in altre storie, di cui Lynch ci mostra gli ingranaggi e il potenziale multiforme. Ma anche i suoi feticci, i suoi archetipi. Come la lotta tra il bene e il male, qui raffigurata dalla dicotomia dei volti di Sarah e Laura Palmer che si aprono mostrando il primo oscurità, l'altro luce. E Laura stessa, salvata in una possibile dimensione narrativa dopo essere stata vittima in quella originale, potrebbe tornare a soccombere, in quanto personaggio iconico, vincolato dalla dinamica delle storie secondo la quale qualcosa di brutto deve accadere affinché la narrazione trovi il suo innesco. Vittima sacrificale necessaria per continuare a narrare altre storie. Comprensibile che Laura-Carrie urli davanti a una spirale infinita di tribolazioni senza le quali non potrebbe esserci racconto.

«Continuo a precipitare per l'eternità» diceva il personaggio nel film-prequel “Fuoco cammina con me”.


Questa la mia personale lettura della “terza stagione” di Twin Peaks. Una lettura che non necessita dell'avallo del regista-autore (qui interamente al timone rispetto all'esperienza di tanti anni fa). E che lascia il tempo che trova, restando la poetica di Lynch qualcosa di criptico e sfuggente, e proprio per questo affascinante.

In passato è stato scritto che «David Lynch o lo si ama per quello che è o lo si rifiuta in blocco.»
Personalmente sono contrario a questa estremizzazione. E non è neppure il caso di offendersi se altri non apprezzeranno la particolarità della narrazione Lynchiana. E' un fatto culturale, inteso come bagaglio di esperienze e forma del gusto dello spettacolo. David Lynch non sarà mai un autore popolare. Non potrà mai mettere tutti d'accordo. E tutto sommato, è una fortuna che sia così.

Non avremmo avuto, altrimenti, opere cinematografiche di rara potenza, e nemmeno questo ritorno a Twin Peaks, del quale certamente si discuterà ancora a lungo.

domenica 10 settembre 2017

IT's FANTASTIC! (ma non solo)



Posso raccontarvi una storia?

Allora... C’era una volta... Ma che storia! Non è una storia normale: questo è un fumetto! Anzi una storia su un fumetto. Meglio ancora, un fumetto che racconta la storia di come potrebbe nascere un fumetto. Che poi, è più che altro la storia di come potrebbe nascere un fumettista, e un fumettista è uno che fa fumetti. Ma un fumettista... è fumettista se fa fumetti... o solo se riesce a pubblicarli? E se li pubblica e basta, è un fumettista o diventa un fumettista solo se qualcuno legge i suoi fumetti e fa partire il passaparola?

Dunque questo è un fumetto che parla di fumetti e di autori di fumetti che non sono autori di fumetti però vorrebbero diventarlo. Ma è anche un fumetto che gioca con altri fumetti e altri media, con stili di fumetto differenti e racconta quindi una storia più grande, fatta di segni, di tipi umani che potremmo incontrare in un fumetto come in un cartone o in un anime... o nella realtà.

Confusi? Calma. Abbandoniamo il citazionismo e Pierino e il Lupo, e ci scusi il buon Prokofiev.
Il punto è che stiamo parlando davvero di un'operazione bizzarra e ibrida, metafumettistica e sotto certi aspetti ammicante al crossmediale. Uno scherzo della Cyrano Comics posto in essere da Enrico Martini alla sceneggiatura e da una ciurma di giovani illustratori (Gabriele Bagnoli, Elisa Ferrari, Michele Righetti e Aldo Tocci) che hanno dato vita a una vera e propria trilogia (It's Fantastic!, It's Problematic!, It's Karmatic!) per descrivere sogni, delusioni, incidenti, speranze e goffaggini di un aspirante autore di fumetti in un contesto a cavallo tra realtà e fantasia, fino a una conclusione spumeggiante che è meglio lasciare dietro le quinte per chi ancora non si è accostato alla lettura.

Se parlando dell'odissea di un fumettista e di contenuti “meta” è impossibile non pensare a Bakuman di Tsugumi Oba e Takeshi Obata, la trilogia che ha inizio con It's Fantastic! conquista una sua identità grazie a un ritmo agile e a una spensieratezza di fondo che colloca il racconto in una dimensione fiabesca, dai toni fracassoni ma tutto sommato ottimisti, dando vita a un piacevole incrocio di stili per quanto riguarda forma e contenuti.


La storia del giovane studente Jonny Faben, del suo amico Ted e dello strampalato clan familiare che lo supporta, rimanda dichiaratamente allo shonen e al cammino iniziatico fatto di inciampi, ruzzoloni e ripresa che i protagonisti affrontano in questo specifico genere giapponese. C'è una ciurma di “losers” solidali (figura amatissima nell'immaginario orientale) in grado, pur sbagliando, di realizzare l'impossibile. Ma c'è anche un ritmo che oltre i manga si rifà agli anime, con soluzioni grafiche surreali che figurerebbero bene in un prodotto animato (in molte scene, leggendo, si ha la sensazione di sentir partire un jingle musicale o il suono di un'onomatopea beffarda). La Cyrano Comics non è sicuramente nuova a operazioni del genere. Cioè la produzione di fumetti italianissimi, ambientati in un'Italia che sembra il Giappone (del resto le nuove generazioni hanno avuto circa trent'anni per iniziare a introiettare feticci, look e vezzi originari della cultura asiatica), e fare da banco di prova a giovani artisti (ognuno dei tre capitoli è illustrato da un disegnatore diverso) palesemente cresciuti a pane e manga.

La trilogia It's Fantastic!, It's Problematic!, It's Karmatic! è una simpatica sinfonia allegra, ben confezionata, che celebra e nello stesso tempo canzona bonariamente il mondo nerd e le dinamiche, spesso caotiche dell'establishment fumettistico. Ma presenta, a sorpresa, anche altri rimandi, coinvolgendo istituzioni e canali che interessano l'universo dei fumetti e dei suoi fruitori sotto ulteriori aspetti. Aspetti, ovviamente, editoriali, ma anche dal punto di vista degli eventi pubblici ormai mitizzati nella percezione di noi italiani e personaggi che in qualche modo da questo ambiente sono stati influenzati e a questo media devono la loro identità pubblica.


Insomma, il trittico della Cyrano è un godibile divertessemant, un esercizio di stile promettente e un riuscito omaggio a tutta la tradizione manga-anime che ci ha cresciuti. Una lettura che piacerà soprattutto ai lettori più giovani, che maggiormente potranno immedesimarsi in Jonny e i suoi compagni di strada, condividendone sogni e inciampi. Ma che fa ben sperare lettori più maturi, davanti a una prova di scrittura e di disegno che può (e a questo punto deve) maturare ancora, dimostrando che, aldilà dei prestiti culturali, una fucina di giovani talenti in Italia esiste, ed è viva e vitale.