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venerdì 1 luglio 2022

Ms Marvel: ti conosco, mascherina...

 


Ormai dovremmo conoscerle.

Le miniserie Marvel targate Disney+, intendo.

Una confezione in genere accattivante, molti mezzi, attori in gamba e un copione prevedibile, lineare, spesso mal scritto, che conduce a una conclusione modesta se non deludente.

Non è oro, ma neppure tutto cacca. Incazzarsi e fare le pulci a un prodotto scadente, o che non piace, oggi fa parte del grande gioco dei social. Si parla per parlare. Anche di quello che non interessa. O non interessa più. Solo per esserci, per esistere, per fare sentire la propria voce.

Personalmente, inizio a trovare eccessivo questo gioco al massacro. E' vero, “Moon Knight” l'ho trovato particolarmente brutto. Insulso, confuso. Una forzatura che sacrificava sull'altare del commercio uno spunto potenzialmente interessante e la performance di un attore del calibro di Oscar Isaac (sabotata da una sceneggiatura indecente, e quindi resa inutile).

C'è chi riesce ad apprezzare comunque questo circo colorato, fatto di computer grafica, di girotondi di citazioni fumettistiche, botti, luci e poco altro. E va bene così. Ognuno si svaghi come può, e goda di quello che gradisce. Non è accanirci contro questi prodotti che ci renderà persone migliori.



Quando, qualche mese fa, scrissi sul mio profilo che stavo rimanendo molto deluso da “Moon Knight” e che riconoscevo che i titoli Marvel avevano, forse definitivamente, smesso di considerarmi parte del loro target, qualcuno si affrettò a dirmi di evitare come la peste l'imminente “Ms. Marvel”, giacché un prodotto a misura di teenagers sarebbe stato di sicuro indigesto per un boomer come me.

Beh, tra i tanti fenomeni della rete e della sua gestione della cultura pop, c'è anche il ragionare a compartimenti stagni. Pare che un prodotto pensato per i giovani, che ha per protagonisti adolescenti e tratta tematiche relative al mondo giovanile, causi l'orticaria agli spettatori “vecchi” come il crocifisso ai vampiri secondo tradizione. Ok, millenial!


Voglio svelarvi un segreto di Pulcinella. Ci sono centinaia di grandi storie, romanzesche, cinematografiche, che hanno per protagonisti dei ragazzi o addirittura dei bambini, a volte calate profondamente nel mondo infantile, ma di caratura talmente universale da essere amate anche dalle persone adulte. O dai vecchi boomer, se preferiamo. L'occhio della gioventù è stato spesso adottato per osservare temi complessi, come la guerra, le crisi sociali, e narrato come il primo approccio umano a un mondo in divenire, in cui tutti, nessuno escluso, inevitabilmente crescono e infine invecchiano. Insomma, la questione delle storie (film, serie TV) “teen” è una cazzata inerente al marketing e quello che conta davvero è la qualità della scrittura e quanto si ha da dire.

E' vero, “Ms. Marvel” è un prodotto che fa della gioventù e della leggerezza un tratto distintivo, ma non è solo questo. E' una miniserie che, con tutti i suoi limiti fisiologici, si presenta in qualche modo come nuova, aprendo a una fetta di protagonisti (la comunità dei pakistani statunitensi di religione musulmana) finora vista raramente su schermo in un racconto del genere (non in un prodotto occidentale, almeno). Propone, insomma, un punto di vista inedito per una storia di supereroi, e lo fa con un certa freschezza, puntando sulle differenze etniche e su un cast di attori simpatici, a partire da Iman Vellani, canadese di origine pakistana, nella parte di Kamala Khan.


Qualcosa di inusuale, che in prima battuta adatta bene il personaggio dei fumetti nato nel 2013 sugli albi Marvel, nel periodo in cui la stirpe degli Inumani aveva assunto un ruolo centrale rivelando che tra i comuni cittadini c'erano tanti soggetti dormienti appartenenti alla loro razza. Kamala, nei fumetti, è per l'appunto una di questi, cui circostanze fortuite attivano i poteri fino a quel momento nascosti. La serie Disney+, costretta a glissare sul concetto Inumano per varie ragioni, sposta il retaggio della protagonista in un'altra direzione, attingendo a un differente parterre di personaggi marvelliani: i Clandestine, famiglia evolutasi dall'unione di un essere umano con un djinn. Ma queste digressioni hanno poca importanza. Quel che conta, parlando di Kamala e della sua versione dal vivo, è soprattutto il contesto, la scoperta e la sua relazione con lo scenario di provenienza. Qualcosa che permette al lettore-spettatore di avvicinarsi a realtà percepite ancora da alcuni come distanti, e di farlo in termini giocosi.



Diciamo, dunque, che “Ms Marvel”, considerato come “oggetto” prima ancora che come miniserie, riesce con la sua particolare estetica a suscitare empatia e comunica un'emozione positiva. Almeno è così per me, che vedo nell'inclusione mediatica un passo importante per la crescita morale di tutti, che amo la varietà e non disdegno le cronache di coming of age. Il bambino dentro questo boomer si incanta a guardare la meravigliosa famiglia di Kamala, invidiandola a tratti, e sognando di averne una simile al di là delle differenze culturali (che volete, invecchiando si diventa sentimentali!).

Sì, “Ms Marvel” fa... tenerezza. Suscita simpatia il candore di Iman Vellani, bellezza pacioccona fuori dai consueti canoni, e affascina tutto il suo habitat, fatto di tradizioni esotiche, commistioni occidentali, uso delle nuove tecnologie e del linguaggio giovanile. Un ponte tra i mondi che diventa tematico (metafora semplicistica, ma proprio per questo immediatamente riconoscibile) con l'evolversi dell'avventura, la rivelazione degli antagonisti e delle loro reali motivazioni.



Questi sono gli elementi che collocano “Ms Marvel” parecchie spanne sopra l'Egitto liofilizzato di“Moon Knight”, prodotto sotto tanti aspetti arido, e gli permetteranno di mantenere la posizione conquistata a prescindere dal suo finale e dalle fisiologiche pecche che di episodio in episodio vanno venendo a galla in modo inesorabile. Perché parliamo pur sempre di una serie Marvel Disney+, un giocattolo prodotto in una catena di montaggio standardizzata, che difficilmente potrà differenziarsi in modo sostanziale dai suoi omologhi.

Dopo gli elogi potremmo elencare i difetti, e ne troveremmo una quantità industriale. Ma ne vale la pena? Sono esattamente gli stessi di ogni singola miniserie Marvel uscita sulla piattaforma streaming. Una ricetta che prevede la presentazione di un eroe, la sua prova di competenza e la sua consacrazione. Una frettolosa introduzione degli antagonisti, in genere ridotti a sagome di cartone da abbattere per poter arrivare da un punto A a un punto B, e tanta faciloneria che liquida in un istante la più benevola sospensione dell'incredulità. Difetti che – come di consueto – crescono a ogni puntata, privando le atmosfere iniziali di quella brezza piacevole che c'era parso di sentire sulla fronte per arrivare sudati, stanchi e un po' delusi a un traguardo scontato, goffo e quindi indigesto.



Tutto questo è vero. “Ms Marvel”, pur distinguendosi nelle sue prime battute come un titolo fresco e dal grande potenziale, non sfugge alle dinamiche cui siamo abituati. La verità, però, è che non aveva mai avuto nessuna speranza di riuscirci. E forse non ci ha provato neppure. Perché avrebbe dovuto, dopotutto? Le caramelle industriali sono quello che sono. Possono essere dure o morbide, alla frutta o impregnate di liquore, ma restano caramelle e non diventeranno mai spiedini di tonno alla griglia, per quanto noi si possa avere voglia di assaporarli.
Per il Marvel Cinematic Universe, non è neppure un problema quanto una connotazione naturale. Una rotta sulla quale stanno veleggiando tanto i titoli cinematografici che quelli destinati alla piattaforma streaming. Il giro di boa è avvenuto ed è stato consegnato alla storia. L'universo condiviso si è compattato, la sorpresa esaurita, la luna di miele conclusa, e adesso è giunto il momento di affrontare il quotidiano, a volte tedioso, della vita matrimoniale. La Marvel è riuscita a traghettare al cinema le stesse dinamiche dei fumetti. Il ping pong narrativo da una serie all'altra, i crossover e i grandi eventi affollati di personaggi. Le miniserie Disney+ arrivano dopo che la polvere della deflagrazione principale si è posata e ci presentano uno scenario che dovremmo conoscere, o se non altro che non dovrebbe coglierci impreparati.


La logica narrativa dei fumetti di supereroi, che piaccia o meno, è sotto gli occhi di tutti. A volte un autore particolarmente estroso può offrire qualche guizzo, ma si tratta di eccezioni, perché la norma è ben altra. Un universo di esseri con poteri strani, sempre più numerosi, le cui vicende intrecciandosi diventano confuse e contraddittorie. Racconti i cui i meccanismi si logorano in fretta, facendosi ripetitivi, semplicistici, superficiali. Un modello di intrattenimento dal fiato corto che nella confezione delle miniserie targate Disney+ mostra tutti i suoi limiti fisiologici. Una produzione bulimica di giocattoli da mettere in vetrina, una musica già sentita che non cambia se aggiungi un violino o un maranzano. Sono i supereroi, bellezza! Ti sono piaciuti, ti sei innamorato? Benissimo. Ora convivici, e guarda come sono al mattino, quando ti svegli accanto a loro, e li vedi con la bavetta all'angolo della bocca, senza trucco, spettinati e con gli occhi cisposi.



Scherzi a parte, quel che intendo dire è che analizzare severamente questi prodotti sta diventando noioso. Poco fa li ho paragonati a generi alimentari, e come questi possono essere più o meno gradevoli al palato, ma alcuni loro aspetti rimarranno immutabili. La stessa cosa attende i titoli cinematografici del Marvel Cinematic Universe. Anzi, è già cominciata. Si chiama... consuetudine.


L'amore che strappa i capelli è ormai perduto, cantava Fabrizio De Andrè. Non resta che qualche svogliata carezza. E un po' di tenerezza. Non è poi così male, dai. L'importante è andare avanti. Vedere Kamala Khan indossare una mascherina che non nasconde niente, proprio come Zorro nella storica serie TV (anche quella targata Disney) che ha accompagnato noi boomer per tanto tempo. Quella mascherina che oggi nessuno accetta più perché – che cavolo! – si vede benissimo che sei Diego o Kamala... ma mi prendi per il culo?! Eppure è tornata. E' là, è semplice, banale, simbolica. Significa che sei speciale, che sei un eroe e il protagonista di un'avventura. Sono archetipi, amabili a volte proprio per la loro essenzialità. Per un po' sono riusciti a mimetizzarsi, a fingersi grandi e tronfi grazie a montagne di soldi e a furbe campagne promozionali, ma alla fine hanno gettato la maschera. Indossandola di nuovo. Paradossale vero?

Basta così, allora. Divertiamoci come possiamo. Ognuno prenda dal vassoio il suo dolce preferito. Nessuno lo giudicherà. Cerchiamo solo di essere onnivori, e assaggiare di tutto. E' così che si cresce sani e forti. E se la storia dell'India, il dramma della Partizione, le grandi tribolazioni di un popolo, e - perché no? - anche i superpoteri, continuano a stuzzicare la vostra curiosità, c'è un notevole romanzo che vi racconta tutto questo. Uno di quelli che piacciono a noi boomer. Sì, ci sono anche i supereroi, e sono fichissimi, giuro. Lo ha scritto Salman Rushdie, si intitola “I figli della Mezzanotte”. E per qualche strana ragione sono sicuro che Kamala Khan lo ha letto e lo adora.



sabato 6 febbraio 2021

Wandavision... ipotesi sul multiverso

Ok, un commento (pleonastico e non richiesto) sull'ultima puntata (la quinta) di Wandavision lo faccio anch'io. Innazitutto... SPOILER come se piovesse. Quindi evitate di leggere se non siete in pari con la serie. . . 

Io sono abbastanza convinto che Wandavision sia pensato per fare da prologo alla nuova fase dell'intero MCU. Che cioè abbia la funzione di introdurre nuovi spunti, nuovi personaggi, nuove minacce e forse anche un nuovo trend generale. La teoria che furoreggia in queste settimane è che Wanda non sia l'unica responsabile nella creazione dell'universo bolla, ma che sia stata in qualche modo indotta a fare ciò che fa. 

Una teoria validissima, che andrebbe bene in ogni caso. Sia che l'intenzione sia quella di fare di Wanda il nuovo villain della fase 4 che farne l'innesco per l'esordio di qualcun'altro. O qualcos'altro. Si fa un gran parlare di Mefisto (o Mephisto, fate voi!). Da un lato a me sembrerebbe un arrivo ingombrante. Nelle saghe a fumetti, Mefisto operava un ruolo di retrocontinuity, ed era funzionale alla cancellazione dei figli di Wanda dal cast degli Avengers (almeno finché non si è deciso di farli ritornare, in un modo ancora più contorto, come Wiccan e Speed). Introdurre Mefisto, considerato che questi è praticamente il diavolo dell'universo Marvel (proprio il diavolo della tradizione giudaico-cristiana, ma con un look da supercriminale), a mio parere sarebbe un eccesso e farebbe pensare ad altri piani. Una decisa virata mistica per il MCU e l'arrivo di quello che (in termini di potenza e pericolosità) dovrebbe essere il nuovo grande antagonista della macrotrama. Non che questo sia da escludere, ma non mi persuade del tutto. Non così presto, almeno. 

E' sempre possibile che tutto sia da ricondurre alla follia di Wanda (e per il momento lo accoglierei come un twist drammatico accettabilissimo), ma è pur vero che nei fumetti (successivamente) lo sbrocco della strega è stato ricondotto all'intervento di altri agenti negativi (nella fattispecie, il Dottor Destino). E' plausibile anche che (come già fatto in passato) la scrittura in live action ibridi e sintetizzi temi fumettistici. Per esempio riassumendo in un unico demone dimensionale i personaggi di Chthon e Mefisto, ricordando che il primo, nei fumetti, ha svolto un ruolo nello sviluppo dei poteri di Wanda, preparandola per essere il suo tramite terreno. Vedremo quindi Wanda posseduta? Non lo escluderei, ma secondo me non immediatamente. Piuttosto nei film seguenti, di cui Wandavision rappresenterà il trampolino di lancio. 

Un altro aspetto sul quale rifletto molto è l'introduzione del concetto di multiverso. E' praticamente dichiarato, lo stiamo aspettando. Anzi, è qui. Il mio sospetto è che la scelta di rappresentare la vita idilliaca immaginata da Wanda come varie sitcom della storia della televisione, sia qualcosa di più di un semplice gioco citazionistico. Penso che possa avere una maliziosa funzione metaforica. La presentazione di una componente metafilmica e metatelevisiva che diventa simbolo del multiverso. L'arrivo di Pietro con le sembianze di Evan Peters, il Quicksilver più longevo sullo schermo, più amato e più ricordato (dopo la toccata e fuga di Aaron Taylor-Johnson in "Age of Ultron") sembrerebbe suggerirlo. E' un po' come dire tra le righe "Tutto ciò che prima era della Fox adesso è nostro, possiamo usarlo. Lo abbiamo preso da un'altra dimensione, un'altra realtà mediatica, e adesso è qui. Esattamente come Wanda attinge a dinamiche e format da sitcom televisive per vivere una vita spensierata." La battuta di Darcy Lewis («Ha dato il ruolo di Pietro a un altro attore!») avrebbe dunque una valenza pirandelliana. Sì, Pietro è tornato, ma operando uno spostamento da una dimensione dell'immaginario (cinematografico) a un'altra. Eppure è sempre lui, perché il suo ruolo è comunque quello. Se l'intenzione è questa (una lettura pirandelliana del multiverso che attinge anche a precedenti letture filmiche) sarebbe divertentissimo. E anche coerente, se ricordiamo che nei fumetti, a volte è stato teorizzato che Wanda cerca i propri desideri tra tutte le realtà possibili, e una volta individuati li porta nella propria realtà. Detto così è un'astrazione, ma il multiverso e la capacità di direzionare i suoi contenuti potrebbe diventare un modo interessante per spiegare i poteri di Wanda nella versione live action. 

Se tanto fosse vero, il tema della fase 4 potrebbe riguardare qualcosa di simile alla storica Crisi della DC comics negli anni 80, ma anche la più recente Secret War marvelliana, che dopotutto sono la stessa cosa. Una ridefinizione della realtà che sintetizza storyline, personaggi e situazioni prendendole da più universi narrativi per pianificare un nuovo status quo editoriale (o, in questo caso, cinematografico). Questo potrebbe portare gli X-Men della Fox a fare parte in qualche modo del passato del MCU, a dare per scontate le loro avventure già viste (o parte di esse) e ad andare avanti con nuove formazioni mutanti, o nuove versioni dimensionali di alcuni personaggi amati. Nella fattispecie, mi aspetto che il prossimo Deadpool vada a nozze con questo gran casino, diventando addirittura un commentatore esterno al nuovo assetto. E' tutta una menata mentale nerd, ovvio. Eppure qualche traccia esiste. Spero che il Quicksilver di Evan Peters resti con noi in futuro. Almeno occasionalmente. Non avevo gradito la sparizione repentina della prima versione del personaggio. Scelta che ci ha privati di vedere approfondire il forte legame dei gemelli Maximoff, tema che ha un potenziale notevole. Per tutto il resto... Ok. Ricordiamo soprattutto che stiamo solo giocando.

lunedì 21 dicembre 2020

The New Mutants: Nuovi mutanti... Anzi, vecchiotti

 


«L'ho visto ieri. E' davvero molto brutto. Indifendibile!»

Quando senti queste parola da una persona che ha fatto del cinema la sua professione, blogger e podcaster più che in gamba, e persona che hai imparato a stimare, le tue aspettative scendono veramente ai minimi storici. Certo, c'è quella vocina. Quella che dice che... Ok, lei è brava, è preparata, però... Ci sono state anche alcune volte in cui vi siete trovati in disaccordo. Qualcosa che a lei è piaciuto, mentre tu non riesci proprio a mandarlo giù. E poi qualcosa che invece tu adori, laddove lei trova e schiaccia pulci che tu non riesci a vedere neanche se ti sforzi. Quindi... insomma! Magari è una di quelle volte. Diamo un'occhiata a questo The New Mutants”. Non è detto che il film non ti possa se non altro intrattenere...

Beh, scordatelo. Aveva ragione lei. Da vendere. “Indifendibile” era la parola giusta.

Che qualcosa non andasse era nell'aria già da tempo. Il progetto su un film dedicato ai Nuovi Mutanti, le nuove leve del franchise X-Men, già a loro volta un piccolo classico nell'ambito della lunga e complessa epopea mutante di casa Marvel, era entrato in produzione nel 2017, ben tre anni fa. Si parlava addirittura di una trilogia. Come se fosse una sorpresa. Oggi se produci un film di intrattenimento devi puntare alla serialità, avere l'occhio lungo, e promettere narrazioni di grande respiro. Promettere, però, non significa mantenere. E l'occhio lungo dei proposito commerciali spesso inciampa nelle gambe corte di un modello ormai spremuto fino all'osso, nella giusta incertezza dettata dalla precarietà dei diritti sui personaggi e da una creatività ormai esaurita per quanto riguarda le storie di supereroi. Nelle intenzioni della Fox (oggi 20th Century Studios) e del regista Josh Boone (che firma la sceneggiatura insieme a Knate Lee) la trilogia sarebbe dovuta procedere sotto il titolo "Growing Pains" (Dolori di crescita). C'è di più, Boone voleva fare di "New Mutants" un film del terrore, dove i poteri mutanti potessero diventare metafora di paure adolescenziali e incertezza del domani. Qualcosa che più che ambizioso puzzava già di vecchio solo a parlarne, e forse anche un pochino arrogante.


"
Legion", pregevole serial televisivo iniziato nel 2017 e anch'esso ispirato alle serie mutanti Marvel, con le sue atmosfere da incubo e i suoi personaggi surreali, aveva già conquistato questa frontiera, e fare di meglio era una bella sfida. Inoltre, il film del 2019 "Freaks!" di Adam Stain e Zach Lipovsky, con la sua umiltà di mezzi e una scrittura non banale, aveva dimostrato di poter parlare degli stessi temi in modi alternativi e affascinanti. Più nuovi di questi “Nuovi Mutanti” sicuramente.

Tralasciando i ripetuti rinvii, le riprese aggiuntive e tutti quegli incidenti di percorso che gridavano a gran voce che in questo film ormai non ci credeva quasi più nessuno, il risultato finale è davvero imbarazzante. Non è neppure la povertà tecnica del film, considerato che un titolo indipendente come il già citato “Freaks!” riesce a essere grande con delle buone idee piazzate nel posto giusto. Il problema imperdonabile di “The New Mutants” è la scrittura. Particolarmente svogliata, con dialoghi che bucano i timpani. Stereotipati da far paura più di qualunqu ripresa aggiuntiva volta a rendere “più simile a un horror” l'ennesimo, frettoloso filmetto supereroistico. Sì, frettoloso, nonostante la lunghissima gestazione asinina. In definitiva, definire “televisivo” il film di Josh Boone sarebbe ancora un complimento. E' difficile trovare la parola giusta. E' come la compulsione a grattare un prurito insistente, che sta lì a tormentarti, e senti di doverlo eliminare a costo di strapparti la pelle e lasciare una ferita sanguinante. Pensare che tutto, per la non più esistente Fox (dopo l'acquisizione da parte della Disney), era iniziato nel 2000 con i primi due “X-Men” di Bryan Singer, oggi risulta sconfortante. E in fondo, si intuisce, produzione e regista lo sapevano pure. Dai, un accanimento terapeutico di anni, una fugace uscita e poi una velocissima distribuzione in home video, allegato a riviste popolari nelle edicole. Fa addirittua provare un po' di tenerezza, e rimorso all'idea di sparare sulla croce rossa.

Ma quei dialoghi, Dio buono! Quei dialoghi!

Le intenzioni sembrano essere quelle di confezionare un thriller da camera. Ma quegli scambi di battute (forse prese in prestito da una collezione di fotoromanzi degli anni 80) non solo presentano relazioni e dinamiche assolutamente telefonate, ma pongono la pietra tombale su uno script dove la fantasia è un cadavere che i vermi hanno già digerito da un pezzo. Il peccato più grande è che qualche (vaga) ideuzza che avrebbe potuto rendere il film almeno un pochino simpatico per i veri fans c'era. Alcuni inside joke intriganti, la riscrittura di un noto personaggio di secondo piano, il disvelamento graduale dei poteri dei giovani protagonisti. Tutto, però, è gestito talmente male da fare incazzare anche il più indulgente lettore delle saghe mutanti. Anzi, più sei preparato sui fumetti e meno potrai goderti il film. Non per sterili bizze da fan tradito, ma per l'assoluta piattezza della trasposizione, cosa che ti fa prevedere ogni singolo passo dei personaggi con il risultato di non aspettare nulla se non la fine delle tue sofferenze. Molto presto ci viene ricordato che in questa dimensione narrativa gli X-Men esistono e sono famosi. Ok, perfetto, i vip sono dietro i paraventi. Ma qualche sforzo di logica in più sembrava brutto? Ci si potrebbe chiedere com'è possibile che un gruppo di giovani mutanti inesperti dai poteri potenzialmente pericolosi siano affidati a una struttura dove sembra esserci un'unica scienziata-custode. Rinunciate, la risposta non esiste. Dobbiamo accontentarci del fatto che si chiami Cecilia Reyes, e che è una vecchia conoscenza di noi lettori. E purtroppo non è l'unico punto debole del film.


Basta, infatti, conoscere le caratteristiche di un certo personaggio e del suo background fumettistico perché l'intera dinamica del racconto sia scoperta nel giro di un minuto, bruciando il climax prima ancora che incominci e sprofondando tutto in una galleria del già visto. E sì, perché mentre “New Mutants” stava ancora cuocendo a fuoco lento, nei cinema usciva
“IT” di Andrès Muschietti, e qualcuno si faceva venire pessime idee.

Maisie Williams come Wolfsbane sarebbe andata pure bene. Parliamo di un personaggio che soffre il peso di un'opprimente morale religiosa e convive con una mutazione che la rende affine a una belva, una furia primitiva incatenata da una repressione culturale lacerante. Non mi crea nessun problema la scelta di renderla protagonista di un romance omosessuale. Ci mancherebbe. Quello che trovo contraddittoria è la sua sicurezza, fin troppo serena nel gestire il rapporto con l'amata considerate le premesse castranti. Il suo alter ego licantropico avrebbe dovuto essere espressione di pulsioni sentimentali e sessuali che lottano per liberarsi dai condizionamenti di una vita trascorsa all'insegna della repressione. Invece tutto risulta buttato a caso, senza un vero ordine. Il fatto, poi, che la regia scelga di suggerire il suo orientamento sessuale mostrandola mentre assiste rapita a una scena di bacio lesbo in un celebre show televisivo, è semplicemente irritante e nemico della buona scrittura. Anya Taylor-Joy come Illyana è forse quella che rende di più. Ma è tutto da attribuire al suo naturale carisma e non al modo in cui la sua parte è stata scritta. Non si capisce nemmeno come funzionano i suoi poteri. E in effetti, la sua storia non sarebbe stata facile da riassumere neppure per uno bravo.

Non una delusione, in verità. Solo un senso di spreco e di confusione. Ma soprattutto di tristezza. Tristezza per un film nato zoppo, e definitivamente stroncato da ripetuti rimandi che ne hanno solo prolungato l'agonia. Triste per il suo titolo, che contiene la parola “Nuovi”, posta sulla confezione di un prodotto scaduto e ormai, aimé, immangiabile.











venerdì 1 febbraio 2019

L'immortale Hulk [di Al Ewing e Joe Bennet]


Il dottor Bruce Banner è tornato. Anzi, è risorto. E con lui l'incredibile Hulk. Meglio. L'immortale Hulk. Protagonista di una nuova serie che sta spopolando, donando al gigante verde di casa Marvel una nuova primavera. Ma stavolta, accanto ai raggi gamma è di casa l'orrore, e un'ulteriore lettura su bene e male che potrebbe portare ovunque. Ripercorriamo i passi del mostro atomico e le sue varie incarnazioni fino a questo suo ultimo (per ora) inquietante ritorno.

lunedì 12 novembre 2018

Ciao, Stan...


Ci mancheranno i camei nei film Marvel...

E' il primo pensiero da "coccodrillo" giornalistico che mi viene in mente, davanti alla notizia che Stan Lee, volto storico della Marvel Comics, è appena passato a miglior vita all'età di 95 anni. Beh, ha vissuto più di mio nonno. Ha avuto successo in vita, un'esistenza florida e attiva anche nei suoi ultimi anni. Messa giù così, è puro corso naturale delle cose, e non è nemmeno il caso di rattristarsi. O si sconfinerebbe in una forma di egoismo, trattenere gli altri oltre il tempo massimo, oltre i loro limiti...
Certo, adesso inizieranno le polemiche. Stan aveva una fama ambigua, legata anche ai dissapori e alle controversie sulla paternità di molti personaggi con tanti artisti che hanno transitato per la grande casa editrice che lui ha contribuito a rendere una gigantesca macchina macinasoldi internazionale. Ma per oggi soprassediamo.

Da oggi non potremo più vedere i suoi siparietti nei cinecomics della Marvel. Una piccola firma prescindibile, ma simpatica, cercata dai fans come le apparizioni di Hitchcock nei suoi films.

Ciao, Stan. Excelsior.

sabato 20 ottobre 2018

Gli Amori di Altroquando: Episodio Zero


Ed ecco arrivare "Gli Amori di Altroquando". Un nuovo podcast, un esperimento, pensato che sommarsi (non sostituirsi) all'attività su Youtube e differenziare (nella forma) le comunicazioni altroquandiane. Gli "amori" al posto degli "orrori" del celebre titolo di uno speciale storico di Dylan Dog che ispirò anche il nome della nostra fumetteria, sta sempre per i fumetti e tutto quanto c'è di nerd nell'universo conosciuto e oltre. 
Dopo l'esperienza radio di "Rocket Balloon", mi cimento da solo con la comunicazione audio, ben consapevole di tutti i miei limiti tecnici. Chiamo in aiuto i miei personali fantasmi, il demone famiglio Azazelo, e tutti voi. Questo episodio zero ricicla (adattandola al format) la conferenza che ho tenuto al Palermo Comic Convention 2018. Se non c'eravate, potete scoprirla. Se c'eravate, cercate le differenze (che ci sono). Ma soprattutto, aiutatemi a scoprire se vale la pena continuare su questa strada. Se ritenete che il podcast possa essere sfruttato anche su altre piattaforme, se volete suggerire qualche modifica del format, e se Azazelo rompe troppo i maroni. Tutto è ancora in divenire. Il seguito di questa nuova avventura in un Altroquando dipende soprattutto da voi. 
A presto.

giovedì 23 agosto 2018

Fantastic Four: un nuovo numero #1


La prima famiglia Marvel ritorna dopo un periodo di letargo. Molte aspettative e un cast di autori collaudato. Siamo solo all'inizio, ma certe cose non cambiano mai. 
«Io ti osservo, Marvel! Io ti OSSERVO!»

sabato 7 luglio 2018

Steve Ditko: In Memoriam


L'ennesimo coccodrillo. Stavolta, in questa Estate del 2018, è scomparso Steve Ditko. Disegnatore particolare, spigoloso, psichedelico, visionario. In realtà abbastanza distante dal canone estetico dei supereroi americani. E più vicino alle anatomie surreali della pittura di Egon Schiele. Creatore grafico (e molto di più) dell'Uomo Ragno. Eroe in tuta che mai, come nelle sue tavole, sarebbe stato reso come un aracnide umano, con la sua sagoma sottile e rapace. Autore sommerso, artefice di trame cui spesso Stan Lee si limitava ad aggiungere dialoghi, commettendo anche frequenti strafalcioni. Artefice del mondo mistico del Dottor Strange, e alla DC Comics delle avventure fantastico-noir del Creeper e successivamente del fantascientifico Shade. Ditko, ancora oggi, non è compreso da tutti. Le sue licenze grafiche, il suo stile peculiare che poteva permettersi di reinventare l'anatomia, è in alcuni casi liquidato dai lettori più giovani e spietati con la contestabile sentenza "non sapeva tenere in mano una matita" (Padre, perdona loro...). In verità, era un artista seminale e fondamentale. Sempre al di fuori dalle logiche del trend di mercato, e per questo più grande. Una figura gigantesca cui guardare solo con nostalgia e ammirazione.









venerdì 15 giugno 2018

LEGION: e due (in attesa del tre)



Si è conclusa anche la seconda stagione di LEGION, serie Tv ideata da Noah Hawley, di cui è già stata confermata la terza stagione. Una sorpresa, considerando quante serie cadono ogni giorno sotto la mannaia dell'audience ridotta, e pensando che LEGION tutto è tranne che uno spettacolo convenzionale che muove le masse. Certo, all'origine di tutto ci sono i fumetti, gli X-Men e i loro miti, e la Marvel. LEGION fa parte di quell'universo parallelo televisivo in cui si specchiano gli attualmente popolarissimi cinecomics (intendendo qui per “cinecomics” quanto prende spunto dal genere supereroistico, mai così trend nell'industria dello spettacolo in live action). Di LEGION sorprende questa sua resistenza alle logiche di mercato (non sempre sono gli ascolti a determinare la longevità di una serie TV) e il coraggio di una scelta estetica e narrativa sicuramente non abituale per il mondo degli eroi con poteri.


La chiave di lettura surreale scelta da Hawley è il vero punto di forza di LEGION. Una catena di elementi citazionisti (la storia potrebbe benissimo svolgersi ai margini del mondo narrativo degli X-Men cinematografici, e Charles Xavier esistere fuori scena) e di atmosfere psichedeliche che (impossibile non reiterare questo concetto) ricordano spesso lo stile di David Lynch. Ma ricorda anche esperienze televisive storiche, come la serie britannica “Il Prigioniero” della seconda metà degli anni sessanta del secolo scorso. Serie enigmatica e ricca di sottotesti simbolici, viaggio nella mente del protagonista che non forniva mai risposte intelligibili, e che all'epoca, soprattutto con la sua conclusione, anticipò gli shock di cult futuri come LOST.



Vedere LEGION come una qualsiasi altra serie dedicata ai supereroi sarebbe un errore. Anzi, non è neppure possibile, dal momento che scardina in fretta ogni aspettativa convenzionale. Non si tratta solo di fotografia, colori, trovate visive di notevole impatto, quanto della domanda su cui tutta la narrazione si fonda. E cioè: quanto vediamo, i personaggi che incontriamo, sono tutti reali? O sono parte del delirio di David Haller, manifestazioni della sua schizofrenia? E i poteri mutanti, i mutanti stessi, esistono? O sono anch'essi una rappresentazione allegorica della tante personalità di David, compreso il suo antagonista, il mefistofelico Re delle Ombre?



LEGION, quindi, si propone in apparenza coma una storia supereroistica, ma può essere letto come un viaggio sciamanico alla ricerca di sé e dei propri veri obiettivi. Uno spettacolo che travalica il genere e coraggiosamente osa rompere gli argini, aspirando a essere qualcosa d'altro, qualcosa di più. In che misura ci riesca può essere oggetto di conversazione. Tutt'ora, a seconda stagione conclusa e terza in preparazione, non ci sono risposte definitive. Non ce n'è bisogno. L'ambiguità e la simbologia di base sono il vero cuore dello show. Entrambe le realtà, quella vera e quella sognata (sempre che sia così) vanno comunque bene. Sono due modi diversi di narrare e intendere il medesimo concetto. La ricerca della propria identità, il bisogno ancestrale di trovare un avversario, anche costruendolo da una propria costola se necessario, pur di avere un diavolo da incolpare per le nostre disgrazie. LEGION riesce a essere una criptica metafora esistenziale, e per questo merita attenzione. Un esperimento dissidente nella contemporanea ubriacatura da supereroi in live action. Un cocktail visivo e concettuale che non ci aspettavamo, ma che a due stagioni dall'inizio continua a essere effervescente, spingendoci a volerne ancora.


Perché sì, perché forse, se i mutanti, se i supereroi esistessero, le cose andrebbero in modo molto diverso da come appaiono nei fumetti. L'esistenza sarebbe tutt'altro che semplice o schematica, i confini tra bene e male quanto mai sfumati. Magari diventerebbe un labirinto etico e allucinatorio in cui vaghiamo senza più un preciso punto di riferimento. O forse, supereroi a parte, è già così. E la fantasia di potere cui i fumetti ci hanno abituato non è più una fuga o una possibilità di riscatto.
Se mai lo è stata. Forse è piuttosto una prigione.



venerdì 8 giugno 2018

Vieni fuori... Immortal Hulk!



L'uomo, nel complesso, è meno buono di quanto immagina o vorrebbe essere.”

Con questa citazione di Carl G. Jung si apre il primo numero della nuova serie Marvel intitolata “Immortal Hulk”. L'immortale Hulk, che va ad aggiungersi a una collezione già numerosa di aggettivi che nel corso dei decenni hanno preceduto il nome del gigante verde: Incredibile, Selvaggio, Indistruttibile... Persino “Fichissimo” (in inglese, Totally Awsome). E sono solo aggettivi di testata, che a contare gli appellativi del Golia di smeraldo ci sarebbe da confondersi.

Il personaggio di Hulk è cambiato tante volte per continuare gattopardescamente a essere sempre se stesso. Gli Hulk più o meno lucidi o intelligenti, per quanto gradevoli da leggere (soprattutto quando al timone delle storie c'era qualcuno come Peter David), cedevano puntualmente la scena al ritorno dell'elemento più archetipico. Hulk è simbolo di ciò che lo crea all'inizio della sua avventura: un'arma devastante, una bomba, una potenza che non può essere contenuta, la collera irrazionale dell'essere umano, la sua tendenza a cedere sempre e comunque alla violenza e alla distruzione. In parte Frankestein (sia creatura che creatore), in parte Jekill-Hyde. Hulk ha sempre avuto delle parentele con la narrativa del terrore, e non a caso in principio, a causare la sua metamorfosi non erano gli sbalzi di umore, ma semplicemente il cadere della notte. Hulk si manifestava con le tenebre, e la sua fronte (un tempo) era alta quanto quella della maschera di Boris Karloff nel film che lo rese celebre.

Hulk, nella persona del suo alter ego Bruce Banner, è morto parecchie volte. E sempre rocambolescamente resuscitato, come da copione supereroistico dove il decesso è simile a una brutta influenza, fastidiosa, persistente, ma che prima o poi passerà. Non c'era dunque niente di scioccante nel vedere Banner morire durante il (evitabilissimo) evento Civil War II. Ucciso da una freccia scoccata dall'arciere Occhio di Falco, istruito da Banner stesso affinché mettesse fine alla minaccia del mostro verde qualora le cose si stessero mettendo male. La legge di Murphy si è puntualmente confermata, e Banner (e così il suo Hulk) è rimasto morto per qualche tempo, sostituito da un giovane Hulk più scanzonato, Amadeus Cho, il fichissimo giovanotto verde. Ma le ferie sono terminate, ed era ora che l'Hulk canonico tornasse in scena. Eccolo quindi rispuntare durante la saga degli Avengers intitolata “No Surrender”, dove ci viene spiegato che Hulk è sempre stato immortale. Tutte le volte, dal principio. Per questo torna sempre. Banner muore... ma Hulk la notte successiva tornerà ad emergere, e a rigenerare anche il corpo del suo debole alter ego.


Al Ewing e Joe Bennett firmano dunque l'inizio di un nuovo ciclo, Immortal Hulk, in cui (se il buon giorno si vede dal mattino) dovremo vedere la diade Banner-Hulk schiattare e risorgere più volte, seguendo un ritmo da storia dell'orrore. Perché questo sembra essere il progetto. Riscoprire nel personaggio di Hulk tutto il potenziale inquietante e buio, lasciando da parte i lampi colorati del superomismo per concentrarsi sulla paura e quanto di destabilizzante possa emergere dal rapporto simbiotico tra Banner e il mostro che non gli permette di morire definitivamente.

Il primo episodio ha una regia interessante, ma anche un po' spiazzante. Diciamo che la “novità”, quell'immortalità che c'è sempre stata (ma non era mai stata chiaramente diagnosticata), porta a galla ulteriori ombre sul personaggio e sotto certi aspetti, nel tentativo di rinnovarlo, rischia di annacquarlo. Va benissimo rivedere un Hulk quasi Frankensteinizzato (orribile parola!) e dal profilo molto più truce del solito. Va bene scorgere nel suo linguaggio e nella sua nuova mimica qualcosa che ricorda la crudeltà di Mr. Fixit, sua precedente, celebre incarnazione. A lasciare perplessi è l'alone da spirito della vendetta, più vicino a Ghost Rider che al Golia Verde. Le similitudini (che ci sono sempre state) con il Solomon Grundy della concorrente DC Comics. Persino qualche elemento comune al rapporto del demone Etrigan con il suo ospite umano Jason Blood, ma anche alcune dinamiche del bizzarro e poco noto Resurrection Man.

Rassegnandosi al fatto che nulla si crea e nulla si distrugge (come l'Immortale Hulk), ma che tutto si trasforma in qualcosa d'altro, o comunque qualcosa di diverso ma simile... possiamo dire che la partenza di Immortal Hulk sia un antipasto interessante e che tutto si giocherà sui numeri immediatamente successivi. Il dubbio che permane è la necessità di questa “nuova” caratteristica (jolly molto semplice da utilizzare per riportarlo in scena), in realtà suggerita da sempre, e in qualche modo tanto efficace in quanto lasciata vaga e tenuta sottotraccia. Se l'intento è quello di ammantare di ossessione il mostro che risiede in Banner, come nell'essere umano tipicizzato che rappresenta, tutto sta al tono delle storie a venire. La vera battaglia, il vero scontro tra titani, sarà con le consuetudini commerciali della narrazione supereroistica, che ha sempre attirato Hulk verso un centro di gravità più colorato e più pop. Più un rumoroso kaiju che un mostro realmente inquietante. Ma siamo qui per seguire l'esperimento. Ed eventualmente, divertirci. Anche se un giorno, forse inevitabilmente, l'ampolla fumigante potrebbe scoppiare in faccia sia ai lettori che agli autori. Tanto il risultato sarebbe comunque un faccione verde.

lunedì 30 aprile 2018

Logo Mono: Ripensando a Infinity War


Un vlog (non una recensione) a ruota (più o meno) libera sul cinecomic del momento: “Avengers – Infinity War”. La costruzione del Marvel Cinematic Universe ha raggiunto il suo apice. Se una fetta di pubblico applaude, l'altra sembra molto perplessa. Perché? Forse è il caso di tirare qualche somma e chiedersi che cosa si propone davvero un progetto di universo cinematografico condiviso.

domenica 26 novembre 2017

Marvel's The Punisher: Impressioni finali


Terminata la visione di questa prima, e per ora unica stagione, la serie Netflix dedicata a The Punisher, si colloca a mio giudizio su livelli molto alti, contendendo il primato a Daredevil, non fosse per la sua natura derivativa e cronologicamente subalterna.
Lo dico, lo accenavo già durante la visione dei primi episodi, perché questa serie mi ha piacevolmente spiazzato. Non sono particolarmente legato al personaggio fumettistico del Punisher, che trovo troppo bidimensionale, e spesso narrato in modo eccessivamente ottuso, cavalcando la spettacolarizzazione di una violenza che sacrifica l'approfondimento narrativo.

Be', tutto questo nella serie interpretata da Jon Bernthal non c'è. Questo Punisher arriva quasi a scrollarsi di dosso l'etichetta di antieroe facendo prevalere la seconda metà di questa doppia qualifica. La violenza è dosata (e badiamo bene, non manca affatto) a favore di un racconto teso, e della caratterizzazione di un protagonista non banale, dove i salti temporali danno a tutto (specialmente nello splatteroso finale) un crescendo da tragedia elisabettiana. L'ossessione onirica del Punisher, la sua fondamentale rettitudine, non erano mai state raccontate così bene. Non in versione live action, almeno. Finora.


Non solo. Per una volta il villain, riconoscibile immediatamente solo da chi conosce bene la fonte fumettistica (e questo, stavolta, non è un difetto) è una nemesi sfaccettata, ben costruita, carismatica e buca lo schermo fino al twist finale sul quale è meglio tacere. Fanservice per i lettori affezionati, chiusura del cerchio per il pubblico più generalista. Un finale in cui il Punitore è il Punitore, ma in modo sottile, non banale.

La serie, inoltre, prende abbastanza le distanze dalle precedenti serie targate Marvel Netflix. Niente Rosario Dawson, nessun riferimento alla battaglia di New York. Solo Frank Castle con la sua storia e un personaggio chiave che fa da legame funzionale (ma non solo) alla sua precedente apparizione nella seconda stagione dedicata a Daredevil.

Per tutte queste ragioni, mi aspetto che a tanti questa serie non piaccia. Proprio perché riesce a rimuovere la fondamentale banalità del personaggio cartaceo, a umanizzarlo e a intrecciare gli aspetti più violenti con un procedere del racconto secondo i criteri del thriller.


Per una volta, una trasposizione che spiazza in modo positivo e arricchisce, a mio modesto avviso, una fonte spesso stereotipata. Un tempo, in qualche redazionale, il Punitore fu definito “ottuso”. Bene. Stavolta non lo è. Ma proprio per niente. E' possibile empatizzare. E senza sentirsi in colpa.

Non era facile, e per questo promuovo Marvel's The Punisher a pieni voti.

domenica 19 novembre 2017

Marvel's The Punisher: Prime impressioni...

Devo ammettere che ero abbastanza prevenuto sulla serie Netflix dedicata a "The Punisher". Il debutto del personaggio, stavolta con il volto dell'attore John Bernthal, nella seconda stagione dedicata a "Daredevil" era stato molto convincente. Ma puntava tutto sulla scelta di affidargli un ruolo da antagonista e non, a differenza dei tre film precedenti, da protagonista assoluto. Questo permetteva un'introduzione graduale di Frank Castle e un crescendo che permetteva di empatizzare con il personaggio nonostante gli aspetti estremi. Dimostrazione che gli adattamenti seriali di stampo televisivo, quando parliamo di alcune trasposizioni dai fumetti al live action, funzionano meglio (almeno per gli appassionati delle controparti cartacee) se centellinate sul piccolo schermo che sintetizzate su quello grande. Ma the Punisher è un personaggio difficile da adattare. Troppe le parentele con icone cinematografiche abusate, tra cui troviamo i vari giustizieri della notte, Rambo e relativa progenie. Una cosa - pensavo - è vedere intrecciare la sua storia a quella del diavolo di Hell's Kitchen, con un parallelismo tra due differenti visioni di giustizia. Altro è narrarlo da solo, abbandonandolo alla consueta orgia di violenza. Beh, forse (dico forse) non è così. Almeno dalle prime tre puntate, la strada imboccata sembra prendere le distanze dal modello sparatutto che avevo paventato. Ed è possibile che proprio questo diventi l'elemento che deluderà alcuni fans di Frank Castle, che magari attendevano qualcosa di diverso. L'azione e la violenza (che non mancano, eh!) si fanno attendere e sono dosate nel corso di una narrazione noir dove ha molta importanza una battaglia mentale, fatta di sotterfugi, interazioni, rivelazioni, e dove gioca un grosso ruolo l'arrivo del personaggio fondamentale di Micro.
L'alternanza temporale e gli inserti onirici che rappresentano l'origine (più complessa di quello che sembrava) e l'ossessione di Frank Castle, permettono ancora una volta di calarsi nella mente di un personaggio sfaccettato, e non di un'ottusa macchina di morte (che in ogni caso esiste, e quando scatta fa veramente paura). Un Punisher, dunque, riflessivo e misurato, ma in senso buono, se la serie conserverà questa scelta ritmica (anche se è probabile che a un certo punto inizieranno le mitragliate e tutto bruci, bisogna vedere con quale conto alla rovescia). Un Punisher, oltretutto, più marvelliano di quelli visti finora. E non soltanto per la presenza di Karen Page o l'inserimento del già citato Micro. Una serie di inside joke e riferimenti potrebbero far sorridere i Marvel fans. Non sono indispensabili, ma siamo pur sempre di fronte a un prodotto di ispirazione fumettistica. E stavolta, più delle precedenti, si guarda parecchio alla fanbase. Vedremo come procederà. Per adesso lo sto apprezzando più delle ultime produzioni Marvel's Netflix. Magari sono in controtendenza, o i prossimi episodi mi faranno cambiare idea, considerato che ormai difficilmente mi entusiasmo per questo genere di prodotti.
Per il momento, mi sento solo di dire, come fa uno dei personaggi: «Bentornato, Frank!»

sabato 11 novembre 2017

I Fantastici Quattro di Leo Ortolani (Tra la Marvel e Rat-Man... un legame geologico)


Un mito del fumetto americano. Un altro del fumetto italiano. La fine di Rat-Man ci fornisce lo spunto per parlare di Leo Ortolani e della sua poetica, tra umorismo ed echi marvelliani, omaggio e crescita artistica. E di riparlare di una delle sue prime prove d'autore: l'ultima avventura dei Fantastici Quattro, partendo là da dove Jack Kirby aveva abbandonato la sua creatura dopo gli screzi con Stan Lee. Molto più di un tributo da parte di un autore già molto avanti rispetto agli anni novanta in cui ha prodotto quest'opera.

Leggi i Fantastici Quattro di Leo Ortolani: http://www.rat-man.org/i-fantastici-quattro/

venerdì 29 settembre 2017

A proposito di supereroi, di messia e di stregoni...


L'idea di supereroe inteso come versione laica e commerciale della concezione di messia, è antica quanto il fumetto supereroistico stesso. Superman per primo è la rappresentazione più classica di una creatura superiore venuta dal cielo e cresciuta da una famiglia umile per “salvare” l'umanità. Gli autori Jerry Siegel e Joe Shuster, entrambi ebrei, scelsero per il loro personaggio kryptoniano il nome di Kal-El, che in ebraico sarebbe traducibile come “Voce di Dio” (insomma, il riferimento al Verbo è praticamente dichiarato). Un messia più vicino alle aspettative del popolo ebreo del tempo di Cristo, che attendeva un condottiero che li guidasse a un riscatto terreno più che un maestro morale. La storia del fumetto supereroistico è zeppa di letture mistiche simili, tralasciando le versioni più satiriche, come il “Son of God” di Neil Adams, che riprendeva proprio la figura di Gesù ammantandola di rimandi al Capitan Marvel-Shazam della Fawcett (e in seguito della DC Comics). Tuttavia, negli anni settanta la Marvel sbaragliò tutti con il personaggio di Adam Warlock. Mentre attendiamo di scoprire quale trasfigurazione ci verrà mostrata dal Marvel Cinematic Universe (abbiamo visto il suo bozzolo in una delle scene post credits del secondo film dedicato ai Guardiani della Galassia), ripercorriamone brevemente gli esordi cartacei.




Warlock (all'epoca chiamato genericamente “Lui”) nasce sulle pagine dei Fantastici Quattro a opera di Stan Lee e Jack Kirby, ed è un essere creato artificialmente da un'enclave di scienziati che mirano a produrre una versione perfezionata della vita senziente. La situazione, però, sfugge loro di mano, e il risultato è per l'appunto... Lui. Definito misteriosamente per un po' “La creatura della chiusa 41”. Un giovanotto biondo dalla pelle dorata e dai poteri enormi quanto indecifrabili. Compare per la prima volta in forma prenatale, chiuso in un bozzolo che in seguito diventerà il suo caratteristico rifugio ogni qual volta ha bisogno di rigenerarsi. Poi in forma umanoide per poche vignette alla fine del racconto, quando neutralizza (in modo veterotestamentario e anche un po' sprezzante) gli scienziati che hanno avuto l'arroganza di crearlo per scopi non all'altezza del suo potenziale, e abbandona il pianeta giudicandolo troppo immaturo per ospitare un essere evoluto come... Lui.


Ma siccome nelle storie Marvel niente è mai come sembra (gli scienziati dell'enclave, per esempio, non sono davvero morti e continueranno a fare pasticci), Lui ricompare in un episodio di Thor. La terra non era pronta a riceverlo, ma si sa che cos'è che tira più di una fune di bastimento. E in questo caso si identifica con la dea Sif, della quale Lui si invaghisce, rapendola alla maniera di King Kong (anche lo scimmione gigante era venerato come un dio) per farne la sua compagna (in modo innocente, ma anche un po' troglodita). Thor, che in quel periodo era affetto da una sindrome asgardiana che lo mandava in berserk oltre misura, gliele suona di santa ragione (rivelando che gli immensi poteri della creatura sono estremamente variabili, e si riducono o si espandono a seconda delle esigenze della trama), inducendolo a rinchiudersi nel suo bozzolo protettivo e a fuggire di nuovo nello spazio.

Qui inizia il casino mistico vero e proprio.

Pare, si dice, si mormora, che lo sceneggiatore Roy Thomas fosse rimasto affascinato da “Jesus Christ Superstar”, il musical di Andrew Lloyd Webber reso celebre in tutto il mondo dal film di Norman Jewison del 1973. L'opera rock di Webber era però popolarissima negli Stati Uniti già nel 1972, e Thomas si mise in testa di portare sulle pagine dei fumetti il supereroe messianico definitivo. La scelta cadde su Lui, personaggio già esistente, ma ancora bisognoso di una vera caratterizzazione (fino a quel momento era stato poco più di un espediente narrativo per innescare le avventure di altri eroi) che fu recuperato e trasformato in... Warlock.

Lo scenario scelto fu la Contro-Terra, un mondo parallelo creato dall'Alto Evoluzionario (detto anche “Grande Evoluzionista” viste le traduzioni ballerine dell'Editoriale Corno). Personaggio già canonizzato nell'universo Marvel, apparso su più testate (Thor, Hulk) e presentato come genetista supremo, dedito alla sperimentazione e creazione di varie forme di vita. La Contro-Terra era sostanzialmente un mondo parallelo identico alla terra se non per alcune differenze storiche (pieno quindi di doppelganger di personaggi iconici, ciascuno con una sua variante). Qualcosa che oggi, per comodità espositiva, potremmo paragonare all'universo gemello della serie televisiva “Fringe”. Prima ancora, nell'episodio di Thor intitolato “I generatori di vita”, avevamo incontrato un'altra creazione dell'Alto Evoluzionario. Una genia di animali antropomorfi (esattamente come ne “L'isola del dottor Moreau” di Wells, ma più evoluti) e il loro crudele leader, un lupo (e sì!) chiamato genericamente Uomo Bestia (Uomo Lupo era già preso).

La sintesi evangelica ideata da Roy Thomas e realizzata graficamente dal grande Gil Kane fu praticamente questa. L'Alto Evoluzionario ha creato sia gli animaluomini (New-Men) che la Contro-Terra. L'intento dell'Alto Evoluzionario era risparmiare al pianeta fotocopia le tribolazioni della terra originale, ma tutto è mandato in vacca (praticamente per dispetto) dall'Uomo Bestia e dalla sua stirpe di animali antromorfi, che subito dopo si rifugiano sulla Contro-Terra per impadronirsene secondo i canoni più consueti della narrazione supereroistica. Davanti a questa deriva, il genetista vorrebbe disfare il proprio lavoro, ma qui subentra Lui, che in seguito assumerà il nome di Adam Warlock. Warlock (che nel frattempo ha rubato la divisa di Capitan Marvel-Shazam, tagliando via maniche e gambali per stare più fresco) ferma la mano del Creatore e si offre come protettore del pianeta (comodamente separato dalla vera terra e quindi dalla continuity ufficiale di casa Marvel), per salvare capra e cavoli dalle mire del lupacchiotto. L'Alto Evoluzionario-Dio padre (putativo, in questo caso, quanto San Giuseppe) accetta di partecipare a questa performance in cosplay basata sul Vangelo, e invia Warlock sul pianeta, donandogli il nome con cui sarà conosciuto e una delle gemme dell'infinito (incastonata sulla fronte di Lui come su quelle del dio Vishnu nell'iconografia induista) che in futuro si rivelerà molto importante (soprattutto quando il personaggio sarà preso in mano da Jim Starlin).

Inizia così l'avventura messianica di Adam Warlock, con un ciclo di storie supereroistiche ambientate fuori dal cosmo Marvel canonico, in lotta con la Bestia che si annida tra gli uomini. Una lieta novella fatta di super-risse che poco hanno a che vedere con gli insegnamenti etici cristiani, mostrando la corda di un parallelismo religioso eccessivamente dichiarato. Ma la serie intitolata “The Power of Warlock” ha vita breve e chiude per la scarsità delle vendite.


La saga della Contro-Terra terminerà sulle pagine dell'Incredibile Hulk (in trasferta per l'occasione sul mondo parallelo), e lo farà nel modo più stucchevole possibile. Sempre Roy Thomas, in questo caso in collaborazione con Gerry Conway, conclude la saga metafisica di Adam Warlock con una narrazione ai limiti del parodistico, ripercorrendo quasi pedissequamente le ultime pagine dei Vangeli. In un certo senso, Hulk rivestirà un ruolo simile a quello di Giuda, sia pure sotto il controllo del malvagio diavolo-Uomo Bestia. Partecipiamo a una rappresentazione supereroistica dell'ultima cena, ascoltiamo l'invito a ripetere il rituale in memoria del supermessia, e assistiamo soprattutto alla cattura e all'esecuzione di Warlock su un macchinario simile a una croce egizia. Nemmeno l'urlo «Alto Evoluzionario, perché mi hai abbandonato?!» ci viene risparmiato. E Warlock, come ogni Gesù Cristo che si rispetti, muore, ma solo per tre giorni. Risorge infatti dal suo bozzolo più potente che mai e dotato di una nuova forma di consapevolezza astrale. Fa involvere l'Uomo Bestia riportandolo alla sua natura lupesca, ne debella definitivamente la minaccia e vola via nello spazio (come aveva già fatto anni prima sulle pagine dei Fantastici Quattro) verso un nuovo, enigmatico destino.

Qualche tempo dopo, Jim Starlin avrebbe recuperato il personaggio di Warlock mettendo “tra parentesi” la sua parabola messianica sulla Crontro-Terra, facendo evolvere le sue avventure in una direzione cosmica e trasformandolo in un personaggio schizofrenico, in lotta con la sua futura evoluzione malvagia: il Magus, fondatore di un culto spaziale totalitario. Una metaformosi concettuale che conserva le implicazioni mistiche, ma spostandole su un piano più filosofico, e mettendo in scena un conflitto allegorico sulla destinazione finale cui un grande potere può condurre. Il bene e il male rappresentati come il conflitto interiore (e non solo) di un unico personaggio, impegnato a salvare l'universo non da un demone giunto dall'esterno, ma da se stesso.
La precedente visione messianica di Roy Thomas aveva finito con l'impantanarsi in una serie di parallelismi biblici fin troppo evidenti per essere realmente intriganti, sconfinando alla fine nella citazione più banale. Paradossalmente, toccando forse il punto più basso nell'interpretazione metafisica dell'icona supereroistica. A quel punto Warlock doveva veramente morire e risorgere a nuova vita. Editorialmente parlando. Il personaggio ha conservato da allora il suo ruolo misticheggiante, ma secondo una sensibilità più sfumata, potremmo dire più “new age”, più fantasy e di conseguenza funzionale. Uno dei casi supereroistici più bizzarri e mutevoli che l'evoluzione marvelliana ci ha donato nel corso della sua lunga storia editoriale.