venerdì 3 maggio 2019

Doom Patrol, la serie TV



Mi sto finalmente mettendo in pari con "Doom Patrol", seconda serie TV a uscire dopo "Titans" per piattaforma streaming DC Universe.
Per cominciare, direi che si conferma l'attitudine della DC a centrare il bersaglio con produzioni seriali televisive, fallendo invece al cinema, nel seguire frettolosamente i passi della Marvel-Disney. "Doom Patrol" si presenta ufficialmente come uno spin off del già interessante "Titans", per quanto questa definizione gli venga stretta. I personaggi sono stati introdotti in una sola puntata del serial madre e oggi sono sdoganati in una serie autonoma che segue uno stile tutto suo e modifica il cast, aggiungendo un sempre carismatico Timothy Dalton nel ruolo di Niles Caulder e Brendan Fraser come Cliff Steele. In comune con "Titans" resta quel suggerimento di avventure ai margini di un mondo più vasto, dove i supereroi celebri sono nominati, ma restano invisibili. Una retrovia in cui i protagonisti, qui ancora più che in "Titans" devono sgomitare per trovare un loro ruolo. Se con i Titani si era scelta un'atmosfera ibrida tra il crime e l'horror, in "Doom Patrol" il registro è più ironico e a tratti (giustamente) demenziale. Senza escludere espliciti riferimenti al ciclo scritto da Grant Morrison, che rilanciò a suo tempo la serie a fumetti introducendo più di un personaggio che qui la fa da padrone. Il villain Mr. Nobody, interpretato dal "josswehdiano" Alan Tudyk è sicuramente uno dei punti di forza della serie, usato in modo metanarrativo, a volte come io narrante e commentatore degli eventi (anche se forse la sua resa farà storcere il naso a chi ama fare le pulci agli effetti visivi). 

Ricordiamo, inoltre, che nei fumetti, Doom Patrol e X-Men nacquero insieme, influenzandosi su parecchi punti (compresa una certa sedia a rotelle). Ma se i mutanti Marvel hanno preso la strada della critica sociale e della metafora della diversità che lotta per i suoi diritti alla vita, la Patrol è forse ancora più inquietante. Simbolo di una diversità sì mostruosa, ma che può alludere anche a un disadattamento psicologico, uno scollamento dalla realtà che tende più alla crisi esistenziale e a una lotta per restare in vita e in piedi in un mondo privo di vero senso. Gli antieroi della Doom Patrol, nella serie TV come nei fumetti, non sono supereroi reietti. Sono reietti con superpoteri, presentati come una sorta di famiglia Addams chiamata dal caso a occuparsi di faccende bizzarre che sono decisamente troppo pazze, troppo oltre perché gli eroi canonici possano gestirle.
Mentre la prima stagione marcia verso la conclusione, l'esperimento sembra riuscito e ci da motivo di attendere il prossimo arrivo di "Swamp Thing", per la stessa piattaforma streaming, che recupererà (così pare) temi e atmosfere del celebre ciclo di Alan Moore.
Un altro modo di intendere gli eroi super dei fumetti e un altro modo di tradurli in live action. Curioso anzicheno. Peccato che di queste serie, almeno finora, se ne parli così poco.


martedì 30 aprile 2019

Il Sipario di Cartone: Ultima serata



L'ultimo (per ora) appuntamento con Il Sipario di Cartone è per il 3 Maggio ore 19 presso la Biblioteca Salvatore Rizzuto Adelfio. Vedremo insieme "Heavy Metal", film d'animazione diretto da Gerald Potterton nel 1981. Una narrazione fantascientifica a scatole cinesi, in cui un racconto fa da cornice a più episodi, ambientati su pianeti diversi e diverse epoche, ma in qualche modo tra loro collegati. Una sarabanda di autori e storie che provengono dall'esperienza della rivista Metal Hurlant e dai tanti artisti del movimento de Les Humanoids. Prima della proiezione, la consueta performance teatrale sarà affidata alla voce e alla grinta di Mario Clames, che reciterà un monologo da "Devilman" manga capolavoro di Go Nagai. Per il fumetto, per il teatro, per il cinema e per una condivisione delle arti... venite a trovarci. L'ingresso è gratuito.



Abbiamo deciso di intitolare questa rassegna “Il Sipario di Cartone” con l'intento di presentare due linguaggi, anzi tre, accomunati dalla componente dell'arte grafica. Vedremo insieme tre film di animazione, scelti con un criterio che potremmo definire... non dico anticommerciale, ma volto al recupero di opere particolari, alcune vintage, ma in grado di fornire spunti di riflessione che vadano oltre l'attuale trend di intrattenimento.


Ma prima di vedere il film, stasera, il sipario di cartone di aprirà su una performance di stampo teatrale. Un teatro applicato al media fumetto. Quindi, la viva voce dell'attore e il suo gestire per passare poi alle immagini animate sullo schermo.
Perché?
Noi di Altroquando abbiamo da sempre fatto vivere i fumetti in contiguità con qualcosa che apparentemente c'entrava poco. Quando avevamo la libreria, i fumetti erano accanto alle produzioni underground, all'antiproibizionismo, alle battaglie per i diritti LGBT e alle mostre di artisti con attitudini variegate. Nella nostra nuova forma di associazione culturale, attraverso anche l'attività sul canale Youtube, abbiamo recuperato l'interesse per il teatro. Una delle poche forme d'arte che si possono veramente definire viventi. Il teatro è arte viva perché raggiunge la sua espressione massima durante la performance attoriale, davanti a un pubblico che fruisce il lavoro di chi sta facendo spettacolo nel momento stesso in cui questo si attua. Il fumetto, dal canto suo, è una forma d'arte... la nona... tuttora ambigua e soggetta a mutamenti. Da un lato è ancora fortemente sottovalutata da molti. Da un altro, lo sdoganamento del mondo nerd sta dando vita a una nuova forma di omologazione. E di casta. E sta portando a un generale appiattimento, dove il potenziale creativo del linguaggio fumettistico si arena nelle mode correnti e in dinamiche autocelebrative che girano a vuoto, macinando soldi e poco altro.
Decenni fa, i più maturi se lo ricorderanno, i fumetti furono portati in televisione con un esperimento rimasto isolato. Oggi noi cerchiamo di raccogliere quel testimone e di usare le opere a fumetti come strumento per dimostrare che la narrazione per immagini può essere veicolo di una forza testuale che va oltre il mezzo. Non solo per la moda dilagante dei cinecomics, ma come un immaginario comunicante con altre forme espressive, altre discipline. Un crocevia mediatico che può aprire porte impensate e condurre alla conoscenza e all'amore per altre arti (o produrne di ibride e di nuove). Oggi cominceremo con la forma del monologo. Domani, se l'esperimento susciterà risposte adeguate, potremmo progettare uno spettacolo più complesso. Chissà.



lunedì 29 aprile 2019

Ripensando a "Avengers: Endgame"



A distanza di un anno da “Avengers: Infinity War” torniamo a parlare di Marvel Cinematic Universe e del suo attesissimo atto conclusivo della prima importante saga. Un'operazione commerciale che porta sul grande schermo le logiche seriali del fumetto popolare supereroistico, suscitando entusiasmi e detrazioni. In ogni caso un grosso successo di pubblico. Solo un vlog, e qualche riflessione sul cinecomic del momento.SPOILER presenti. Quindi solo per chi ha già visto il film, Ok? Senza estremismi, senza tecnicismi... Solo voglia di parlarne.

mercoledì 10 aprile 2019

The Bridge... un addio


Anche "The Bridge" (la serie originale scandinava, andata avanti lasciando indietro ben due pallidi remake) è infine giunta al traguardo con una quarta stagione che raccoglie e intreccia tutti i fili lasciati in sospeso. E si dimostra una delle serie TV più sorprendenti e riuscite degli ultimi anni, distaccando di molte misure tanti gettonatissimi prodotti statunitensi. Un crime torbido, con una protagonista femminile indimenticabile e una schiera di comprimari (e partners) caratterizzati benissimo. I remake (uno americano, l'altro anglo-francese) non potevano realmente rendere le atmosfere di "Bron | Broen" (questo il titolo originale, sia in svedese che in danese, con le due parole separate da una linea verticale. Anzi un confine).


 Infatti, in "The Bridge" c'è molto più di un intrigo poliziesco che coinvolge per ragioni diplomatiche le autorità di Svezia e Danimarca, costringendo le due forze di polizia a collaborare. Il ponte che unisce i due paesi è il simbolo di una difficile convivenza. Di una sofferta comunicazione tra due popoli gemelli, che hanno avuto un cammino storico parallelo e parlano due lingue derivate dalla stessa radice, ma che hanno compiuto scelte culturali e politiche a volte diverse, e tuttora vivono un rapporto quasi competitivo su determinate questioni etiche e amministrative. Peccato che il doppiaggio faccia perdere la particolarità delle due lingue e le loro sfumature ("Bron | Broen" è recitato sia in svedese che in danese, e nei due paesi i dialoghi sono sottotitolati in base al luogo in cui la serie è trasmessa). "The Bridge" è anche il simbolo della difficoltà a collaborare tra individui, a volte a dispetto degli obiettivi comuni. E la "diversità" della protagonista femminile, quella generica "patologia", mai nominata, ma soltanto accennata (mentre nel remake americano si fa esplicito riferimento alla sindrome di Asperger) è l'ulteriore metafora di un'umanità cui difetta l'empatia, ma che ha un disperato bisogno di avvicinare i suoi simili. "The Bridge" è un noir cupo, crudelissimo e machiavellico. Ordito e recitato benissimo. Una delle serie che conserverò per sempre nel cuore assieme alla canzone che le fa da colona sonora: "Hollow Talk".

mercoledì 3 aprile 2019

Shazam! (o il ritorno dei cinecomics)



Una parola per definire “Shazam”, il cinecomic di David F. Sandberg uscito oggi nelle sale italiane, potrebbe essere “imprevisto”. Ma anche “divergente”. Non “differente”, ma “divergente”. Cioè qualcosa che prende una strada diversa rispetto a una direzione comune. E' anche un film che probabilmente dividerà il pubblico. Anzi, in parte ha già cominciato a farlo, separando chi ha avuto l'occasione di vederlo in anteprima tra entusiasti e delusi che lo hanno etichettato come un prodotto nato vecchio, riconducibile a un modello ritenuto superato, stantio. Almeno per quanto riguarda il cinema fantastico e nella fattispecie i cinecomics supereroistici. Qualcuno (ho già dimenticato chi) lo ha classificato come un film dove si respira l'aria del cinema degli anni 90, concludendo che i soli spettatori che potranno apprezzarlo saranno forse i nostalgici di quel periodo.

E' vero? Beh, forse sì. E' vero.
E' un male?
No. Non necessariamente.

Cerchiamo di capirci. “Shazam” è un film prevedibile in ogni suo atto. E' un film che attinge a una tradizione avventurosa e fantasiosa che deve molto al marchio Disney (attualmente impegnato altrove, con un'etichetta concorrente). E sì, possibilmente rispolvera anche criteri e guizzi di un modo di fare cinema dei primi anni 90, per linguaggio ed estetica. Un film tratto da un fumetto di supereroi come si facevano una volta. Senza pensare a tessere tele in cui dovrebbero convergere altri progetti filmici, ma mirando unicamente a portare a casa un prodotto decente, che duri lo spazio di una serata, senza aspirare a essere ricordato per più di qualche ora.

Sì, diciamolo pure. Quello di Sandberg è un filmetto senza pretese.

Perché, allora, “Shazam” mi ha divertito come un bambino? La sua prevedibilità, per una volta, non mi ha annoiato, ma mi ha fatto conservare fino alla fine del film una sensazione piacevolissima, facendomi uscire dal cinema contento come non mi era successo con il recente “Captain Marvel” e ancora meno con l'acclamato “Aquaman”. Come mai?

In modo paradossale, la risposta potrebbe nascondersi proprio nel tema centrale del film. Vale a dire in quel bambino nascosto nel corpo di un adulto con superpoteri che non sa nascondere (né vuole farlo) la sua identità infantile. Forse tutto sta in quel concetto cardine, perché poche cose nella vita sono più puerili (e ridicole) di un bambino che gonfia il petto e fa smorfie per sembrare adulto. Mentre di un bambino vero si può magari apprezzare la simpatia, la spontaneità, la vivacità.

La chiave anni 90, che potremmo anche chiamare “disneyana”, fonde l'avventura fantastica con la commedia, e realizza un compito diligente in cui il cinefumetto parla finalmente la vera lingua delle tavole disegnate senza pretendere di mimetizzarsi per sembrare altro. E sia chiaro che il linguaggio del fumetto non è necessariamente sciocco o ingenuo. Nel caso di “Shazam”, parliamo di fantasia, di contenuti fiabeschi, di supereroi. Un terreno minato dove tentare di essere adulti a ogni costo può portare a derive perniciose. Per una volta, un cinecomic rinuncia ad aderire a quello che è un trend non dichiarato, ma ormai pesantemente codificato dal cinema degli ultimi anni. Quello di voler sembrare un prodotto che parla a tutti, a tutte le età, e facendolo realizza un pasticcio ibrido in cerca di un target indefinibile. “Shazam”, invece, se ne frega allegramente, e la butta in burla, ma conservando il tono dell'avventura di formazione. Per questo ogni twist, per quanto prevedibile, è accolto con affetto e la linea ironica che a tratti prevale su quella più seriosa (nel film non mancano momenti moderatamente horror) centra il bersagli. Ci fa sentire come se avessimo infine vinto a una gara un pupazzo che ci stava particolarmente a cuore e che finalmente possiamo abbracciare. Bentornati, anni 90. Bentornata, ingenuità felice. E bentornata confezione cinematografica diligente ma senza pretese.


La presenza dell'attore Zachary Levi è sicuramente uno dei punti vincenti del film, rodatissimo attore di commedia in grado di far trasparire il bambino dentro il titano per tutta la durata dello spettacolo. Favorito, nell'edizione italiana, dalla simpatica performance di Maurizio Merluzzo, qui perfettamente in parte. Non serve parlare della rivincita di un prodotto targato DC-Warner contro l'avanzata del Marvel Cinematic Universe. O almeno non dovrebbe importare. Chi non conosce il personaggio si troverà davanti a un film fantastico (per ragazzi? Ma sì, non è mica una parolaccia!) leggero e gradevole. Un film che ovviamente presenta dei cliché, e uno schematismo sentimentale che a qualcuno potrebbe risultare telefonato. Ma dopotutto, è davvero una cosa così negativa? Viviamo in un periodo storico in cui la semplificazione eccessiva di problemi complessi sembra pagare. Allora perché non affidarsi anche a valori positivi altrettanto schematici? Se il messaggio è quello della famiglia che si sceglie, e della solidarietà che rende forti, ben venga. Ne abbiamo bisogno come del pane fresco. E perché no, se l'odio semplificato vince nella comunicazione, forse può farlo anche uno schema semplice che parla al cuore. Per una volta gli appassionati dei fumetti ritroveranno una notevole fedeltà alle fonti, soprattutto alla riscrittura delle origini del personaggio firmata in anni recenti da Geoff Johns e Gary Frank (e se venite a trovarmi alla Biblioteca Salvatore RizzutoAdelfio, potrette leggerlo gratuitamente). Una sola vera, grossa ma indolore, variante. E stavolta ad applaudire in sala sono i bambini. E hanno ragione a farlo. Quasi dispiace non avere il coraggio di farlo con loro. Persino i titoli di coda risultano accattivanti e degni di essere visti fino alla fine. Una scena middle-credits che introduce un altro grande avversario che a quel punto nessuno si aspetta, e un'ultima scena post credits che ironizza sulla battuta finale di un altro cinecomic che attualmente va per la maggiore.


Tutto questo non sarà perfetto. Anzi, non lo è di certo. Ma funziona. Personalmente accolgo con piacere un film che non fa nulla per piacere a tutti. Cerca solo di essere quello che è. Tanto non piacerà a tutti lo stesso. E lo sa. Ne è magari fiero. Il cinecomic è servito. Anzi, il cinecomic è tornato. Tornato quello di una volta, e già mi sembra di sentire la trita cantilena di chi mi dice che dovrei mettermi al passo con i tempi. Ma non importa, l'ultima persona che mi ha detto qualcosa del genere aveva più di trent'anni, e non ha ancora imparato che giovani si diventa con fatica. Prima si è soltanto degli arroganti pischelli. E che la giovinezza che merita di essere conservata, anzi conquistata con l'esperienza, è uno stato d'animo, non un linguaggio o un trend cui omologarsi. Ci vogliono forza e tempo per guadagnare quella leggerezza.
Per questo, oggi, sono contento di aver visto “Shazam”.

P. S. Il solito post scriptum. Con tutto il rispetto e la solidarietà che ho per chi invita a frequentare le sale cinematografiche “perché è meglio”... io vi voglio bene, ma non capisco come facciate a sopportarlo. Io se pago il biglietto desidero vedere il film, non l'illuminatissima casella Gmail del giovanotto seduto davanti che la consulta per tutto il tempo. Lo spettacolo del suo osso sacro peloso quando si alzava o sedeva era già più interessante.