martedì 12 settembre 2017

Twin Peaks - Il Ritorno: una riflessione finale


L'esperienza “paratelevisiva” (nel senso che per contenuti e forma è più prossima al cinema che alla televisione, per cui è stata realizzata) della “terza stagione” di Twin Peaks si è conclusa. Definitivamente, pare. Niente quarta stagione all'orizzonte, a meno che David Lynch non abbia un'imprevedibile (e improbabile, a questo punto) ripensamento. Un'esperienza allo stato delle cose premiata dalla critica e in ottima parte dal pubblico, pur collocandosi in quella nicchia estranea a giochi dei troni e altri fenomeni più fisiologicamente destinati al vasto pubblico.

Una conclusione, a distanza di ventisette anni, da quella “soap d'autore”, come fu definita, bruscamente interrotta, da quei compromessi tra regista e produzione che inquinarono un evento che avrebbe comunque fatto la storia della televisione e cambiato le regole per molti prodotti che sarebbero venuti dopo. Una conclusione destinata a far discutere appassionati e detrattori. Che sta già facendo discutere, e che merita una riflessione dopo diciotto episodi di grande impatto visivo e concettuale.



Inevitabili, per quanto vaghi, gli spoiler. Pertanto se chi legge non ha visto l'intera serie, è consigliabile fermarsi qui e non procedere nella lettura. Sarebbe un peccato. Qualunque cosa possiate avere sentito, qualunque cosa potreste commentare voi stessi a visione ultimata, che il modo di Lynch di fare cinema e televisione vi piaccia o no. Si deve partire da un fatto. Ai tempi della serie classica, Lynch aveva già un suo stile formato e il suo astro artistico era in ascesa. Non aveva comunque raggiunto l'acme della notorietà e il potere contrattuale di oggi, e questo giocò a discapito delle sorti delle prime due stagioni di “I segreti di Twin Peaks”. Questa nuova serie, dunque, la si può intendere non soltanto come un sequel (o terza stagione), ma anche come una sorta di riscossa artistica. Riscossa nei confronti di un mezzo che aveva in buona parte tarpato un potenziale espressivo troppo rivoluzionario per gli anni in cui arrivava in televisione, influenzandola in ogni caso per sempre.

La domanda che sorge spontanea, che in tanti si fanno... anzi, che in tanti formulano non come quesito, ma piuttosto come affermazione per liquidare il tutto, sarebbe: la narrazione di Lynch ha un senso enigmatico da interpretare o non ha senso alcuno e si limita a un mero delirio visivo? Ma anche: David Lynch conosce davvero il significato di quanto mette in scena o il suo intento è rappresentare i propri incubi affastellandoli a caso con il solo intento di disorientare lo spettatore?

A mio modesto parere, la risposta è...

Chi se ne frega?!



L'arte nel suo complesso, cinematografico, fotografico, pittorico, letterario, si stacca dal suo autore nel momento stesso in cui è posta in essere, e giunge a chi la fruisce come un'entità separata e senza difese, pronta a essere valutata, interpretata, gradita o aborrita. I casi di artisti che producono senza avere la piena consapevolezza di quanto stanno dicendo, in realtà, non si contano. E questo non sottrae nulla (quando c'è, ovviamente) alla qualità della loro arte, e alla possibilità di chi la osserva di decifrarla a modo proprio. Anzi, fa parte del gioco e coinvolge in esso lo spettatore-lettore-ascoltatore. Lo invita farne parte, a diventare autore egli stesso. Dunque è del tutto irrilevante che Lynch abbia architettato ogni singolo dettaglio del suo puzzle (cosa che secondo me ha fatto) o si sia affidato ciecamente alla sua febbre creativa.

“Twin Peaks – Il Ritorno” si presenta come un'opera complessa e dalle molteplici sfaccettature. E' un sequel, e nello stesso tempo è un'opera diversa, che percorre le strade (perdute) della maturità di Lynch. Un'opera trasognata che rilegge i feticci della serie classica in un'ottica più dichiaratamente surreale, chiudendo trame lasciate aperte e aprendone altre che forse non si chiuderanno mai, ma che hanno comunque una loro forte ragion d'essere.

Se la serie classica faceva del tema del doppio (a partire dal titolo) il suo spunto portante, il mosaico di David Lynch qui rivela nuovi incredibili aspetti. Il concetto di “vivere in un sogno”, che cita dichiaratamente Jorge Louis Borges, è soltanto la punta dell'Iceberg. La Loggia Nera, fucina di doppelganger e le tante vite parallele di personaggi vecchi e nuovi, acquistano qui un significato ben più ampio della “dimensione oscura” simbolo del male assoluto descritto nella serie originale. La chiusura di cicli narrativi e il voluto spezzarsi di altri non è casuale e risponde a una simbologia precisa. Così come la metanarrativa che pervade l'intero racconto. A volte scoperto (la partecipazione di Monica Bellucci che interpreta se stessa, o la malattia della signora Ceppo, interpretata dall'attrice Catherine E. Coulson, realmente in fin di vita durante le riprese), altre sottinteso e quasi pirandelliano. Vediamo l'agente Cooper emergere dalla dimensione della Loggia dopo venticinque anni, ma a sorpresa il suo ritorno non trova ad attenderlo soltanto il doppelganger posseduto dallo spirito malvagio di Bob. Già il personaggio di Dougie Jones è dissonante, e sin dall'inizio ci chiediamo la necessità del suo ruolo, il perché di un'ulteriore vita parallela, la ragion d'essere di questa terza incarnazione dell'agente dell'F.B.I. rimasto intrappolato nella Loggia. L'accenno alla parentela di Janey-E, la moglie di Dougie, con l'assistente di Cooper, Diane (la quale afferma che lei e sua sorella hanno intrapreso strade diverse tempo prima e non si sentono da anni) è una chiave di volta. L'indizio dell'esistenza di un cosmo fatto di universi narrativi paralleli che possono sfiorarsi, intrecciarsi, ma rimanendo distinti. Un universo cui appartiene, a suo modo, anche lo spettatore che sta seguendo la serie.

Il viaggio nel tempo di Dale Cooper e il salvataggio di Laura Palmer, dal cui assassinio tutto aveva avuto inizio decenni prima, rapresenta il coronamento del quadro metanarrativo dipinto da David Lynch. Laura non è mai morta, Pete Martell non ha mai trovato il suo cadavere in un sacco di plastica, il corso della storia dovrebbe essere cambiato. Tutto sembra combaciare, ma non è così semplice. A David Lynch non basta fornire questa risoluzione rassicurante della sua opera. Offre invece allo spettatore la possibilità di una scelta. Scegliere dove fermarsi, quale finale eleggere a vera conclusione, ma con la consapevolezza che un finale definitivo non potrà mai esserci. In una linea temporale onirica, Cooper ha evitato la morte di Laura. Ma lo svanire di lei nelle tenebre del bosco e l'eco del suo urlo (proveniente da dove, da quando?) è presagio di altre tragedie. Vediamo quindi Cooper tornare, come aveva promesso, da Janey-E e da suo figlio, e salutarli riassumendo la parlata incerta di Dougie. Un finale tutto sommato lieto, dove l'eroe ha concluso la sua missione, ha salvato la vittima e scofitto le forze del male.

Chi vuole, può accontentarsi di questo.

Ma il discorso cinetelevisivo di David Lynch frantuma ogni regola e va oltre, così come William Burroughs nel suo “Pasto Nudo” infrange schemi letterari e linguistici per creare un proprio mondo. I doppelganger non sono più soltanto dei doppi, malvagi o buoni, ma vere e proprie possibilità alternative per i personaggi, e i cammini ramificati che possono intraprendere sono infiniti.



Lo shock finale ci era già stato anticipato dalla conclusione della delirante storyline relativa a Audrey Horne. Dopo un lungo dialogo debitore alla tradizione del teatro dell'assurdo con un marito che non c'era dato conoscere, alla ricerca di un amante perduto che non conosceremo mai (ma che porta il nome dell'attore Billy Zane, interprete di un interesse amoroso di Audrey nella serie originale), Audrey si ritrova a danzare in un locale pubblico sulle note del tema musicale di Angelo Badalamenti a lei dedicato. Tema che fino a quel momento della serie contemporanea non avevamo ancora sentito. E tutto a un tratto si sveglia ritrovandosi in camice bianco, in una stanza bianca, confusa, spaventata. Un'altra realtà possibile, insomma. E non è neppure detto che la Audrey che abbiamo visto fino a pochi secondi prima fosse la stessa che ricordavamo.

Potrebbe significare che Audrey non era mai uscita dal coma in cui era entrata dopo l'esplosione alla banca avvenuta quasi trent'anni prima, e che tutto quello cui abbiamo assistito fosse un sogno che preludeva al suo effettivo risveglio nel presente. Ma non solo. E adesso viene il peggio. O il meglio, a seconda dei punti di vista.

L'ultima puntata, che potremmo considerare una nota conclusiva, una sorta di epilogo, ci mostra un Cooper più ambiguo che mai, di nuovo scisso da Dougie, consumare un rapporto sessuale con Diane per poi destarsi in quella che si rivelerà essere una realtà alternativa. Non una linea temporale modificata, come il finale dell'episodio precedente avrebbe potuto lasciare intendere, ma qualcosa di ben più alieno. Il biglietto lasciato da Diane, in cui chiama Dale e se stessa con nomi diversi, è un indizio abbastanza evidente che qualcosa non torna. Il ritrovamento di Laura Palmer, che non si chiama Laura, ma è ugualmente perseguitata da una scia di morte e distruzione, ricorda l'entrata in scena della seconda versione di Kim Novack ne “La donna che visse due volte” di Alfred Hitchcock. Una donna uguale eppure diversa. Diversa, ma che potrebbe comunque essere la stessa, o almeno diventarlo. La metanarrativa di Lynch raggiunge il suo apice se si considera (cosa che lo spettatore occasionale non può sapere, o perlomeno non da subito) è il ritrovarsi, una volta giunti a Twin Peaks, presso la casa in cui Laura era vissuta, di fronte alla donna che è l'effettiva proprietaria della location nella vita reale. Ma aldilà del gioco civettuolo, volto a stuzzicare gli appassionati esegeti dell'opera, è presente un'esca intellettuale molto più concreta. Il nome della donna e quello dell'uomo (invisibile per lo spettatore) cui lei si rivolge chiamandolo “Tesoro”, sono gli stessi delle due presenze demoniache, nonna e nipote, presenti nella serie classica.

A quel punto lo smarrimento è totale, sia per lo spettatore che per il personaggio di Cooper (che possibilmente ha riconosciuto i nomi che gli sono stati riferiti) e chiede stordito: «In che anno siamo?»

La voce echeggiante di Sarah Palmer che chiama il nome della figlia, le luci della dimora che si spengono di botto e l'urlo terrorizzato di Laura (lo stesso che abbiamo sentito in lontananza nella puntata precedente) suggellano la fine, probabilmente definitiva, di Twin Peaks.



Cosa vorrebbe dire?

Che Twin Peaks è una grande metafora onirica sulle storie e sui modi possibili di raccontarle. Che la vita, così come nelle “soap” (anche quelle d'autore) non tutto ha sempre senso compiuto, e che le vicende dei personaggi che sfioriamo possono avere una conclusione come esplodere e scomparire a un tratto in una bolla di sapone (sì, “soap”). Perché non sempre nella vita ci sono risposte, e non è sempre il caso di pretendere che le narrazioni seguano regole differenti. La Loggia Nera, più che una dimensione di puro male, è un crocevia del caos. Un punto da cui partono e convergono storie e personaggi che possono manifestarsi in più versioni, una quantità infinita di letture e possibilità alternative, in un ciclo senza fine. Una narrazione mutevole, che potremo ritrovare altrove, in altre storie, di cui Lynch ci mostra gli ingranaggi e il potenziale multiforme. Ma anche i suoi feticci, i suoi archetipi. Come la lotta tra il bene e il male, qui raffigurata dalla dicotomia dei volti di Sarah e Laura Palmer che si aprono mostrando il primo oscurità, l'altro luce. E Laura stessa, salvata in una possibile dimensione narrativa dopo essere stata vittima in quella originale, potrebbe tornare a soccombere, in quanto personaggio iconico, vincolato dalla dinamica delle storie secondo la quale qualcosa di brutto deve accadere affinché la narrazione trovi il suo innesco. Vittima sacrificale necessaria per continuare a narrare altre storie. Comprensibile che Laura-Carrie urli davanti a una spirale infinita di tribolazioni senza le quali non potrebbe esserci racconto.

«Continuo a precipitare per l'eternità» diceva il personaggio nel film-prequel “Fuoco cammina con me”.


Questa la mia personale lettura della “terza stagione” di Twin Peaks. Una lettura che non necessita dell'avallo del regista-autore (qui interamente al timone rispetto all'esperienza di tanti anni fa). E che lascia il tempo che trova, restando la poetica di Lynch qualcosa di criptico e sfuggente, e proprio per questo affascinante.

In passato è stato scritto che «David Lynch o lo si ama per quello che è o lo si rifiuta in blocco.»
Personalmente sono contrario a questa estremizzazione. E non è neppure il caso di offendersi se altri non apprezzeranno la particolarità della narrazione Lynchiana. E' un fatto culturale, inteso come bagaglio di esperienze e forma del gusto dello spettacolo. David Lynch non sarà mai un autore popolare. Non potrà mai mettere tutti d'accordo. E tutto sommato, è una fortuna che sia così.

Non avremmo avuto, altrimenti, opere cinematografiche di rara potenza, e nemmeno questo ritorno a Twin Peaks, del quale certamente si discuterà ancora a lungo.

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