domenica 2 settembre 2018

Batgirl: del sessismo e altri demoni



La storia, i cambiamenti culturali, sono tanti e possono essere strani. E certi episodi di oggi richiamano alla memoria episodi di ieri. A volte simili, a volte diametralmente opposti. Può capitare, nell'ambito del fumetto americano, pensando al personaggio di Batgirl. Protagonista, qualche tempo fa, di una polemica sorta in rete a causa della cover (ritirata in seguito alle accuse di sessismo) disegnata da Rafael Albuquerque che raffigurava Barbara (Batgirl) in balìa del Joker, intento a disegnarle il suo iconico ghigno sulla faccia. La copertina intendeva essere un rimando al classico racconto “A killing Joke” di Alan Moore, in cui il Joker storpiava l'eroina condannandola a una sedia a rotelle sulla quale sarebbe rimasta per molti anni. Dopo la sua guarigione e il rilancio della sua serie, Batgirl si sarebbe di nuovo confrontata con il terribile criminale, e tutti i suoi traumi sarebbero (come è normale che sia) riemersi. 

La cover di Albuquerque non faceva che sintetizzare questo, oltre a collocarsi in una tradizione classica di copertine supereroistiche che vedono l'eroe (o l'eroina) in difficoltà, spesso alla mercé di un avversario che appare vincente per ragioni di climax.
Nello stesso periodo, analoghe polemiche sorsero per uno dei poster pubblicitari del film “X-Men: Apocalypse” che vedeva il personaggio di Mystica (interpretato da Jennifer Lawrence) strozzato dal villain del film. I significati erano i medesimi di sopra. Le copertine degli albi di supereroi tendono a mostrare il protagonista (o alcuni tra essi) in seria difficoltà, per sottolineare la drammaticità dello scontro e la loro possibilità di perdere. Anche nel caso del poster promozionale scoppiò la polemica, e si sentì dire che istigava alla violenza sulle donne. Ma torniamo a Batgirl.

E' buffo ricordare come nel 1968, su “Detective Comics 371 (episodio pubblicato anche in Italia nei primi anni 70), Batgirl sia stata protagonista di una scena davvero ferocemente sessista. Passata inosservata tanto nell'America degli anni sessanta che da noi, dove gag del genere (aimé) tendono pericolosamente a riemergere. La situazione era classica. Batman e Robin stanno lottando contro un gruppo di criminali. I malfattori sono tanti e i due giustizieri rischiano di avere la peggio. Sopraggiunge Batgirl, ma... la sua tuta attillata si scuce e la donzella sconvolta si sente persa. Sulla copertina originale, Batman chiede esplicitamente l'aiuto della ragazza dicendo «Qui abbiamo un problema!». La risposta di lei lascia di stucco: «Ne ho uno più grande. Mi si è scucita la tuta!»


Pertanto, anziché correre i aiuto dei colleghi, la ragazza pipistrello si china a contemplare preoccupata la lunga smagliatura sulla sua gamba, flettendola come solo una star del Crazy Horse saprebbe fare. Il risultato (altrettanto grottesco) è la reazione dei maschi criminali, subito distratti dalle grazie della femmina (e infatti gridano: «Che gambe!»), e per questo sopraffatti dal dinamico duo.

L'episodio, realizzato da Carmine Infantino e Gil Kane, è davvero imbarazzante. E dimostra il suo contenuto sessista con una circolarità a suo modo esemplare. La storia si apre con un flashforward fuorviante (all'epoca era una pratica diffusa), cioè un anticipazione della trama in cui però le cose non andranno esattamente così (un po' come in certe copertine). Nella prima, emblematica, vignetta vediamo già Batman e Robin combattere contro i criminali, e Batgirl, in disparte, passarsi serenamente il rossetto sulle labbra mentre si guarda civettuola in uno specchietto. La didascalia di apertura recita così: “Quando una donna è una donna? In ogni momento del giorno e della notte. Persino Batgirl. Anche quando combatte il crimine, si preoccupa del suo aspetto.”

Quando l'incidente del costume strappato (e della rissa con i criminali) si sarà concluso, la pietra tombale sulla parità dei sessi sarà messa dai commenti di Batman.
«Stavolta la tua femminilità si è risolta a nostro vantaggio e a discapito dei delinquenti. E' stata una fortuna che il tuo costume si sia strappato proprio in quel momento.»


La storia si conclude con Barbara in borghese che ripensa all'accaduto, e ci rivela di avere strappato deliberatamente la sua tuta per distrarre i criminali e dare ai suoi alleati la possibilità di sopraffarli. Non è che la sostanza cambi molto. Anzi, conferisce epicità e ragion d'essere a fumetti successivi, esplicitamente grotteschi e provocatori come la Kekko Kamen di Go Nagai, la guerriera che nasconde il volto, ma mostra il corpo, combattendo nuda. Il sessismo di base si taglia con il coltello. Ma erano altri tempi. O forse no?

Da un lato oggi potremmo scandalizzarci nel vedere la donna guerriera troppo presa dalla cura del suo aspetto, o usare le sue forme femminili per confondere dei criminali evidentemente guidati solo dagli ormoni (che succedeva se tra questi c'era un gay, magari armato di pistola?). Da un altro, assistiamo a un'alzata di scudi causata da una copertina come quella di Albuquerque, in cui l'eroina subisce un trattamento paritario (peraltro già visto) con quello suoi omologhi maschili. E' paradossale considerare come alla fine degli anni sessanta, una descrizione decisamente inopportuna del personaggio sia passata inosservata (del resto erano quegli anni lì) mentre oggi, una lettura contestualizzata e codificata dell'eroe in tuta (sia uomo che donna) sia stata vista da alcuni come qualcosa da condannare.

Questa specifica polemica risale già a qualche tempo fa, ma è rappresentativa di un sentire che ultimamente riguarda sempre più spesso i comics americani, e soprattutto quelli supereroistici. Recentemente, in una storia di Superman su Action Comics, lo sceneggiatore Brian Michael Bendis, dopo un'onda polemica, è stato costretto a modificare il termine “autistico” usato da un villain per insultare un sottoposto. Ripulire il linguaggio dei personaggi negativi lascia perplessi, in quanto condurrebbe a un impoverimento delle caratterizzazioni. Ma evidentemente sta succedendo qualcosa. L'industria che produce certo fumetto sta cambiando e si adatta a un sentimento popolare indifferenziato che ormai, nell'era di Internet, trova ovunque bersagli cui mirare. Non si parla di politicamente corretto, espressione abusata e spesso confusa con scelte di marketing volte a catturare nuove fette di lettori (e spettatori) presso etnie un tempo poco rappresentate. Non c'entra neppure la cura del linguaggio, ma una trasformazione dell'intrattenimento influenzata dal megafono (democratico?) della rete. C'è da chiedersi se la rete non abbia dato forma (anche) a forme isteriche, che insieme ad altre logiche di mercato stanno plasmando l'industria del comics popolare come un prodotto per famiglie, anestetizzato e purgato da tutto ciò che può suscitare discussione.
E' solo un interrogativo, non un elogio del politicamente scorretto. Altra questione e altra etichetta, spesso a sua volta mitizzata.

venerdì 31 agosto 2018

Marie Severin: In memoriam





Le cose che tornano (Altroquando e la Biblioteca SRA)



 «Mia mamma diceva sempre che le cose che perdiamo trovano sempre il modo di tornare da noi... Anche se non sempre come noi ce l'aspettiamo.»


Così dice Luna Lovegood a Harry Potter. E a volte... E' VERO. Cose perdute, per sfortuna, per scelte sbagliate, per cause incontrollabili, possono ritornare da noi. Una quantità di fumetti per una ragione o per l'altra persi per strada, stanno lentamente tornando. Una grossa donazione da parte di un vecchio amico di Salvatore Rizzuto Adelfio (che oggi dà il nome alla biblioteca in cui la sua libreria, Altroquando, si propone di reincarnarsi) ha riportato a casa una gran quantità di titoli. I primi 200 numeri di Nathan Never, speciali compresi. Collezioni di Julya, Magico Vento. Miniserie complete come VoltoNascosto, Demian. Ken Parker. I primi, mitici speciali di Dylan Dog. Lazarus Ledd, la serie completa originale di Cybersix e tante riviste antologiche d'autore. 



Molti di questi fumetti erano stati acquistati da Altroquando. Tanti conservano ancora la storica busta con il nostro timbro di famiglia. Non possiamo che essere grati a quanti, dimostrando una vera amicizia, hanno scelto di far tornare a casa questi titoli. La nostra iniziativa di uno spazio per condividere gratuitamente il fumetto a Palermo continua a crescere. E noi siamo entusiasti e grati. 




Per sostenere la biblioteca autogestita potete donare libri e fumetti (contattateci alla mail altroquandopalermo@gmail.com) o fare una piccola donazione monetaria sul nostro conto Paypal: http://paypal.me/altroquandopalermo
Ma potete anche scegliere un titolo dalla nostra lista dei desideri su Amazon (http://amzn.eu/5qHcH99e farlo pervenire alla nostra associazione. Grazie a tutti per l'affetto e la solidarietà che dimostrate. Ci sarà sempre un Altroquando.









lunedì 27 agosto 2018

Reminisc[i]enza - Yellow Kid e Buster Brown



Torna l'asincrona rubrica "Reminisc[i]enza" (la storia della TV non l'hanno fatta solo gli Anime e Raffaella Carrà, ragazzi. C'è stato anche Enrico Ghezzi, per quanto... fuori orario). Pillole di storia del fumetto tanto per gradire. Yellow Kid è praticamente il simbolo del fumetto, ma Buster Brown è suo fratello minore e non le manda a dire. Nati entrambi dal pennello di Richard Felton Outcault per fare storia.

giovedì 23 agosto 2018

Fantastic Four: un nuovo numero #1


La prima famiglia Marvel ritorna dopo un periodo di letargo. Molte aspettative e un cast di autori collaudato. Siamo solo all'inizio, ma certe cose non cambiano mai. 
«Io ti osservo, Marvel! Io ti OSSERVO!»

lunedì 20 agosto 2018

Les Incidents de la Nuit [di David B.]


Un fumetto sui libri e sui librai. Sulle letture, sulle librerie e i mondi che possono aprirci. Sulle storie, sui misteri che ammantano città e persone. David B. autore de "Il grande male" ci narra una saga esoterica e poetica, in cui le idee più intriganti, gli incontri più particolari, avvengono... di notte. Un video con cui torno a parlare di fumetto d'autore e grandi metafore, nona arte e alta letteratura. Per gli sbadigli (forse) di tanti e per un tubo (si spera) meno standardizzato.

martedì 14 agosto 2018

"The End? L'inferno fuori" di Daniele Misischia



The End? L'inferno fuori” dell'esordiente Daniele Misischia è un film italiano di genere. Ok. Partiamo da questo dato scontato. E cioè che dopo un lungo silenzio, qualcuno in terra italica torna a percorrere quei sentieri dell'immaginario perturbante che nel nostro cinema è stato consegnato alla storia da nomi del calibro di Dario Argento e Lucio Fulci (ma prima ancora arrivò Mario Bava), soprattutto negli anni 70 e in parte negli 80. Tempi eroici in cui dire “di genere” aveva una valenza diversa da quella odierna. Principalmente dispregiativa. E in cui venivano prodotte pellicole di una genialità artigianale che spesso sarebbero state rivalutate solo dopo un lungo e colpevole atteggiamento di sufficienza culturale. Il film di Misischia (esordiente alla regia sul grande schermo, ma già rodato alla scuderia dei Manetti Bros) subisce l'ennesima angheria di essere distribuito a Ferragosto, per di più insieme a blockbuster con i quali la partita al botteghino è impari in partenza. E proprio per questo, pur con tutte le sue imperfezioni, è un film che si dovrebbe scoprire, godere e valorizzare. Sempre che – elemento necessario – siate cinefili e soprattutto amiate l'horror. O quel tono di sufficienza, molto anni 70, potrebbe tornare a mordervi come gli zombi di cui stiamo per parlare. Sì, perchè il film di Daniele Misischia si basa tutto su un'idea e sulla tecnica per fare di un limite virtù. E sono sforzi che bisogna sapere apprezzare.

The End? L'inferno fuori” è un film horror, dunque. Anzi, uno zombi-movie, di quelli che ormai fanno etichetta a sé. Ma è anche un esercizio di stile che combina più sottogeneri, tutti ascrivibili alla categoria più ampia del thriller. Il film vive inteamente nel suo spunto di partenza. Un apocalisse zombi (o di infetti furiosi e cannibali, ormai non importa più). Un uomo intrappolato in uno spazio angusto. Una serie di eventi terrificanti che si succedono al di fuori, e di cui c'è dato scoprire solo il punto di vista del protagonista. Quello offerto dalla finestra ricavata dalle ante semiaperte di un ascensore bloccato tra due piani. Rifugio e nello stesso tempo strumento di tortura, che porta lo spettatore a chiedersi dove sarebbe effettivamente meglio trovarsi? Se in trappola con il protagonista o fuori, alla mercé di un'orda di zombi famelici. Se in fuga là dove si può essere sbranati a ogni angolo o rinchiusi dove con molta probabilità si farà la fine del topo.

Potremmo definire questo sottogenere, un “punto di vista relativo”. Una narrazione classica ridotta alla visione soggettiva e parziale di un personaggio defilato. Un po' come nel film “Cloverfield”, dove la classica invasione del mostro gigante che mette a ferro e fuoco una città è raccontata attraverso gli occhi di un pugno di cittadini ignari di quanto sta succedendo, quasi venisse data voce alle comparse che si solito si limitano a correre urlando. Inevitabile è anche pensare aBuried”, film interamente ambientato nel chiuso di una cassa dove un uomo, sepolto vivo, cerca di darsi aiuto con un telefono e pochi altri arnesi. Il tutto collocato nello scenario ormai canonizzato dell'epidemia zombesca, in cui l'appassionato di horror sa perfettamente che cosa sta succedendo, ma dove l'ansia e il senso dello spettacolo è fornito dal crescendo di consapevolezza, terrore e reazione, dell'uomo intrappolato in uno spazio che ne limita i movimenti e la comprensione dei fatti. C'è poi quell'elemento che risale addirittura al teatro del Grand Guignol e agli orrori suggeriti più che mostrati. Sempre attraverso il telefono, come nel classico “Au telephone del drammaturgo francese André De Lorde, in cui un uomo in viaggio, attraverso l'apparecchio telefonico appena installato nelle case del primo novecento, ascolta impotente i suoni che descrivono l'assassinio della sua famiglia.

Il cinema di zombi, a partire dal suo capostipite romeriano, “La notte dei morti viventi”, nasce da subito come cinema della costrizione. Racconto d'assedio, dove l'inferno fuori è catalizzatore di discordia e orrori interni, secondo l'idea infernale immaginata da Jean Paul Sartre in “Porta Chiusa”. Qui l'assedio riguarda un singolo e il catalizzatore della paura non sono tanto gli zombi, quanto l'ignoranza di cosa succede fuori, e gli inesorabili sviluppi della catastrofe che si rivelano in dettagli mostrati dapprima con piccoli squarci di mondo esterno, e poi con una progressiva penetrazione dell'orrore all'interno. Se nella trilogia di George Romero gli zombi assediavano l'ordine costituito, la famiglia, l'istituzione, la società dei consumi, le forze dell'ordine e alla fine dichiaratamente il capitalismo, in “The End?” si scatenano all'interno di un complesso aziendale e tengono emblematicamente in ostaggio un imprenditore cinico e dispotico. Potremmo definirla una miniatura dei topos romeriani, dove sia il luogo dell'assedio (una casa, un ipermercato, un bunker... qui lo spazio angusto di un ascensore) e i totem da abbattere (qui riassunti in un unico personaggio simbolo) sono felicemente concentrati con un ottimo uso del ritmo e dello spazio scenico volutamente ridotto.


Allessandro Roja, volto della serie televisiva “Romanzo criminale” è funzionale al suo personaggio e alla lenta evoluzione (anche quella simbolica che affronterà). La performance non è forse memorabile, ma non necessita di esserlo in quanto il film vive di attese, suggestioni e vampate di terrore che l'interprete è in grado di reggere. Più incisivo è il giovane Claudio Camilli, che riempie lo schermo con la sua mole e il suo carisma non appena entra in scena, ed è il perno di alcuni dei momenti più intensi della pellicola. I comprimari, la maggior parte dei quali appaiono solo di sfuggita, e la moglie del protagonista (Carolina Crescentini, presente solo come voce al telefono) sono veicolo di tutti quei cliché che lo spettatore si aspetta, e che fanno parte del lavoro di attenta miniatura che la regia offre a un pubblico scafato, ma in grado di apprezzare la tecnica del racconto.
In definitiva, “The End? L'inferno fuori” è un riuscito, piacevole giocattolo per mettere paura. Senza esagerazioni, è un'opera prima da promuovere per la forma e la capacità di osare. Una variazione su un tema ormai abusato che trova i suoi punti di forza nella sottrazione anziché nell'eccesso. Un giocattolo che riesce persino a spaventare in più di una scena là dove pellicole mainstream hanno ormai rinunciato, oppure falliscono nel più frustrante dei ja vu. E se dovrà esserci un ritorno al cinema di genere italiano, magari possiamo considerare proprio il film di Daniele Misischia il punto da cui ripartire.