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mercoledì 3 marzo 2021

Paranormal: dall'Egitto con... terrore


«Se la mente ti fa dei brutti scherzi... Faglieli anche tu!»

"Paranormal" è una serie Netflix egiziana a tema soprannaturale, tratta da una serie di romanzi, molto popolari in patria, scritti da Ahmed Khaled Tawfik. La serie è partita in sordina, ma grazie a un discreto passaparola sta pian piano conquistando una discreta fetta di pubblico. All'estero pare essere andata molto bene, e già si discute se confermarla per una seconda stagione. Nel panorama delle serie TV (o streaming che dir si voglia), dominato decisamente dalla cultura anglofona, "Paranormal" è una proposta davvero bizzarra. Innanzitutto per la sua ambientazione, discretamente diversa da quelle cui siamo abituati, e per il modo di intendere il soprannaturale, il misterioso e l'horror, qui rappresentato riferendosi, volta per volta, a leggende popolari in Egitto, spesso mutuate anche dalla cultura greca. Il plot di "Paranormal" si fonda molto sulla caratterizzazione del suo protagonista, il dottor Refaat Ismail. Personaggio che più antieroico non si può. Medico razionalista schivo, misantropo, nevrotico, il cui mal di vivere ha origine, però, in un trauma infantile legato a qualcosa di tuttora inspiegabile. Esperienza che farà da perno all'intera serie e alle avventure, apparentemente indipendenti, ma in realtà collegate da un sottile filo esoterico, che sconvolgeranno la vita del dottore e di tutta la sua famiglia.


"Paranormal" è quindi un racconto di fantasmi, di magia e di mitologia, con sprazzi horror e una curiosa alternanza tra i toni del dramma e quelli della commedia. L'attore Ahmed Amin, che interpreta Refaat, infatti, è noto in patria per essere soprattutto un comico. Ma il suo personaggio si arricchirà di più strati di episodio in episodio, così come l'avventura si farà sempre più nera e inquietante.
Una piccola, interessante sorpresa, quindi. E' probabile che molti storceranno il naso per la povertà degli effetti visivi (non se ne può più, gente. Seguite il cuore delle storie, è importante anche quello). Eppure "Paranormal" è una perla da scoprire tra le tante proposte, fatte con lo stampino, dal colosso dello streaming. Umorismo nero, paura, personaggi ben caratterizzati. E la costruzione di una mitologia interna che, se la serie sarà confermata per nuove stagioni, promette di crescere ulteriormente. Il mondo è grande. Le storie possono essere raccontate in molti modi diversi, in contesti molto variegati. E "Paranormal" è un ottimo biglietto da visita. Auguriamoci che a questo esperimento (a mio parere riuscito) ne seguano altri altrettanto interessanti.

sabato 4 luglio 2020

Dark... un cugino per Lost

Anche "Dark" è giunto a termine. Tre stagioni, di cui le ultime due sono arrivate a discreta distanza dalla prima, causando una certa difficoltà a riprendere il bandolo della matassa, e rendendo necessario un tempestivo rewatch. Peraltro non spiacevole, considerata la miriade di avvenimenti, intrecci e personaggi che questa serie tedesca porta in scena e che si giovano di una seconda visione. Inoltre, rivedere "Dark" dal principio accende oggi una sensazione di tenerezza, ripensando al modo in cui la serie era stata salutata al suo primo apparire su Netflix. A suo tempo, qualcuno la definì la versione tedesca di "Stranger Things". E la vicinanza con l'uscita del primo capitolo di "IT" al cinema, fece persino percepire l'impermeabile giallo di uno dei protagonisti (dello stesso colore di quello indossato dal bambino nel film di Muschietti) come una sorta di inesistente citazione (guai a vestire gli stessi colori di qualcuno più popolare di te nel momento in cui debutti in società). Oggi, a serie conclusa, possiamo dire con certezza che se vogliamo riconoscere in "Dark" una parentela culturale con una fiction precedente, quella è sicuramente con il celebrato "Lost". E non per l'elemento fantastico in comune tra i due show, ma per una comune estetica narrativa. Volontariamente o casualmente (ma non ci credo più di tanto), lo show ideato da Baran Bo Odan è fortemente debitore alla serie di culto statunitense. E - titolo di merito - riesce a riprodurre certe atmosfere e dinamiche sviluppando una proprio personalità, tra l'altro tutta europea. Piaccia o meno, "Dark" è l'esperimento riuscito di un nuovo, intricato, mosaico narrativo che produce una propria mitologia. Cosa che caratterizzava la storica serie di J. J. Abrahms e Damon Lindelof. "Dark", insomma, non si identifica soltanto con il suo spunto fantascientifico, ma con la sua selva di personaggi e la frammentazione del racconto che conferisce loro profondità, episodio dopo episodio, dettaglio dopo dettaglio, secondo il medesimo meccanismo di caos e progressiva ricostruzione che riguardava le vicende dei naufraghi sull'isola e del mistero che li legava. In parole povere, sia pure in modo più lineare e compatto (ed è paradossale da dire) rispetto alla lunghezza fluviale di "Lost", "Dark" riesce a far rivivere le emozioni di un grande arazzo che si completa poco per volta, alimentandosi di aspettative, teorie, attesa. E se di citazioni vogliamo parlare (perché ci sono, e sono tante), notiamo sotto finale quella musicale dedicata a "L'esercito delle 12 scimmie", film di Terry Gilliam che ha in comune con la serie tedesca lo spunto centrale del racconto. Come "Lost", anche il finale di "Dark" potrebbe scontentare qualcuno. Così come non tutti i numerosi enigmi, a serie conclusa, risultano perfettamente sciolti (ma anche qui, come in "Lost", molto è affidato all'attenzione dello spettatore, rifuggendo dagli spiegoni). In definitiva, dunque, le due serie, statunitense e tedesca, hanno in comune certe scelte di scrittura (direi di qualità) e la struttura labirintica, fatta di rimandi e pezzi da incastrare che coinvolgono lo spettatore in un gioco in cui non può restare passivo, pena il caos (e un mal di testa mostruoso). "Dark" non sarà perfetto. E ovviamente gli manca l'originalità che "Lost" presentava. Ma rispetto a tanti epigoni si avvicina davvero tanto ai risultati del prototipo. Ed è per questo che probabilmente sarà ricordato.

lunedì 22 giugno 2020

Curon: più ombre che luci

Non voglio accanirmi su "Curon", la serie originale Netflix italiana che in queste settimane sta facendo discutere, tra detrazioni, discreti consensi e motivatissime perplessità. La prima cosa (positiva) che sento di poter dire è che, a differenza dell'altrettanto nostrano "Luna Nera" (respingente sin dal primissimo episodio), questo mistery soprannaturale altoatesino qualche carta da giocare ce l'ha. E tra queste, per quanto mi riguarda, è c'è quella di avermi indotto a guardare la serie fino alla fine. Nonostante i dubbi che, andando avanti nella visione, aumentavano. Potremmo dire che è un po' un peccato. Che "Curon" presenta un'intrigante idea narrativa, uno scenario suggestivo, e persino qualche intuizione affascinante. Ma... spreca una grossa fetta del suo potenziale di partenza. Senza farsi detestare, per quanto mi riguarda, ma neppure amare veramente. In modo paradossale, vorrei dire, che questa serie Netflix non riesce a essere quello che avrebbe potuto o voluto essere. E che forse da qualche parte, in un'altra linea temporale, in un'altra dimensione, qualcuno avrebbe potuto farne un racconto del mistero davvero efficace. E chissà, magari sta sbraitando per farsi ascoltare e prendere il posto che gli spetta. Il problema principale non è neppure la performance del cast. Il discorso sulla qualità della recitazione della fiction italiana sarebbe lungo, ed è in buona parte ormai scontato, come una condanna passata in giudicato molti anni fa. Un trend che riguarda quella parlata pseudo "naturale" che molti scambiano per recitazione "teatrale" (come se di modo di recitare in teatro ce ne fosse soltanto uno). Quelle dinamiche di regia rese note da "Boris", vera serie di culto che satireggia le produzioni televisive italiane e ne denuncia tutte le storture. La recitazione "buttata lì", spesso per espressa richiesta del regista, dove sull'altare di una presunta naturalezza si sacrifica l'intelligibilità del copione. Ed è un peccato, perché tra i giovanissimi protagonisti di "Curon" ci sono diverse promesse, alcuni davvero intensi, espressivi e carismatici, ma non sempre in grado di esprimersi in modo comprensibile. Questo è senz'altro un male, ed è comune a una deriva tutta italiana che riguarda (ormai con poche eccezioni) le moderne fiction e anche una parte del nostro cinema. Ma come dicevo, non è la recitazione il vero problema di "Curon", che su questo fronte si difende tutto sommato discretamente rispetto ad altre produzioni ("Luna Nera" su tutte). Il punto nevralgico è... la scrittura. Un mistero che a tratti lievita e subito dopo si affloscia, appiattito da spiegoni non necessari o da scelte di regia eccessivamente chiarificatrici laddove avrebbe giovato una maggiore ambiguità. Troppe contraddizioni nelle condotte di più personaggi (si veda il forzatissimo twist che innesca il finale di stagione), e alcune caratterizzazioni eccessivamente stereotipate, suscitano parecchie perplessità. La stereotipia appesantisce anche alcuni dialoghi, rendendo il progredire del racconto prevedibile in più di un atto. L'uso scientifico della parola cazzo (Gabriel Garcia Marquez, ne "L'autunno del patriarca", cazzo, lo usò al posto della virgola con intenti sperimentali), qui usata palesemente per conferire (una cazzo di) "verità" al parlato (cazzo!), ma talmente abusata (cazzo!) da risultare un manierismo (ecchecazzo!) e quindi fallire (cazzo!) proprio nell'intento (cazzo!) che si proponeva (non diciamo cazzate!). Direi quindi che il punto più debole di "Curon" è proprio il suo copione, lo sviluppo di una storia che aveva un potenziale interessante, e una debolissima gestione dei tempi narrativi. Tutto sorvolando sul forte sospetto che chi ha scritto la sceneggiatura, molto probabilmente, non conosce affatto i gatti, non ha mai fumato una canna, e non ha mai avuto a che fare con un vero alcolista in vita sua. Tutto questo senza astio. Anzi, forse nutrendo anche la riserva di provare a vedere una possibile seconda stagione. Perché il potenziale di "Curon" resiste nonostante tutti questi difetti, e dal momento che è rimasto in buona parte inespresso (alludendo involontariamente ai temi stessi della serie), permane un notevole margine di miglioramento che gli autori dovrebbero prendere in considerazione. Gli auguro di riuscire ad aggiustare il tiro e fare di meglio la prossima volta, senza abbandonare queste promesse (comunque intriganti) sotto la superficie ghiacciata del lago di Curon.

domenica 26 novembre 2017

Marvel's The Punisher: Impressioni finali


Terminata la visione di questa prima, e per ora unica stagione, la serie Netflix dedicata a The Punisher, si colloca a mio giudizio su livelli molto alti, contendendo il primato a Daredevil, non fosse per la sua natura derivativa e cronologicamente subalterna.
Lo dico, lo accenavo già durante la visione dei primi episodi, perché questa serie mi ha piacevolmente spiazzato. Non sono particolarmente legato al personaggio fumettistico del Punisher, che trovo troppo bidimensionale, e spesso narrato in modo eccessivamente ottuso, cavalcando la spettacolarizzazione di una violenza che sacrifica l'approfondimento narrativo.

Be', tutto questo nella serie interpretata da Jon Bernthal non c'è. Questo Punisher arriva quasi a scrollarsi di dosso l'etichetta di antieroe facendo prevalere la seconda metà di questa doppia qualifica. La violenza è dosata (e badiamo bene, non manca affatto) a favore di un racconto teso, e della caratterizzazione di un protagonista non banale, dove i salti temporali danno a tutto (specialmente nello splatteroso finale) un crescendo da tragedia elisabettiana. L'ossessione onirica del Punisher, la sua fondamentale rettitudine, non erano mai state raccontate così bene. Non in versione live action, almeno. Finora.


Non solo. Per una volta il villain, riconoscibile immediatamente solo da chi conosce bene la fonte fumettistica (e questo, stavolta, non è un difetto) è una nemesi sfaccettata, ben costruita, carismatica e buca lo schermo fino al twist finale sul quale è meglio tacere. Fanservice per i lettori affezionati, chiusura del cerchio per il pubblico più generalista. Un finale in cui il Punitore è il Punitore, ma in modo sottile, non banale.

La serie, inoltre, prende abbastanza le distanze dalle precedenti serie targate Marvel Netflix. Niente Rosario Dawson, nessun riferimento alla battaglia di New York. Solo Frank Castle con la sua storia e un personaggio chiave che fa da legame funzionale (ma non solo) alla sua precedente apparizione nella seconda stagione dedicata a Daredevil.

Per tutte queste ragioni, mi aspetto che a tanti questa serie non piaccia. Proprio perché riesce a rimuovere la fondamentale banalità del personaggio cartaceo, a umanizzarlo e a intrecciare gli aspetti più violenti con un procedere del racconto secondo i criteri del thriller.


Per una volta, una trasposizione che spiazza in modo positivo e arricchisce, a mio modesto avviso, una fonte spesso stereotipata. Un tempo, in qualche redazionale, il Punitore fu definito “ottuso”. Bene. Stavolta non lo è. Ma proprio per niente. E' possibile empatizzare. E senza sentirsi in colpa.

Non era facile, e per questo promuovo Marvel's The Punisher a pieni voti.

martedì 4 aprile 2017

Iron Fist e gli altri


Tutto intorno ad Iron Fist c'è un mondo fatto di arti marziali raccontate come un'abilità che trascende l'umano. Insomma, un superpotere. E la nostra rubrica che analizza parentele e sviluppi nella storia di questa tipologia di eroi non poteva non occuparsene. Yatta!

sabato 15 ottobre 2016

Marvel's Luke Cage


E siamo arrivati alla terza serie d'ispirazione marvelliana targata Netflix. La qualità rimane alta, ma stavolta il pubblico si è diviso. Riflettiamo sulle origini anni 70 del personaggio di Cage, di come si è evoluto mentre il mondo intorno a lui cambiava (e cambiava il modo di fare fumetto). Un viaggio nel passato guardando avanti. Sempre. E una riflessione sui ciclici cambiamenti dell'immaginario.

domenica 12 aprile 2015

Daredevil Netflix - Pilota: prime impressioni



I trailer avevano fatto ben sperare, ma la visione dell'episodio pilota ha spazzato via gli ultimi dubbi. La vera "casa" di Daredevil (noto in Italia dai primi anni settanta solo come Devil) è la dimensione televisiva, seriale. Un teatro articolato in più atti brevi che possa permettere una graduale costruzione della sua ramificata e affascinante mitologia. Era solo questione di tempo prima che i supereroi di nuova generazione (parliamo di moda e mezzi, non di classe) sbarcassero in Tv. Anzi, in qualche modo lo avevano già fatto con la serie Agents of Shield. Netflix ha realizzato un colpaccio. Prendere uno dei personaggi meno riusciti sul grande schermo, ma molto amato sui fumetti (sia pure da un pubblico che rispetto a quello di Spider-Man e X-Men è quasi di nicchia) e infondergli vita, stavolta in modo credibile. Non solo fedele alla sua controparte cartacea, ma credibile.

Per quanti ancora non lo sapessero, Netflix è la piattaforma che ha legalizzato e sdoganato (almeno in terra statunitense) il concetto di visione in streaming. Un'offerta dietro abbonamento di numerose serie trasmesse on demand, molte delle quali prodotte in proprio, e anche con tutti le carte al posto giusto (ci si perdoni il gioco di parole con House of Cards, il political drama interpretato da Kevin Spacey che è uno dei titoli di punta dell'azienda in questione).


Tornando a Daredevil, l'episodio pilota funziona alla grande. Senza avere nessuna pretesa di completezza (cosa ottima, in quanto rimanda spiegoni che sarebbero risultati fin troppo frettolosi), introduce lo spettatore a una conoscenza graduale del protagonista e dei suoi comprimari, tenendo (almeno all'inizio) il villain principale fuori scena. E' probabile che scopriremo poco per volta la genesi di questo eroe, il funzionamento delle sue capacità, le esperienze che ne hanno forgiato il carattere. Gli interpreti, Charlie Cox su tutti, rendono benissimo. Deborah Ann Wool, reduce da True Blood, sembra davvero brava, e tratteggia una Karen Page non scontata, un personaggio che potrà crescere e prendere qualunque direzione. Attendiamo ancora con ansia la sortita di Vincent D'Onofrio nella parte della nemesi del protagonista (il gangster Kingpin) e Rosario Dawson (l'Infermiera di notte). Insomma, se il buon giorno si vede dal mattino, Daredevil, la serie Netflix, potrebbe rivelarsi uno dei migliori adattamenti di sempre da un fumetto supereroistico.

La scena di apertura, nella sua essenzialità, è un colpo da maestro. Una sequenza di "origine dell'eroe" interrotta sul più bello. Fatta per agganciare, per suggerire, non per sbalordire sul momento. E mentre la vista del giovanissimo Matt si appanna e si oscura del tutto, percepiamo la tenebra che sta invadendo New York e il quartiere di Hell's Kitchen. I semi di un'epica metropolitana che sarà un piacere vedere maturare e prendere vita.