martedì 17 dicembre 2019

Watchmen, finale...



Fine del viaggio.
Si spera definitivamente.
Sì, perché forzare un seguito a un lavoro così ben scritto potrebbe, con grande probabilità, dimostrarsi un vero delitto. Watchmen, la serie TV firmata da Damon Lindelof si è conclusa, svelando nel suo ultimo atto un'architettura narrativa in cui gli ingegneri hanno lavorato di fino. Un'epopea suggestiva come non se ne vedevano da tempo. Una bellissima sorpresa, e un superamento (verrebbe da dire) del concetto di cinecomics, dal momento che ci troviamo davanti non a una trasposizione, ma al seguito ideale di una celebrata opera a fumetti, che conquista un'identità del tutto autonoma rispetto alla versione cinematografica che ne era stata data qualche anno fa. Un risultato pazzesco che, come mi è già capitato di dire, non mi aspettavo. Bravi tutti, ma bravo soprattutto Lindelof, che giustamente si tira preventivamente fuori da qualsiasi eventuale (e non necessaria) stiracchiatura. Affascinante riconoscere anche certi elementi dell'amatissimo LOST, qui recuperati dal suo autore in modo diverso, ma altrettanto efficace. La scrittura. La scrittura è tutto. Senza la scrittura non si va da nessuna parte. Watchmen, la serie TV, esiste grazie a questo, signori miei. Un esempio di ottima scrittura portata su schermo in modo egregio. E ora, se non l'avete ancora fatto, godetevi il gran finale. Sipario.

martedì 10 dicembre 2019

Watchmen, meno uno...



Ormai manca un solo episodio al finale di "Watchmen", la serie televisiva. E dopo aver visto il penultimo capitolo, l'ottavo, ritengo si possa già dire che la scommessa (davvero audace) è vinta. Conosciamo tutti i precedenti di Damon Lindelof. Sappiamo cosa ha fatto, da dove viene e perché è noto. E questo episodio, intitolato "A God Walks into a bar", ce lo rammenta ulteriormente, svelando alcuni meccanismi narrativi cari allo sceneggiatore di "Lost". L'attesa per il gran finale adesso si fa intensa, ma il viaggio è già stato vertiginoso, e capace di rispondere alla maggior parte delle domande cruciali che erano state seminate dall'inizio. Non si sa ancora se l'esperienza di questo sequel televisivo di "Watchmen" (ma potremmo definirlo anche un omaggio, un atto d'amore all'opera di Alan Moore) avrà una seconda stagione. E' probabile che dipenda dalle somme che la produzione tirerà all'indomani della conclusione dello show. E a quanto vorrà rischiare. Quel che sappiamo già è che Lindelof non ci sarebbe. Ha già detto tutto. E siamo d'accordo con lui. Quel che ci aspettiamo, adesso, è un finale definito (non importa se aperto). "Watchmen - la serie TV" si è dimostrata una delle cose più belle e inaspettate viste quest'anno. Non so voi, ma io ero molto scettico. E sono davvero contento di avere cambiato idea. Una costruzione a orologeria. Una regia che sa cosa è meglio lasciare fuori del campo visivo e quando. L'uso delle musiche di Offenbach dai "Racconti di Hoffman" e un profondo rispetto del materiale originale. Un bel regalo per tutti quelli che hanno letto e amato il fumetto di Alan Moore e Dave Gibbons.

Train to Busan, di Yeon Sang-Ho


"Train to Busan" è uno zombi-movie sud coreano diretto nel 2016 da Yeon Sang-ho, e grosso successo in Asia, tanto da generare immediatamente un prequel animato (diretto dallo stesso regista e incluso nella versione home video uscita anche in Italia) e un sequel, che dovrebbe uscire nell'ormai vicino 2020. Il film di Yeon Sang-ho gestisce un plot abusatissimo con un mestiere inattaccabile. Un'epidemia zombi si scatena per cause vaghe e irrilevanti (come sempre), ma la storia che noi seguiremo sarà il destino dei passeggeri di un treno diretto a Busan. Treno su cui è appena salita una persona che ha contratto il mostruoso contagio che presto dilagherà sul treno in corsa, trasformandolo in un inferno su ruote. Gli zombi di questa versione appartengono alla tradizione velocista. Sono snodati, feroci, tarantolati, e il loro numero cresce con una velocità impressionante (la trasmissione e il decorso del virus sono rapidissimi). Presto diventano un'orda simile a cavallette fameliche, e per un giovane manager, che sta accompagnando la figlioletta in visita dalla madre da cui sta divorziando, sarà l'inizio di un'odissea insanguinata, mentre il treno viaggia verso quella che (forse) è l'ultima stazione sicura. Lo svolgimento della trama sarebbe da manuale. Ma le modalità con cui tutto ci viene raccontato sono impeccabili. "Train to Busan" non dà tregua. E' una corsa a perdifiato tra le varie carrozze, una più insidiosa dell'altra, e una carrellata di personaggi caratterizzati, dei quali per una volta ci preoccupiamo per davvero. Non manca un pizzico di melodramma molto orientale. E alla fine del film ci sentiamo spossati. Una sorpresa da non farsi sfuggire.

lunedì 2 dicembre 2019

Parasite, di Bong Joon-Ho



Che strano, imprevedibile, straordinario film che è "Parasite" di Bong Joon Ho. Premiato a Cannes con la Palma d'oro nel 2019, e ora selezionato come miglior film straniero ai prossimi Oscar del 2020.
"Parasite" è uno di quei film difficilmente collocabili nel genere che raccontano. Sarebbe facile iniziare definendolo una commedia nera, dove l'aspetto umoristico (a tratti anche grottesco) prevale sugli aspetti noir,  che pure ci sono e restano a incombere per una discreta fetta di minutaggio, sottotraccia, ma comunque presenti in modo inesorabile. Il fatto è che "Parasite" cambia pelle almeno tre volte nel corso della sua durata, sconfinando dalla commedia al thriller, avventurandosi a un certo punto persino nel territorio dell'horror. Ma quello che prima di tutto caratterizza "Parasite" è il suo essere un film politico. Una parabola sulla lotta di classe che non sceglie un punto di vista in maniera netta, ma preferisce  suggerire i paradossi di un'ingiustizia sociale che va oltre l'etica dei personaggi, e inaspettatamente li livella sul piano morale, inscenando dei contraltari allegorici che lasciano pietrificati nella loro beffarda spietatezza.
Sarebbe un delitto parlare della trama di "Parasite". No, meglio scoprirla poco per volta vedendo il film, incontrando i protagonisti e le loro caratterizzazioni uno dopo l'altro. Bong Joon Ho si era già dedicato alla descrizione di famiglie di reietti e alla loro inventiva per la sopravvivenza nel bellissimo "The Host", e aveva trattato il conflitto di classe nella sua trasferta americana con "The Snowpiercer", inasprendo ulteriormente le ambientazioni del fumetto francese da cui traeva spunto per infondere al racconto politico una visione allucinatoria e simbolica tutta orientale. Con "Parasite" dirige una sinfonia di emozioni che travolge lo spettatore e lo scaraventa a terra, con tocchi di comicità sardonica, twist inaspettati e improvvisi cambiamenti di registro. Ma il tema è sempre quello: i poveri, i ricchi, le profonde differenze di vita, e l'eterna domanda se è possibile risolvere tanta disparità in modo pacifico. E se sì, come? Con che proposito? Con quale iniziativa? Quale piano? Esiste una solidarietà tra disgraziati? E qualora ci fosse, quando... come... con quale gesto potrebbe manifestarsi?
La risposta non è scontata, e Bong Joon Ho affida al suo humor nero numerose metafore volte a suscitare altri quesiti e nuove considerazioni più che risposte. Song Kang-Ho è un fottuto camaleonte, capace di cambiare ruolo e passare da registri comici a drammatici in pochi istanti. E' uno dei volti più noti del cinema coreano contemporaneo, e con "Parasite" potrebbe essere sulla buona strada per diventare un attore internazionale. Ma in verità tutto il cast è al meglio e perfettamente affiatato.
"Parasite" è un film da vedere e rivedere. Prima per ridere, stupirsi e sconvolgersi. Poi per comprenderne meglio i tanti sottotesti seminati in ogni singola inquadratura di un teatro dell'assurdo che descrive miseria e agiatezza con una grazia cinematografica che ha del virtuosistico.
Una chicca: sensazionale la presenza nella colonna sonora di "In ginocchio da te", a commento (non casuale) di una delle scene più divertenti e spiazzanti del film. Da vedere assolutamente. Il cinema coreano non è mai stato tanto vitale, ed è un faro nella notte che bisogna seguire a tutti i costi.

venerdì 29 novembre 2019

Watchmen, la serie



Finora, l'unico difetto (se così lo vogliamo definire) che mi sento di trovare in "Watchmen - La serie TV" è il suo essere un racconto del tutto subordinato alla narrazione originale di Alan Moore. Essere cioè un prodotto derivativo, che necessita della memoria storica del celebre graphic novel per essere compreso a pieno e apprezzato in ogni sua sfumatura. Viene di pensare questo perché, al di là del suo essere un vero e proprio sequel, è scritto davvero bene, riuscendo persino a inserire sottotesti inediti al ricordo dell'opera madre. Non era un'impresa da poco, ma Damon Lindelof, in questo sesto episodio, c'è riuscito in pieno. Lavoro veramente bizzarro, questo seguito, così cronologicamente distante e affidato a un media differente da quello originale. Perché sì, Watchmen aveva avuto prequel (inutili) e tante imitazioni. Ma nessun vero seguito. E non si dica, per favore, che nei fumetti questa funzione sta venendo svolta da "Doomsday's Clock". Non è vero. E' un'operazione del tutto differente e con ben altri intenti. Forse è anche meglio così. Un seguito (un VERO seguito) a fumetti avrebbe sofferto di un impietoso confronto con il capostipite. Una miniserie televisiva, con i suoi codici peculiari, sta riuscendo a produrre una magia inaspettata. A tre episodi dalla fine, questo Watchmen televisivo si sta facendo amare, e se sarà concluso nel modo giusto resterà a lungo nella memoria. Confidiamo in una degna risoluzione.

giovedì 21 novembre 2019

Balada triste de trompeta: a proposito di Joker e di pagliacci folli...


Fa un curioso effetto rivedere oggi "Balada triste de trompeta", film che Alex De la Iglesia realizzò nel 2010, e arrivato da noi con il titolo italiano "Ballata dell'odio e dell'amore" (che come al solito, finisce con il banalizzare tutto). L'effetto più strano, più paradossale, è quello di sentirsi spinti a pensare che un film che si proponesse di narrare in modo allegorico, sociale e politico le origini del Joker, era già stato fatto molto prima dei fasti di Todd Phililips. Ed è questo. C'è da dire che il cinema di Alex De la Iglesia è difficilmente classificabile da sempre. Riconoscibile e nello stesso tempo impossibile da incasellare. Grottesco, drammatico, ironico, impegnato, allucinato, satirico... e chi più ne ha più ne metta.
Ad accendere la miccia di una risata terrorizzante qui è un quadro politico e storico truce. Prima la guerra civile spagnola, poi gli ultimi colpi di coda della dittatura franchista. Ma anche l'eterna tragedia della gente comune, la gente povera, disperata e disadattata, che magari cerca nell'arte una possibilità di fuga da una realtà troppo crudele. Nel film di De la Iglesia i Joker sono addirittura due. Entrambi generati da un humus culturale e politico tossico, emblemi di una contrapposizione manichea che finisce solo per distruggere e per distruggersi. Tra violenza e risate, lazzi e paura, espressione di un paese allo sbando che danza sull'orlo di un abisso senza fondo. Tra invenzioni visive indimenticabili, personaggi esplosivi e persino citazioni cinefile imprevedibili (da Alfred Hitchcock a Tim Burton), "Balada triste de trompeta" presenta un circolo vizioso inquietante e amaro. L'alternanza tra farsa e tragedia, che si alimentano a vicenda come luce e ombra, bene e male. E tanto, tanto altro, in mezzo a un caos sociale e storico che sembra non mostrare scampo. E in questo interregno, come diceva Gramsci, nascono i fenomeni più aberranti, che si mostrano a noi, pubblico stupefatto, con le eterne due maschere del teatro. Il sorriso e le lacrime.
Sì, il film sulle origini di Joker, esisteva già. Ed era perfetto.

mercoledì 20 novembre 2019

A Girl Walks Home Alone at Night


"A Girl Walks Home Alone at Night" (2014) è un film horror indipendente davvero molto, molto strano. Per cominciare si tratta di una produzione statunitense, girato in America con un budget ridottissimo da una regista, Ana Lily Amirpour, inglese di nascita, naturalizzata americana ma con ascendenti iraniani. Ambientato in un'immaginaria cittadina dell'Iran, interpretato da attori iraniani e interamente recitato in lingua persiana. Una bella commistione di culture, per quanto la regista sia formata a una scuola di cinema occidentale. Il film è difficile da inquadrare. Horror? Si direbbe di sì, visto che il perno del racconto è una misteriosa ragazza paludata in uno chador che va in giro di notte da sola (come dice esplicitamente il titolo), e che se avvicina un uomo, in genere, è per morderlo sul collo e succhiargli fino all'ultima goccia di sangue. Ma non è tutto qui. La fotografia in splendido bianco e nero porta in scena un'umanità alla deriva. Un bambino, occhio dello spettatore, sempre per strada e apparentemente senza famiglia. Il protagonista, il giovane Arash, inquieto, incerto sul suo domani e anche un po' cleptomane, e suo padre, vedovo tossicodipendente, che vive con il figlio una drammatica inversione di ruoli. In una città desolata e triste, abitata prevalentemente da spacciatori, magnaccia e prostitute, il vampiro si aggira silenzioso. Quasi un simbolo di più anime dannate, in cerca di una ragione per continuare a esistere. Emblema di una condizione statica, prigioniera di una routine quotidiana che come una forma di dipendenza impedisce di iniziare a vivere davvero. Il film adotta un ritmo lentissimo e frequenti silenzi, affidati a personaggi didascalici e molto è affidato alla lettura dello spettatore. Un determinato risvolto narrativo oggi potrebbe far pensare a un ormai fin troppo citato brand cinematografico per adolescenti, ma qui siamo in un territorio affatto diverso. Un sogno prima che un film, che va vissuto e interpretato. Un'esperienza cinematografica bizzarra e sicuramente molto suggestiva.