Visualizzazione post con etichetta Serie TV. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Serie TV. Mostra tutti i post

domenica 8 aprile 2018

Torna LEGION (la seconda stagione)



L'inizio della seconda stagione conferma tutte le premesse di "Legion". E cioè che ci troviamo davanti a un titolo di origine Marvel decisamente atipico per approccio ed estetica al modo di raccontare i supereroi (o a essere fiscali, i mutanti). Collocato fuori dal canone cinematografico degli X-Men (ma neppure tanto, perché alcuni riferimenti sarebbero perfettamente in linea, ma sono soltanto mantenuti ai margini del non detto), "Legion" è una serie TV che meriterebbe un'attenzione maggiore e che dimostra il vero potenziale che il genere supereroistico avrebbe se solo si mollassero gli ormeggi dell'intrattenimento più collaudato. 


L'annuncio del film sui "Nuovi Mutanti" suggerisce una chiave di lettura horror del mito fumettistico, ma la verità è che questa strada è già stata aperta da "Legion". Il tema della psicosi e della schizofrenia fornisce una chiave allucinatoria per parlare di poteri strani, di complotti labirintici e per portare in scena personaggi visivamente bizzarri, senza chiarire mai del tutto se quello cui assistiamo ha una valenza metaforica, se è reale o frutto di uno dei deliri della personalità frammentata del protagonista. Su tutto aleggia inoltre l'ombra di David Lynch (ma anche di Jodorowsky), premendo il pedale della surrealtà e del viaggio psichedelico più che su quello del superomismo. La memoria torna alla serie britannica degli anni 60 "Il Prigioniero", pur con le sue differenze, per il senso di enigma e di sogno disperato che riusciva a comunicare. Determinanti, in questo, gli ammiccamenti ai fans più attenti, con la rivisitazione delle nayadi di Stepford (personaggi inquietanti creati da Grant Morrison durante la sua run) e il filo conduttore del Re delle Ombre che getta una luce ambigua su ogni parte del racconto.
"Legion" è un prodotto coraggioso, che merita molto pubblico in più, e che ci auguriamo decolli e continui a crescere.




mercoledì 28 marzo 2018

Otouto No Otto - Il marito di mio fratello: la miniserie

"Otouto No Otto" ("Il marito di mio fratello") dal manga di Gengoroh Tagame a una deliziosa miniserie in live action. Per un lavoro a basso budget (ma non necessitava di niente di più), una delle opere ispirate a un fumetto che sto apprezzando di più, con buona pace di superpoteri e tute colorate.
Un solo problema. Mi sta facendo piangere come una fontana.





domenica 26 novembre 2017

Marvel's The Punisher: Impressioni finali


Terminata la visione di questa prima, e per ora unica stagione, la serie Netflix dedicata a The Punisher, si colloca a mio giudizio su livelli molto alti, contendendo il primato a Daredevil, non fosse per la sua natura derivativa e cronologicamente subalterna.
Lo dico, lo accenavo già durante la visione dei primi episodi, perché questa serie mi ha piacevolmente spiazzato. Non sono particolarmente legato al personaggio fumettistico del Punisher, che trovo troppo bidimensionale, e spesso narrato in modo eccessivamente ottuso, cavalcando la spettacolarizzazione di una violenza che sacrifica l'approfondimento narrativo.

Be', tutto questo nella serie interpretata da Jon Bernthal non c'è. Questo Punisher arriva quasi a scrollarsi di dosso l'etichetta di antieroe facendo prevalere la seconda metà di questa doppia qualifica. La violenza è dosata (e badiamo bene, non manca affatto) a favore di un racconto teso, e della caratterizzazione di un protagonista non banale, dove i salti temporali danno a tutto (specialmente nello splatteroso finale) un crescendo da tragedia elisabettiana. L'ossessione onirica del Punisher, la sua fondamentale rettitudine, non erano mai state raccontate così bene. Non in versione live action, almeno. Finora.


Non solo. Per una volta il villain, riconoscibile immediatamente solo da chi conosce bene la fonte fumettistica (e questo, stavolta, non è un difetto) è una nemesi sfaccettata, ben costruita, carismatica e buca lo schermo fino al twist finale sul quale è meglio tacere. Fanservice per i lettori affezionati, chiusura del cerchio per il pubblico più generalista. Un finale in cui il Punitore è il Punitore, ma in modo sottile, non banale.

La serie, inoltre, prende abbastanza le distanze dalle precedenti serie targate Marvel Netflix. Niente Rosario Dawson, nessun riferimento alla battaglia di New York. Solo Frank Castle con la sua storia e un personaggio chiave che fa da legame funzionale (ma non solo) alla sua precedente apparizione nella seconda stagione dedicata a Daredevil.

Per tutte queste ragioni, mi aspetto che a tanti questa serie non piaccia. Proprio perché riesce a rimuovere la fondamentale banalità del personaggio cartaceo, a umanizzarlo e a intrecciare gli aspetti più violenti con un procedere del racconto secondo i criteri del thriller.


Per una volta, una trasposizione che spiazza in modo positivo e arricchisce, a mio modesto avviso, una fonte spesso stereotipata. Un tempo, in qualche redazionale, il Punitore fu definito “ottuso”. Bene. Stavolta non lo è. Ma proprio per niente. E' possibile empatizzare. E senza sentirsi in colpa.

Non era facile, e per questo promuovo Marvel's The Punisher a pieni voti.

domenica 19 novembre 2017

Marvel's The Punisher: Prime impressioni...

Devo ammettere che ero abbastanza prevenuto sulla serie Netflix dedicata a "The Punisher". Il debutto del personaggio, stavolta con il volto dell'attore John Bernthal, nella seconda stagione dedicata a "Daredevil" era stato molto convincente. Ma puntava tutto sulla scelta di affidargli un ruolo da antagonista e non, a differenza dei tre film precedenti, da protagonista assoluto. Questo permetteva un'introduzione graduale di Frank Castle e un crescendo che permetteva di empatizzare con il personaggio nonostante gli aspetti estremi. Dimostrazione che gli adattamenti seriali di stampo televisivo, quando parliamo di alcune trasposizioni dai fumetti al live action, funzionano meglio (almeno per gli appassionati delle controparti cartacee) se centellinate sul piccolo schermo che sintetizzate su quello grande. Ma the Punisher è un personaggio difficile da adattare. Troppe le parentele con icone cinematografiche abusate, tra cui troviamo i vari giustizieri della notte, Rambo e relativa progenie. Una cosa - pensavo - è vedere intrecciare la sua storia a quella del diavolo di Hell's Kitchen, con un parallelismo tra due differenti visioni di giustizia. Altro è narrarlo da solo, abbandonandolo alla consueta orgia di violenza. Beh, forse (dico forse) non è così. Almeno dalle prime tre puntate, la strada imboccata sembra prendere le distanze dal modello sparatutto che avevo paventato. Ed è possibile che proprio questo diventi l'elemento che deluderà alcuni fans di Frank Castle, che magari attendevano qualcosa di diverso. L'azione e la violenza (che non mancano, eh!) si fanno attendere e sono dosate nel corso di una narrazione noir dove ha molta importanza una battaglia mentale, fatta di sotterfugi, interazioni, rivelazioni, e dove gioca un grosso ruolo l'arrivo del personaggio fondamentale di Micro.
L'alternanza temporale e gli inserti onirici che rappresentano l'origine (più complessa di quello che sembrava) e l'ossessione di Frank Castle, permettono ancora una volta di calarsi nella mente di un personaggio sfaccettato, e non di un'ottusa macchina di morte (che in ogni caso esiste, e quando scatta fa veramente paura). Un Punisher, dunque, riflessivo e misurato, ma in senso buono, se la serie conserverà questa scelta ritmica (anche se è probabile che a un certo punto inizieranno le mitragliate e tutto bruci, bisogna vedere con quale conto alla rovescia). Un Punisher, oltretutto, più marvelliano di quelli visti finora. E non soltanto per la presenza di Karen Page o l'inserimento del già citato Micro. Una serie di inside joke e riferimenti potrebbero far sorridere i Marvel fans. Non sono indispensabili, ma siamo pur sempre di fronte a un prodotto di ispirazione fumettistica. E stavolta, più delle precedenti, si guarda parecchio alla fanbase. Vedremo come procederà. Per adesso lo sto apprezzando più delle ultime produzioni Marvel's Netflix. Magari sono in controtendenza, o i prossimi episodi mi faranno cambiare idea, considerato che ormai difficilmente mi entusiasmo per questo genere di prodotti.
Per il momento, mi sento solo di dire, come fa uno dei personaggi: «Bentornato, Frank!»

giovedì 28 settembre 2017

Il ritorno di Shaka Zulu (Grazie, Netflix)


Tra i valori aggiunti della piattaforma on demand Netflix ce n'è uno che forse non sarà riconosciuto dal vasto pubblico, ma che ha un suo peso, e di sicuro – oggi – ha reso felice me.
Parlo del recupero di serie televisive d'epoca. Non preistoriche, ma che difficilmente oggi potremmo rivedere sui canali convenzionali. Titoli di nicchia, ma di grande impatto che meritano di essere recuperati, e dei quali fino a ieri non esistevano versioni sottotitolate.

Oggi, su Netflix, torna finalmente “Shaka Zulu”, serie sudafricana prodotta nell'ormai lontano 1986, trasmessa da Rai Due in seconda serata e (almeno così mi risulta) successivamente replicata solo su reti locali.
La miniserie, che presenta un cast di tutto rispetto, integrando attori britannici allora in auge come Robert Powell, Edward Fox, Christopher Lee e Trevor Howard con esordienti neri di grande talento, narra la saga di re Shaka, noto anche come il Napoleone Nero. Condottiero che nella prima metà dell'ottocento unificò la popolazione Zulu rendendola un esercito dalla potenza temibile, riuscendo a tenere in scacco per decenni le forze colonizzatrici inglesi. Un racconto epico che attinge a una pagina di storia poco conosciuta, basandosi su un romanzo di Joshua Sinclair, ma senza dimenticare gli echi del poema che alla figura di Shaka dedicò il poeta surrealista (e presidente del Senegal) Leopold Sedar Senghor.

La serie TV si apre con quello che oggi definiremmo un flashforward, identificato sin da subito dalla didascalia “Epilogo” e ambientato circa sessant'anni dopo la conclusione dell'avventura militare di Shaka. Davanti alla regina Vittoria, gli eredi dell'impero Zulu assistono al crepuscolo del loro regno, ma per lo spettatore è solo l'inizio di una saga appassionante.

Nel 1986 stavo svolgendo il servizio sostitutivo alla leva (allora funzionava così, almeno se questa era la tua scelta) ed ero impegnato a far da supporto al corpo forestale per spegnere incendi sulle montagne calabresi (le circolari ministeriali del tempo prevedevano l'allontanamento degli obiettori dal comune di residenza tanto quanto i militari di naja). Contemporaneamente, in televisione andava in onda “Shaka Zulu”. Ebbi così occasione di vedere alcuni episodi a spizzico, recuperandoli qualche tempo più tardi in replica su un'emittente locale, trasmessi a orari impossibili.

Da allora, di Shaka avevo perso le tracce. Almeno della sua versione integrale e fruibile. L'avevo a lungo cercato in rete, trovando qualche frammento su Youtube, ma senza il supporto di alcun sottotitolo. Avevo accarezzato l'idea di crearli io stesso, ma la mancanza di fonti e di una base in lingua originale affidabile aveva finito con lo scoraggiarmi. Oggi “Shaka Zulu” torna grazie a Netflix anche in italiano. Non saprei dire con certezza se il doppiaggio sia lo stesso del 1986, ma sembrerebbe di sì. E' possibile che molti storcano il naso davanti a una produzione sudafricana degli anni 80, e sarebbe un vero peccato, data la qualità del prodotto e l'interesse della vicenda storica.

Ricordo e amo la narrazione del cammino iniziale del giovane Shaka, la sua trasformazione da soggetto diseredato a leader crudele e geniale stratega. Il rapporto con la madre Nandi, vera protagonista femminile della vicenda. E la colonna sonora di Margaret Singana, popolare folk singer sudafricana. La canzone che fa da intro a ogni episodio “We Are Growing” (Noi cresciamo), così etnica e potente con le sue sonorità tribali mi era rimasta impressa nella memoria. Ricordo la scena dal sapore quasi fantasy in cui Shaka progetta e fa forgiare quella che diventerà l'arma tradizionale degli Zulu, la lancia dalla lunga lama appuntita e dal manico cortissimo. Il discorso al suo esercito sulla vanità delle guerre tra le diverse tribù, quasi “un balletto” più che un vero scontro militare, in cui le fazioni, ben distanti tra loro, si scagliavano l'un l'altro lance lunghissime senza ferirsi, e restando di conseguenza sempre in una situazione di stallo.



«Noi,» dice Shaka «gettiamo via le nostre armi, nella speranza che il nemico sia abbastanza gentile da restituircele.»

La sua nuova arma diventa invece sinonimo di morte. Il destino per i prigionieri di guerra è l'impalamento, e la ferocia di Shaka è pari soltanto al suo carisma e alla sua genialità bellica. Sotto il suo comando gli Zulu diventarono un impero che l'Inghilterra imparò a temere, e la figura di Shaka un simbolo pericoloso anche dopo la sua scomparsa.

Una storia e una messa in scena anni 80 che a mio parere non è invecchiata di un giorno, e che consiglio di scoprire a chi non era nato o era troppo giovane per apprezzarla.
Oggi si può. E per questo sono grato all'esistenza di Netflix.

martedì 12 settembre 2017

Twin Peaks - Il Ritorno: una riflessione finale


L'esperienza “paratelevisiva” (nel senso che per contenuti e forma è più prossima al cinema che alla televisione, per cui è stata realizzata) della “terza stagione” di Twin Peaks si è conclusa. Definitivamente, pare. Niente quarta stagione all'orizzonte, a meno che David Lynch non abbia un'imprevedibile (e improbabile, a questo punto) ripensamento. Un'esperienza allo stato delle cose premiata dalla critica e in ottima parte dal pubblico, pur collocandosi in quella nicchia estranea a giochi dei troni e altri fenomeni più fisiologicamente destinati al vasto pubblico.

Una conclusione, a distanza di ventisette anni, da quella “soap d'autore”, come fu definita, bruscamente interrotta, da quei compromessi tra regista e produzione che inquinarono un evento che avrebbe comunque fatto la storia della televisione e cambiato le regole per molti prodotti che sarebbero venuti dopo. Una conclusione destinata a far discutere appassionati e detrattori. Che sta già facendo discutere, e che merita una riflessione dopo diciotto episodi di grande impatto visivo e concettuale.



Inevitabili, per quanto vaghi, gli spoiler. Pertanto se chi legge non ha visto l'intera serie, è consigliabile fermarsi qui e non procedere nella lettura. Sarebbe un peccato. Qualunque cosa possiate avere sentito, qualunque cosa potreste commentare voi stessi a visione ultimata, che il modo di Lynch di fare cinema e televisione vi piaccia o no. Si deve partire da un fatto. Ai tempi della serie classica, Lynch aveva già un suo stile formato e il suo astro artistico era in ascesa. Non aveva comunque raggiunto l'acme della notorietà e il potere contrattuale di oggi, e questo giocò a discapito delle sorti delle prime due stagioni di “I segreti di Twin Peaks”. Questa nuova serie, dunque, la si può intendere non soltanto come un sequel (o terza stagione), ma anche come una sorta di riscossa artistica. Riscossa nei confronti di un mezzo che aveva in buona parte tarpato un potenziale espressivo troppo rivoluzionario per gli anni in cui arrivava in televisione, influenzandola in ogni caso per sempre.

La domanda che sorge spontanea, che in tanti si fanno... anzi, che in tanti formulano non come quesito, ma piuttosto come affermazione per liquidare il tutto, sarebbe: la narrazione di Lynch ha un senso enigmatico da interpretare o non ha senso alcuno e si limita a un mero delirio visivo? Ma anche: David Lynch conosce davvero il significato di quanto mette in scena o il suo intento è rappresentare i propri incubi affastellandoli a caso con il solo intento di disorientare lo spettatore?

A mio modesto parere, la risposta è...

Chi se ne frega?!



L'arte nel suo complesso, cinematografico, fotografico, pittorico, letterario, si stacca dal suo autore nel momento stesso in cui è posta in essere, e giunge a chi la fruisce come un'entità separata e senza difese, pronta a essere valutata, interpretata, gradita o aborrita. I casi di artisti che producono senza avere la piena consapevolezza di quanto stanno dicendo, in realtà, non si contano. E questo non sottrae nulla (quando c'è, ovviamente) alla qualità della loro arte, e alla possibilità di chi la osserva di decifrarla a modo proprio. Anzi, fa parte del gioco e coinvolge in esso lo spettatore-lettore-ascoltatore. Lo invita farne parte, a diventare autore egli stesso. Dunque è del tutto irrilevante che Lynch abbia architettato ogni singolo dettaglio del suo puzzle (cosa che secondo me ha fatto) o si sia affidato ciecamente alla sua febbre creativa.

“Twin Peaks – Il Ritorno” si presenta come un'opera complessa e dalle molteplici sfaccettature. E' un sequel, e nello stesso tempo è un'opera diversa, che percorre le strade (perdute) della maturità di Lynch. Un'opera trasognata che rilegge i feticci della serie classica in un'ottica più dichiaratamente surreale, chiudendo trame lasciate aperte e aprendone altre che forse non si chiuderanno mai, ma che hanno comunque una loro forte ragion d'essere.

Se la serie classica faceva del tema del doppio (a partire dal titolo) il suo spunto portante, il mosaico di David Lynch qui rivela nuovi incredibili aspetti. Il concetto di “vivere in un sogno”, che cita dichiaratamente Jorge Louis Borges, è soltanto la punta dell'Iceberg. La Loggia Nera, fucina di doppelganger e le tante vite parallele di personaggi vecchi e nuovi, acquistano qui un significato ben più ampio della “dimensione oscura” simbolo del male assoluto descritto nella serie originale. La chiusura di cicli narrativi e il voluto spezzarsi di altri non è casuale e risponde a una simbologia precisa. Così come la metanarrativa che pervade l'intero racconto. A volte scoperto (la partecipazione di Monica Bellucci che interpreta se stessa, o la malattia della signora Ceppo, interpretata dall'attrice Catherine E. Coulson, realmente in fin di vita durante le riprese), altre sottinteso e quasi pirandelliano. Vediamo l'agente Cooper emergere dalla dimensione della Loggia dopo venticinque anni, ma a sorpresa il suo ritorno non trova ad attenderlo soltanto il doppelganger posseduto dallo spirito malvagio di Bob. Già il personaggio di Dougie Jones è dissonante, e sin dall'inizio ci chiediamo la necessità del suo ruolo, il perché di un'ulteriore vita parallela, la ragion d'essere di questa terza incarnazione dell'agente dell'F.B.I. rimasto intrappolato nella Loggia. L'accenno alla parentela di Janey-E, la moglie di Dougie, con l'assistente di Cooper, Diane (la quale afferma che lei e sua sorella hanno intrapreso strade diverse tempo prima e non si sentono da anni) è una chiave di volta. L'indizio dell'esistenza di un cosmo fatto di universi narrativi paralleli che possono sfiorarsi, intrecciarsi, ma rimanendo distinti. Un universo cui appartiene, a suo modo, anche lo spettatore che sta seguendo la serie.

Il viaggio nel tempo di Dale Cooper e il salvataggio di Laura Palmer, dal cui assassinio tutto aveva avuto inizio decenni prima, rapresenta il coronamento del quadro metanarrativo dipinto da David Lynch. Laura non è mai morta, Pete Martell non ha mai trovato il suo cadavere in un sacco di plastica, il corso della storia dovrebbe essere cambiato. Tutto sembra combaciare, ma non è così semplice. A David Lynch non basta fornire questa risoluzione rassicurante della sua opera. Offre invece allo spettatore la possibilità di una scelta. Scegliere dove fermarsi, quale finale eleggere a vera conclusione, ma con la consapevolezza che un finale definitivo non potrà mai esserci. In una linea temporale onirica, Cooper ha evitato la morte di Laura. Ma lo svanire di lei nelle tenebre del bosco e l'eco del suo urlo (proveniente da dove, da quando?) è presagio di altre tragedie. Vediamo quindi Cooper tornare, come aveva promesso, da Janey-E e da suo figlio, e salutarli riassumendo la parlata incerta di Dougie. Un finale tutto sommato lieto, dove l'eroe ha concluso la sua missione, ha salvato la vittima e scofitto le forze del male.

Chi vuole, può accontentarsi di questo.

Ma il discorso cinetelevisivo di David Lynch frantuma ogni regola e va oltre, così come William Burroughs nel suo “Pasto Nudo” infrange schemi letterari e linguistici per creare un proprio mondo. I doppelganger non sono più soltanto dei doppi, malvagi o buoni, ma vere e proprie possibilità alternative per i personaggi, e i cammini ramificati che possono intraprendere sono infiniti.



Lo shock finale ci era già stato anticipato dalla conclusione della delirante storyline relativa a Audrey Horne. Dopo un lungo dialogo debitore alla tradizione del teatro dell'assurdo con un marito che non c'era dato conoscere, alla ricerca di un amante perduto che non conosceremo mai (ma che porta il nome dell'attore Billy Zane, interprete di un interesse amoroso di Audrey nella serie originale), Audrey si ritrova a danzare in un locale pubblico sulle note del tema musicale di Angelo Badalamenti a lei dedicato. Tema che fino a quel momento della serie contemporanea non avevamo ancora sentito. E tutto a un tratto si sveglia ritrovandosi in camice bianco, in una stanza bianca, confusa, spaventata. Un'altra realtà possibile, insomma. E non è neppure detto che la Audrey che abbiamo visto fino a pochi secondi prima fosse la stessa che ricordavamo.

Potrebbe significare che Audrey non era mai uscita dal coma in cui era entrata dopo l'esplosione alla banca avvenuta quasi trent'anni prima, e che tutto quello cui abbiamo assistito fosse un sogno che preludeva al suo effettivo risveglio nel presente. Ma non solo. E adesso viene il peggio. O il meglio, a seconda dei punti di vista.

L'ultima puntata, che potremmo considerare una nota conclusiva, una sorta di epilogo, ci mostra un Cooper più ambiguo che mai, di nuovo scisso da Dougie, consumare un rapporto sessuale con Diane per poi destarsi in quella che si rivelerà essere una realtà alternativa. Non una linea temporale modificata, come il finale dell'episodio precedente avrebbe potuto lasciare intendere, ma qualcosa di ben più alieno. Il biglietto lasciato da Diane, in cui chiama Dale e se stessa con nomi diversi, è un indizio abbastanza evidente che qualcosa non torna. Il ritrovamento di Laura Palmer, che non si chiama Laura, ma è ugualmente perseguitata da una scia di morte e distruzione, ricorda l'entrata in scena della seconda versione di Kim Novack ne “La donna che visse due volte” di Alfred Hitchcock. Una donna uguale eppure diversa. Diversa, ma che potrebbe comunque essere la stessa, o almeno diventarlo. La metanarrativa di Lynch raggiunge il suo apice se si considera (cosa che lo spettatore occasionale non può sapere, o perlomeno non da subito) è il ritrovarsi, una volta giunti a Twin Peaks, presso la casa in cui Laura era vissuta, di fronte alla donna che è l'effettiva proprietaria della location nella vita reale. Ma aldilà del gioco civettuolo, volto a stuzzicare gli appassionati esegeti dell'opera, è presente un'esca intellettuale molto più concreta. Il nome della donna e quello dell'uomo (invisibile per lo spettatore) cui lei si rivolge chiamandolo “Tesoro”, sono gli stessi delle due presenze demoniache, nonna e nipote, presenti nella serie classica.

A quel punto lo smarrimento è totale, sia per lo spettatore che per il personaggio di Cooper (che possibilmente ha riconosciuto i nomi che gli sono stati riferiti) e chiede stordito: «In che anno siamo?»

La voce echeggiante di Sarah Palmer che chiama il nome della figlia, le luci della dimora che si spengono di botto e l'urlo terrorizzato di Laura (lo stesso che abbiamo sentito in lontananza nella puntata precedente) suggellano la fine, probabilmente definitiva, di Twin Peaks.



Cosa vorrebbe dire?

Che Twin Peaks è una grande metafora onirica sulle storie e sui modi possibili di raccontarle. Che la vita, così come nelle “soap” (anche quelle d'autore) non tutto ha sempre senso compiuto, e che le vicende dei personaggi che sfioriamo possono avere una conclusione come esplodere e scomparire a un tratto in una bolla di sapone (sì, “soap”). Perché non sempre nella vita ci sono risposte, e non è sempre il caso di pretendere che le narrazioni seguano regole differenti. La Loggia Nera, più che una dimensione di puro male, è un crocevia del caos. Un punto da cui partono e convergono storie e personaggi che possono manifestarsi in più versioni, una quantità infinita di letture e possibilità alternative, in un ciclo senza fine. Una narrazione mutevole, che potremo ritrovare altrove, in altre storie, di cui Lynch ci mostra gli ingranaggi e il potenziale multiforme. Ma anche i suoi feticci, i suoi archetipi. Come la lotta tra il bene e il male, qui raffigurata dalla dicotomia dei volti di Sarah e Laura Palmer che si aprono mostrando il primo oscurità, l'altro luce. E Laura stessa, salvata in una possibile dimensione narrativa dopo essere stata vittima in quella originale, potrebbe tornare a soccombere, in quanto personaggio iconico, vincolato dalla dinamica delle storie secondo la quale qualcosa di brutto deve accadere affinché la narrazione trovi il suo innesco. Vittima sacrificale necessaria per continuare a narrare altre storie. Comprensibile che Laura-Carrie urli davanti a una spirale infinita di tribolazioni senza le quali non potrebbe esserci racconto.

«Continuo a precipitare per l'eternità» diceva il personaggio nel film-prequel “Fuoco cammina con me”.


Questa la mia personale lettura della “terza stagione” di Twin Peaks. Una lettura che non necessita dell'avallo del regista-autore (qui interamente al timone rispetto all'esperienza di tanti anni fa). E che lascia il tempo che trova, restando la poetica di Lynch qualcosa di criptico e sfuggente, e proprio per questo affascinante.

In passato è stato scritto che «David Lynch o lo si ama per quello che è o lo si rifiuta in blocco.»
Personalmente sono contrario a questa estremizzazione. E non è neppure il caso di offendersi se altri non apprezzeranno la particolarità della narrazione Lynchiana. E' un fatto culturale, inteso come bagaglio di esperienze e forma del gusto dello spettacolo. David Lynch non sarà mai un autore popolare. Non potrà mai mettere tutti d'accordo. E tutto sommato, è una fortuna che sia così.

Non avremmo avuto, altrimenti, opere cinematografiche di rara potenza, e nemmeno questo ritorno a Twin Peaks, del quale certamente si discuterà ancora a lungo.

domenica 16 luglio 2017

Benvenuta, Dottoressa.


Da quando la serie è stata rilanciata, ogni nuova incarnazione del Dottore suscita noiose polemiche. Oggi tutti fingono di essersene dimenticati. Oppure l'hanno effettivamente rimosso, chissà. Ma io ricordo benissimo che una pioggia di critiche iniziali se le beccò pure David Tennant, ancora troppo poco noto per essere subito accettato quando subentrò a Christopher Eccleston. Il tempo di un paio di stagioni e il successo personale lo rese una delle incarnazioni del Dottore più amate di tutti i tempi. Ma le cattive abitudini sono difficili da smaltire. Mai la pazienza di attendere e vedere come funziona la performance. Lo stesso successe con Matt Smith, ritenuto troppo giovane (ma il cui carisma azzerava l'età anagrafica e lo calava perfettamente nel ruolo). Dopo Peter Capaldi, è arrivato il giro di boa che da tanto tempo si attendeva e/o temeva. Il tredicesimo Dottore è una donna, l'attrice Jodie Whittaker (Broadchurch). Ed ecco partire la consueta litania. La palla sul politicamente corretto, sul fatto che la Whittaker è una pessima attrice (ma dove? Forse non capisco niente io) e amenità varie. Per quanto mi riguarda, sapevo che prima o poi sarebbe successo. Solo non me lo aspettavo questa volta. Chissà perché poi. Comunque sono molto curioso di vedere come sarà caratterizzato il personaggio in questa veste inedita. L'unica cosa che mi lascia perplesso è come sarà gestito il doppiaggio (anche se probabilmente vedrò la prossima stagione in lingua originale come negli ultimi anni). Infatti, in inglese Dottore è un termine asessuato. In italiano no. Chissà come suonerà.

giovedì 8 giugno 2017

American Gods... dalle pagine allo schermo


Mi sono accostato alla versione televisiva di "American Gods" con qualche perplessità. La prima era che difficilmente vengo coinvolto da un adattamento audiovisivo basato su un romanzo che ho letto, di cui conosco personaggi, interazioni e trama. Il fatto di essere uno spettatore quasi onniscente (sapendo cosa dovrà avvenire prima dei protagonisti) di norma non mi rende lo spettatore ideale di questi adattamenti. Li guardo sempre come se per me avessero le polveri bagnate. La seconda erano i consueti cambiamenti estetici nel passaggio dalla pagina al live action. La prosa di Neil Gaiman non è visiva come quella di Stephen King. Gaiman opera molto più con le suggestioni, lavora in sottrazione, lasciando parecchi eventi dietro le quinte, suggerendo al lettore di immaginare le cose, a volte riferite in modo didascalico. Ovviamente, in una serie TV, dove la narrazione avviene soprattutto per mezzo delle immagini, questo cambia drasticamente. E certe soluzioni, che per forza di cose anticipano anche la natura (nel romanzo più sfuggente) di alcuni personaggi, non mi aveva proprio entusiasmato. Procedendo, però, la serie carbura. E paradossalmente, lo fa proprio nel momento in cui inizia a distaccarsi dalla narrazione letteraria. Anticipando eventi successivi, dando un maggiore spazio a personaggi che nel romanzo compaiono per poche pagine, e inserendo sottotrame inedite e funzionali ai ritmi di una serie televisiva. Giusta la scelta di amplificare il personaggio di Laura, che nel romanzo svolge un ruolo fondamentale, ma è narrata come una presenza fantasmatica, molto meno materiale e presente di quella che ci viene mostrata nella serie. Insomma, uno di quei casi in cui le distanze dalla fonte fanno bene all'adattamento. Bryan Fuller alla sceneggiatura sta facendo un discreto lavoro. Certo, le parti storiche, di maggior respiro nel libro, risultano un po' sacrificate, ma si compensa con una buona resa visiva e l'inserimento di variazioni interessanti. Gillian Anderson, ormai lo sappiamo, non è soltanto l'agente Skully della nostra giovinezza. E dopo "American Gods" la sua popolarità è destinata ad aumentare ancora. Nel complesso, episodio dopo episodio, la serie si sta assestando su livelli abbastanza alti. Speriamo prosegua su questa strada, continuando a trasgredire e sorprendere.
E se vi state chiedendo chi è il mio preferito... Ma è ovvio.
E' Chernobog. Lo era anche nel romanzo.



martedì 16 maggio 2017

Sense8... e due.


Sense8 si conferma una delle variazioni sul tema degli X-Men più riuscite, dove tutte le tematiche allegoriche più profonde sono affrontate. Anni luce lontano dall'esito in discesa di Heroes, mostra con fierezza le sue radici letterarie e l'origine del concetto (e della metafora) di mutante. E cioè "More Than Human" (Nascita del Superuomo) di Theodore Sturgeon. Romanzo fondativo da cui discendono icone (a fumetti e cinematografiche) oggi popolarissime, e dove troviamo la prima vera apparizione del personaggio cardine di Jean Grey. Nella seconda stagione della serie Netflix, incontriamo anche una nuova declinazione di Magneto, antagonista emblematico e altra faccia della medaglia. Tra l'altro in una forma molto inconsueta. Certamente, Sense8, per motivi estetici e di ritmo, non è uno spettacolo che può essere apprezzato da tutti. Particolare, visionario, forse un poco discontinuo, ma con un cuore enorme. Un momento alto di spettacolo, proprio per questo di nicchia, che non è solo intrattenimento per chi sa leggere tra le righe, e dialoghi superlativi. Brave, sorella Wachowski. Bravo J. Michael Straczynski. E bravo tutto il cast.

giovedì 16 marzo 2017

Rocket Balloon - Episodio 6: Questione d'Image...


Dopo un'assenza dovuta a fattori di forza maggiore, ecco tornare Rocket Balloon con la sua sesta puntata della prima stagione. Già andata in onda su Runtimeradio.it  e ora disponibile in formato podcast su Spreaker. Gli argomenti sono densi: l'avventura della Image, dall'esodo di alcuni artisti Marvel e delle anatomie impossibili di Rob Liefeld, all'invasione dei Morti che Camminano passando per Invincible. Si bighellona un po' tra fumetto, cinema e TV, parlando anche di Lego Batman, Legion e naturalmente... Logan. Finalmente dialoghiamo con chi ci ha scritto, e si discute anche de L'attacco dei giganti e delle opere controverse di Miguel Angel Martin. Insomma, una puntata di ritorno abbastanza cicciosa.
Ricordo a tutti che potete scriverci, porci domande e fornire spunti scrivendo una mail all'indirizzo: rocketballoonruntime@gmail.com. 
Difendete sempre i vostri sogni e restate con noi. Perché c'è sempre un Altroquando.


giovedì 27 ottobre 2016

Io e la folla: una riflessione (molto pedante) su The Walking Dead



Torniamo a parlare un momento di The Walking Dead.
Tranquilli. Nessuno spoiler di nessun genere. Solo una riflessione, dopo tredici anni di serie a fumetti e sei stagioni della versione televisiva (di cui è appena iniziata la settima).
Qui non faremo nessuna distinzione tra l'originale cartaceo e la versione in live action, ma una considerazione generale, emersa spontaneamente durante (questo sì) la visione dei più recenti episodi della serie TV.

Con The Walking Dead, l'autore Robert Kirkman ha portato nella serialità lo zombi romeriano. Lo “zombi famelico” diciamo. Quello che non nasce da un sortilegio Vudù, in qualità di automa di carne al servizio di uno stregone. Bensì gli zombi del mito cinematografico moderno, quelli antropofaghi (visto che, come è spiegato in Dawn of the Dead di George A. Romero “non sono cannibali, i cannibali mangiano i loro simili. Loro mangiano noi”).


Sfondiamo una porta già aperta se non del tutto scardinata. I film di Romero, per quanto la saga si sia protratta per più film, sono da considerare parabole politiche concluse nello spazio di ogni singola pellicola. Insomma, non sono gravate dal peso di una reale continuità. E anche se volessimo essere fiscali e vedercela ugualmente, non importerebbe, perché ogni film ha un suo meccanismo compiuto al suo interno. Non è così per The Walking Dead (fumetto e serie TV) dove l'idea basica concepita da Romero è adattata per viaggiare sui binari di un prodotto seriale a lungo termine. Diciamo pure che, nella saga di Kirkman, gli zombi, ben presto, si trasformano in un rumore di fondo, una scenografia, un contesto. Non sono protagonisti, sono un pretesto per seguire la storia di sopravvivenza di un pugno di esseri umani in un mondo imbarbarito e senza più regole a causa dell'epidemia. Non a caso (frase citata fino alla nausea) George Romero stesso ha definito The Walking Dead una soap opera in cui ogni tanto appaiono gli zombi.

Volendo, The Walking Dead, come dinamiche, non è troppo distante dal classico “I sopravvissuti”, storica serial  della televisione britannica che raccontava proprio le vicende di un gruppo di superstiti a un'epidemia globale che aveva ridotto ai minimi termini la razza umana facendo collassare ogni ordine sociale. In quel caso non c'erano vaganti affamati di carne viva, i morti non si rialzavano. Chi era morto restava morto, e il grosso guaio era solo l'inselvatichimento della razza umana residua, divisa tra chi sceglieva una pacifica ricostruzione e chi aveva intrapreso la strada della prevaricazione (vi ricorda nulla?).

Pensandoci bene, il punto debole potrebbe essere un altro, e la serializzazione rivelarsi un autogoal logico per la saga immaginata da Robert Kirkman.

Quanti anni sono passati (nel fumetto e nella serie) dall'inizio dell'apocalisse zombesca? Anche a voler condensare molto gli eventi, un po' di tempo è trascorso. E allora? Da dove continuano ad arrivare queste mandrie infinite di vaganti? C'è anche da chiedersi quanto sia verosimile che, presso le comunità più organizzate di sopravvissuti non si sia riusciti a edificare strutture difensive adeguate (puntualmente, i vaganti a un certo punto buttano giù tutto e mangiano tutti senza troppa difficoltà, solo con la pressione del numero). Perché non vengono pianificati metodi di regolare bonifica del territorio, volti a eliminarli in massa (in situazioni estreme anche usando esplosivi o il fuoco o mille possibili trappole)? Ma soprattutto, perché non si estinguono? Una volta compreso il meccanismo di trasformazione, i morti sono colpiti al cervello affinché non si trasformino. Eppure, là fuori, continuano a esistere folle di zombi che arrivano da ogni parte. Ok, prendiamo per buono che la loro putrefazione è molto lenta, anzi arriva a un certo punto e si arresta. Cosa che gli permette di non sciogliersi in poltiglia dopo qualche settimana. Ma le mosche, gli insetti, i vermi, non se li mangiano? La natura è piena di creaturine rosicchiacadaveri contro le quali gli zombi non avrebbero nessuna difesa. E non cominciamo a dire che ne arrivano sempre di nuovi dal mare. Magari da oltre oceano, camminando sul fondo. Perché le correnti e i gorghi renderebbero impossibile un tale esodo di massa, e un fracco di pesci predatori ne farebbero polpette. Invece no, esiste un'orda anonima di zombi che si trova lì, inesauribile, solo perché funzionale alla storia. Ma razionalmente non potrebbero restare così numerosi con il trascorrere del tempo. Dopo qualche anno, specialmente. Il loro numero dovrebbe essere sensibilmente diminuito, e non presentare più mandrie come quelle che vediamo di frequente nella serie TV o nel fumetto.


La serializzazione del tema richiede dunque una cospicua sospensione dell'incredulità. Così come la richiede pensare che un cadavere putrefatto (spesso in stato avanzato) abbia ancora denti abbastanza sani da mordere senza che gli caschi la mascella, riducendo il tentato morso solo a uno shock da schifo totale, un disgustoso massaggio gengivale.

Se applicare le regole della fisica ai supereroi annienta le loro ragioni d'essere alla base, così l'andamento naturale delle cose dovrebbe quantomeno ridurre drasticamente il numero dei vaganti, minando alle fondamenta l'intera saga.

Ovviamente, stiamo solo scherzando. E' tutto un gioco, e dobbiamo accettarlo per quello che è.


mercoledì 26 ottobre 2016

The Walking Dead: Negan... e le dinamiche di una serie TV (No Spoiler)


I cosiddetti cliffhanger sono una tradizione consolidata nei serial televisivi. A proposito di The Walking Dead, quello che aveva lasciato in sospeso il pubblico nel finale della sesta stagione, era particolarmente macabro. L'episodio si concludeva con un'efferata uccisione fuori scena (o almeno parzialmente in scena), celando l'identità della vittima. In sostanza, quel che è stato dato in pasto al pubblico del serial è stato un prolungato gioco di totomorte (durato mesi). Chi è il personaggio del cast che ci ha lasciato (ci sta lasciando, ci lascerà) tra la fine della sesta e l'inizio della settima stagione? Si è arrivati al paradosso di contare gli alberi sullo sfondo e confrontare i fotogrammi nel tentativo di identificare la posizione della vittima.


Non un vero e proprio twist, quindi. Piuttosto un crescendo di suspance che (pensa un po') ha parecchi precedenti nell'ambito delle soap opera. Molti anni fa, in Guiding Light (in Italia, Sentieri) una volta avevamo visto una petroliera piena di personaggi amatissimi esplodere senza sapere chi fosse riuscito a mettersi in salvo e chi no. Eppure la regia aveva, con un montaggio allusivo, suggerito chiaramente che uno dei protagonisti non ce l'avrebbe fatta. L'episodio successivo mostrava l'arrivo in ospedale di qualcuno che restava celato al pubblico, ma che il medico di turno riceveva con un'espressione angosciata, dimostrando di conoscerlo bene. Il resto della puntata procedeva lentamente, mostrando poco per volta i personaggi superstiti tornare a chi li amava. Poco per volta, appunto. Fino alla rivelazione finale, per esclusione. Il colpo più basso. Qualcosa che per i fan della soap più longeva della storia della televisione (e della radio) fu un vero trauma.

L'inizio della settima stagione di The Walking Dead ricicla questa stessa dinamica. Adattata al format e ai suoi tempi, ovviamente. Non c'è nulla di male o di cui meravigliarsi. George Romero stesso ha definito The Walking Dead "una soap opera dove ogni tanto compaiono degli zombi". E' vero. Come è vero che esiste un pubblico a cui le soap opera piacciono (in modo del tutto legittimo) e che anche quelle possono essere di qualità scadente o discreta.

In The Walking Dead, però, si gioca sporco. E si trolla. Di brutto.


Il vero twist è questo. Giocare con le aspettative del pubblico. Influenzarle. Instillare un dubbio. Dare una certezza. O far credere di averla data. E poi sconvolgere tutto. In modo gattopardesco, direi. Ma adesso sto dicendo troppo, e mi sono ripromesso di non fare spoiler.

E' chiaro che The Walking Dead, con questa premiere, sta cercando di rilanciarsi e riconquistare parte del pubblico perso per noia negli ultimi tempi. Negan (interpretato da un Jeffrey Dean Morgan, il Comico del Watchmen cinematografico, perfettamente in parte) è un villain fuori dal tempo. Un boss mafioso che utilizza metodi medievali, e certe perversioni (soprattutto psicologiche) sono da ricondurre, a mio parere, al clima sanguinoso e crudele che ha fatto la fortuna di Game of Thrones.

E' questo il futuro dello show? Una cupezza che mira a minare ogni certezza dello spettatore, provocandolo con gesti di malvagità estrema presi in prestito da un'altra dimensione narrativa? Anche qui non ci sarebbe niente di male. L'intrattenimento, in questo primo episodio, c'è stato. Come ci saranno le inevitabili critiche. Rimane il fatto che The Walking Dead, la serie televisiva (il fumetto segue un cammino tutto suo... forse!) continua a fare discutere e a suscitare attese. Per la ABC, che produce lo show, questo non è sicuramente poco.

sabato 15 ottobre 2016

Marvel's Luke Cage


E siamo arrivati alla terza serie d'ispirazione marvelliana targata Netflix. La qualità rimane alta, ma stavolta il pubblico si è diviso. Riflettiamo sulle origini anni 70 del personaggio di Cage, di come si è evoluto mentre il mondo intorno a lui cambiava (e cambiava il modo di fare fumetto). Un viaggio nel passato guardando avanti. Sempre. E una riflessione sui ciclici cambiamenti dell'immaginario.

venerdì 11 marzo 2016

American Horror Story: Hotel (riflessione finale di uno spettatore deluso)


Finalmente ho finito di vedere la quinta stagione del serial TV American Horror Story, il ciclo intitolato Hotel. E finalmente, in questo caso, indica un senso di liberazione, dal momento che la compulsione a non lasciare niente di incompleto mi ha spinto ad assistere allo show nella sua interezza, pur prendendomi delle confortanti pause per dedicarmi ad altre serie. Alla fine posso tirare le somme convinto della mia impressione iniziale: American Horror Story: Hotel è veramente, a mio parere, il picco più basso toccato dalla serie ideata da Ryan Murphy e Brad Falchuck.

Se la precedente stagione, FreakShow, aveva fatto storcere il naso a molti (io l'avevo in buona parte apprezzata, trovando ben più lacunosa la terza stagione, intitolata Coven), Hotel è una discesa nel kitsch senza ritorno. Già dal secondo ciclo, Asylum, la serie aveva iniziato a presentare una struttura composita, con più trame parallele e convergenti. Le stagioni successive hanno tentato tutte di seguire il medesimo criterio, ma senza riuscire a riprodurre lo stesso equilibrio. Hotel è un minestrone di situazioni e personaggi dove praticamente non esiste un vero finale per nessuno, un meccanismo che gira a vuoto azzardando l'ennesima rilettura di un mito mediatico ormai troppo sfruttato: i vampiri. I succhiasangue negli ultimi vent'anni sono stati oggetto di infinite riscritture, alcune interessanti, altre patetiche. Ma non avevo mai incontrato dei vampiri scialbi, incoerenti, privi di fascino come quelli che vediamo in Hotel.

Lady Gaga, premiata in modo incomprensibile con il Golden Globe come migliore attrice protagonista di una serie televisiva, non aggiunge gran che, se non fare pesare ancor di più l'assenza di un protagonista realmente carismatico dopo l'abbandono di Jessica Lange. Dal punto di vista recitativo, la popstar non è esattamente un disastro. Potremmo anche dire che si difende senza infamia e senza lode. Ma il suo personaggio vive soprattutto nei costumi appariscenti che sfoggia, e la sua performance, sia pure non disprezzabile, non meritava certo un premio. Insomma, Lady Gaga incede in una versione molto dilatata di uno dei suoi videoclip, mentre il sangue zampilla, la gente muore, serial killer realizzano omicidi raccapriccianti e macchinosi, e tutto sa terribilmente di statico e stantio.


Si è scritto che la rivelazione di Hotel è l'attore Denis O'Hare, nella parte della trans Liz Taylor. Ma che O'Hare fosse un attore duttile e di grande talento lo sapevamo già dai tempi di True Blood, nonché dalle stagioni precedenti di American Horror Story. La sua prova d'attore è sicuramente degna di nota ed è tra le cose più riuscite di Hotel, ma lo spazio a lui riservato è pochissimo e – ahimé – non basta a reggere il peso di un baraccone dove alla fine non quadra niente. Troppi spunti sprecati, troppe situazioni dimenticate per strada. Appunto: troppi, come le trame che vanno a comporre il mosaico (alla fine informe) di Hotel, collocandosi qualitativamente al di sotto anche del già difettoso Coven.

L'assenza di Jessica Lange, o comunque di un interprete al suo livello, si rivela dunque cruciale. Già da un po', la Lange appariva sacrificata, intrappolata com'era dagli sceneggiatori in ruoli troppo simili tra loro, da maliarda non più giovanissima, assetata di successo e di potere. Ma nonostante il ruolo sempre uguale, il fascino e il talento di Jessica rappresentavano un faro che illuminava la scena. Qui manca, e nessuno è in grado di prenderne il posto. Kathy Bates e Angela Bassett continuano a essere relegate a ruoli di supporto, e anche loro appaiono sempre più stereotipate. Lungi dal fermarsi, la sesta stagione di American Horror Story si farà. E probabilmente Lady Gaga sarà ancora della partita. Ma se le premesse sono quelle di questo Hotel, fosse sarebbe stata opportuna una pausa di riflessione.


Una serie antologica avrebbe potuto presentare approcci differenti alla materia trattata. Murphy e Falchuck, invece, non hanno fatto che servire sempre lo stesso menu, aumentando di volta in volta in modo esponenziale le quantità di ogni ingrediente, col risultato di presentare alla fine una pietanza dal gusto pesante e stucchevole. Emblematico, da questo punto di vista, l'effetto di già visto (sebbene voluto) che ci riporta alle dinamiche della primissima stagione. Solo che a quel punto anche lo spettatore si sente un fantasma legato a un luogo che non potrà mai lasciare, e la sensazione non è confortante.

martedì 12 maggio 2015

Su Broadchurch 2...


Senza fare spoiler... penso che la seconda stagione di Broadchurch non sia pessima. Solo diversa e spiazzante rispetto alle aspettative della maggior parte del pubblico. Se la prima era un mistery classico, un "who did it?" di stampo classico ben condotto, la seconda (dove l'elemento giallo è comunque presente) approfondisce le conseguenze ulteriori del delitto sulla comunità coinvolta. E' come dire che il dramma non finisce con la scoperta dell'assassino, ma al contrario, è appena iniziato. Come un lutto, che il tempo dovrebbe risolvere, ma spesso si limita a trasformare, a volte rendendolo solo più intenso. Quelle che vanno in scena nella seconda stagione sono domande di altro genere, un tipo di tensione diverso. Magari una terza stagione potrebbe essere davvero di troppo. La prima resta comunque fruibile a sé. Ma questa seconda non l'ho comunque disprezzata.

domenica 12 aprile 2015

Daredevil Netflix - Pilota: prime impressioni



I trailer avevano fatto ben sperare, ma la visione dell'episodio pilota ha spazzato via gli ultimi dubbi. La vera "casa" di Daredevil (noto in Italia dai primi anni settanta solo come Devil) è la dimensione televisiva, seriale. Un teatro articolato in più atti brevi che possa permettere una graduale costruzione della sua ramificata e affascinante mitologia. Era solo questione di tempo prima che i supereroi di nuova generazione (parliamo di moda e mezzi, non di classe) sbarcassero in Tv. Anzi, in qualche modo lo avevano già fatto con la serie Agents of Shield. Netflix ha realizzato un colpaccio. Prendere uno dei personaggi meno riusciti sul grande schermo, ma molto amato sui fumetti (sia pure da un pubblico che rispetto a quello di Spider-Man e X-Men è quasi di nicchia) e infondergli vita, stavolta in modo credibile. Non solo fedele alla sua controparte cartacea, ma credibile.

Per quanti ancora non lo sapessero, Netflix è la piattaforma che ha legalizzato e sdoganato (almeno in terra statunitense) il concetto di visione in streaming. Un'offerta dietro abbonamento di numerose serie trasmesse on demand, molte delle quali prodotte in proprio, e anche con tutti le carte al posto giusto (ci si perdoni il gioco di parole con House of Cards, il political drama interpretato da Kevin Spacey che è uno dei titoli di punta dell'azienda in questione).


Tornando a Daredevil, l'episodio pilota funziona alla grande. Senza avere nessuna pretesa di completezza (cosa ottima, in quanto rimanda spiegoni che sarebbero risultati fin troppo frettolosi), introduce lo spettatore a una conoscenza graduale del protagonista e dei suoi comprimari, tenendo (almeno all'inizio) il villain principale fuori scena. E' probabile che scopriremo poco per volta la genesi di questo eroe, il funzionamento delle sue capacità, le esperienze che ne hanno forgiato il carattere. Gli interpreti, Charlie Cox su tutti, rendono benissimo. Deborah Ann Wool, reduce da True Blood, sembra davvero brava, e tratteggia una Karen Page non scontata, un personaggio che potrà crescere e prendere qualunque direzione. Attendiamo ancora con ansia la sortita di Vincent D'Onofrio nella parte della nemesi del protagonista (il gangster Kingpin) e Rosario Dawson (l'Infermiera di notte). Insomma, se il buon giorno si vede dal mattino, Daredevil, la serie Netflix, potrebbe rivelarsi uno dei migliori adattamenti di sempre da un fumetto supereroistico.

La scena di apertura, nella sua essenzialità, è un colpo da maestro. Una sequenza di "origine dell'eroe" interrotta sul più bello. Fatta per agganciare, per suggerire, non per sbalordire sul momento. E mentre la vista del giovanissimo Matt si appanna e si oscura del tutto, percepiamo la tenebra che sta invadendo New York e il quartiere di Hell's Kitchen. I semi di un'epica metropolitana che sarà un piacere vedere maturare e prendere vita.