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martedì 12 settembre 2017

Twin Peaks - Il Ritorno: una riflessione finale


L'esperienza “paratelevisiva” (nel senso che per contenuti e forma è più prossima al cinema che alla televisione, per cui è stata realizzata) della “terza stagione” di Twin Peaks si è conclusa. Definitivamente, pare. Niente quarta stagione all'orizzonte, a meno che David Lynch non abbia un'imprevedibile (e improbabile, a questo punto) ripensamento. Un'esperienza allo stato delle cose premiata dalla critica e in ottima parte dal pubblico, pur collocandosi in quella nicchia estranea a giochi dei troni e altri fenomeni più fisiologicamente destinati al vasto pubblico.

Una conclusione, a distanza di ventisette anni, da quella “soap d'autore”, come fu definita, bruscamente interrotta, da quei compromessi tra regista e produzione che inquinarono un evento che avrebbe comunque fatto la storia della televisione e cambiato le regole per molti prodotti che sarebbero venuti dopo. Una conclusione destinata a far discutere appassionati e detrattori. Che sta già facendo discutere, e che merita una riflessione dopo diciotto episodi di grande impatto visivo e concettuale.



Inevitabili, per quanto vaghi, gli spoiler. Pertanto se chi legge non ha visto l'intera serie, è consigliabile fermarsi qui e non procedere nella lettura. Sarebbe un peccato. Qualunque cosa possiate avere sentito, qualunque cosa potreste commentare voi stessi a visione ultimata, che il modo di Lynch di fare cinema e televisione vi piaccia o no. Si deve partire da un fatto. Ai tempi della serie classica, Lynch aveva già un suo stile formato e il suo astro artistico era in ascesa. Non aveva comunque raggiunto l'acme della notorietà e il potere contrattuale di oggi, e questo giocò a discapito delle sorti delle prime due stagioni di “I segreti di Twin Peaks”. Questa nuova serie, dunque, la si può intendere non soltanto come un sequel (o terza stagione), ma anche come una sorta di riscossa artistica. Riscossa nei confronti di un mezzo che aveva in buona parte tarpato un potenziale espressivo troppo rivoluzionario per gli anni in cui arrivava in televisione, influenzandola in ogni caso per sempre.

La domanda che sorge spontanea, che in tanti si fanno... anzi, che in tanti formulano non come quesito, ma piuttosto come affermazione per liquidare il tutto, sarebbe: la narrazione di Lynch ha un senso enigmatico da interpretare o non ha senso alcuno e si limita a un mero delirio visivo? Ma anche: David Lynch conosce davvero il significato di quanto mette in scena o il suo intento è rappresentare i propri incubi affastellandoli a caso con il solo intento di disorientare lo spettatore?

A mio modesto parere, la risposta è...

Chi se ne frega?!



L'arte nel suo complesso, cinematografico, fotografico, pittorico, letterario, si stacca dal suo autore nel momento stesso in cui è posta in essere, e giunge a chi la fruisce come un'entità separata e senza difese, pronta a essere valutata, interpretata, gradita o aborrita. I casi di artisti che producono senza avere la piena consapevolezza di quanto stanno dicendo, in realtà, non si contano. E questo non sottrae nulla (quando c'è, ovviamente) alla qualità della loro arte, e alla possibilità di chi la osserva di decifrarla a modo proprio. Anzi, fa parte del gioco e coinvolge in esso lo spettatore-lettore-ascoltatore. Lo invita farne parte, a diventare autore egli stesso. Dunque è del tutto irrilevante che Lynch abbia architettato ogni singolo dettaglio del suo puzzle (cosa che secondo me ha fatto) o si sia affidato ciecamente alla sua febbre creativa.

“Twin Peaks – Il Ritorno” si presenta come un'opera complessa e dalle molteplici sfaccettature. E' un sequel, e nello stesso tempo è un'opera diversa, che percorre le strade (perdute) della maturità di Lynch. Un'opera trasognata che rilegge i feticci della serie classica in un'ottica più dichiaratamente surreale, chiudendo trame lasciate aperte e aprendone altre che forse non si chiuderanno mai, ma che hanno comunque una loro forte ragion d'essere.

Se la serie classica faceva del tema del doppio (a partire dal titolo) il suo spunto portante, il mosaico di David Lynch qui rivela nuovi incredibili aspetti. Il concetto di “vivere in un sogno”, che cita dichiaratamente Jorge Louis Borges, è soltanto la punta dell'Iceberg. La Loggia Nera, fucina di doppelganger e le tante vite parallele di personaggi vecchi e nuovi, acquistano qui un significato ben più ampio della “dimensione oscura” simbolo del male assoluto descritto nella serie originale. La chiusura di cicli narrativi e il voluto spezzarsi di altri non è casuale e risponde a una simbologia precisa. Così come la metanarrativa che pervade l'intero racconto. A volte scoperto (la partecipazione di Monica Bellucci che interpreta se stessa, o la malattia della signora Ceppo, interpretata dall'attrice Catherine E. Coulson, realmente in fin di vita durante le riprese), altre sottinteso e quasi pirandelliano. Vediamo l'agente Cooper emergere dalla dimensione della Loggia dopo venticinque anni, ma a sorpresa il suo ritorno non trova ad attenderlo soltanto il doppelganger posseduto dallo spirito malvagio di Bob. Già il personaggio di Dougie Jones è dissonante, e sin dall'inizio ci chiediamo la necessità del suo ruolo, il perché di un'ulteriore vita parallela, la ragion d'essere di questa terza incarnazione dell'agente dell'F.B.I. rimasto intrappolato nella Loggia. L'accenno alla parentela di Janey-E, la moglie di Dougie, con l'assistente di Cooper, Diane (la quale afferma che lei e sua sorella hanno intrapreso strade diverse tempo prima e non si sentono da anni) è una chiave di volta. L'indizio dell'esistenza di un cosmo fatto di universi narrativi paralleli che possono sfiorarsi, intrecciarsi, ma rimanendo distinti. Un universo cui appartiene, a suo modo, anche lo spettatore che sta seguendo la serie.

Il viaggio nel tempo di Dale Cooper e il salvataggio di Laura Palmer, dal cui assassinio tutto aveva avuto inizio decenni prima, rapresenta il coronamento del quadro metanarrativo dipinto da David Lynch. Laura non è mai morta, Pete Martell non ha mai trovato il suo cadavere in un sacco di plastica, il corso della storia dovrebbe essere cambiato. Tutto sembra combaciare, ma non è così semplice. A David Lynch non basta fornire questa risoluzione rassicurante della sua opera. Offre invece allo spettatore la possibilità di una scelta. Scegliere dove fermarsi, quale finale eleggere a vera conclusione, ma con la consapevolezza che un finale definitivo non potrà mai esserci. In una linea temporale onirica, Cooper ha evitato la morte di Laura. Ma lo svanire di lei nelle tenebre del bosco e l'eco del suo urlo (proveniente da dove, da quando?) è presagio di altre tragedie. Vediamo quindi Cooper tornare, come aveva promesso, da Janey-E e da suo figlio, e salutarli riassumendo la parlata incerta di Dougie. Un finale tutto sommato lieto, dove l'eroe ha concluso la sua missione, ha salvato la vittima e scofitto le forze del male.

Chi vuole, può accontentarsi di questo.

Ma il discorso cinetelevisivo di David Lynch frantuma ogni regola e va oltre, così come William Burroughs nel suo “Pasto Nudo” infrange schemi letterari e linguistici per creare un proprio mondo. I doppelganger non sono più soltanto dei doppi, malvagi o buoni, ma vere e proprie possibilità alternative per i personaggi, e i cammini ramificati che possono intraprendere sono infiniti.



Lo shock finale ci era già stato anticipato dalla conclusione della delirante storyline relativa a Audrey Horne. Dopo un lungo dialogo debitore alla tradizione del teatro dell'assurdo con un marito che non c'era dato conoscere, alla ricerca di un amante perduto che non conosceremo mai (ma che porta il nome dell'attore Billy Zane, interprete di un interesse amoroso di Audrey nella serie originale), Audrey si ritrova a danzare in un locale pubblico sulle note del tema musicale di Angelo Badalamenti a lei dedicato. Tema che fino a quel momento della serie contemporanea non avevamo ancora sentito. E tutto a un tratto si sveglia ritrovandosi in camice bianco, in una stanza bianca, confusa, spaventata. Un'altra realtà possibile, insomma. E non è neppure detto che la Audrey che abbiamo visto fino a pochi secondi prima fosse la stessa che ricordavamo.

Potrebbe significare che Audrey non era mai uscita dal coma in cui era entrata dopo l'esplosione alla banca avvenuta quasi trent'anni prima, e che tutto quello cui abbiamo assistito fosse un sogno che preludeva al suo effettivo risveglio nel presente. Ma non solo. E adesso viene il peggio. O il meglio, a seconda dei punti di vista.

L'ultima puntata, che potremmo considerare una nota conclusiva, una sorta di epilogo, ci mostra un Cooper più ambiguo che mai, di nuovo scisso da Dougie, consumare un rapporto sessuale con Diane per poi destarsi in quella che si rivelerà essere una realtà alternativa. Non una linea temporale modificata, come il finale dell'episodio precedente avrebbe potuto lasciare intendere, ma qualcosa di ben più alieno. Il biglietto lasciato da Diane, in cui chiama Dale e se stessa con nomi diversi, è un indizio abbastanza evidente che qualcosa non torna. Il ritrovamento di Laura Palmer, che non si chiama Laura, ma è ugualmente perseguitata da una scia di morte e distruzione, ricorda l'entrata in scena della seconda versione di Kim Novack ne “La donna che visse due volte” di Alfred Hitchcock. Una donna uguale eppure diversa. Diversa, ma che potrebbe comunque essere la stessa, o almeno diventarlo. La metanarrativa di Lynch raggiunge il suo apice se si considera (cosa che lo spettatore occasionale non può sapere, o perlomeno non da subito) è il ritrovarsi, una volta giunti a Twin Peaks, presso la casa in cui Laura era vissuta, di fronte alla donna che è l'effettiva proprietaria della location nella vita reale. Ma aldilà del gioco civettuolo, volto a stuzzicare gli appassionati esegeti dell'opera, è presente un'esca intellettuale molto più concreta. Il nome della donna e quello dell'uomo (invisibile per lo spettatore) cui lei si rivolge chiamandolo “Tesoro”, sono gli stessi delle due presenze demoniache, nonna e nipote, presenti nella serie classica.

A quel punto lo smarrimento è totale, sia per lo spettatore che per il personaggio di Cooper (che possibilmente ha riconosciuto i nomi che gli sono stati riferiti) e chiede stordito: «In che anno siamo?»

La voce echeggiante di Sarah Palmer che chiama il nome della figlia, le luci della dimora che si spengono di botto e l'urlo terrorizzato di Laura (lo stesso che abbiamo sentito in lontananza nella puntata precedente) suggellano la fine, probabilmente definitiva, di Twin Peaks.



Cosa vorrebbe dire?

Che Twin Peaks è una grande metafora onirica sulle storie e sui modi possibili di raccontarle. Che la vita, così come nelle “soap” (anche quelle d'autore) non tutto ha sempre senso compiuto, e che le vicende dei personaggi che sfioriamo possono avere una conclusione come esplodere e scomparire a un tratto in una bolla di sapone (sì, “soap”). Perché non sempre nella vita ci sono risposte, e non è sempre il caso di pretendere che le narrazioni seguano regole differenti. La Loggia Nera, più che una dimensione di puro male, è un crocevia del caos. Un punto da cui partono e convergono storie e personaggi che possono manifestarsi in più versioni, una quantità infinita di letture e possibilità alternative, in un ciclo senza fine. Una narrazione mutevole, che potremo ritrovare altrove, in altre storie, di cui Lynch ci mostra gli ingranaggi e il potenziale multiforme. Ma anche i suoi feticci, i suoi archetipi. Come la lotta tra il bene e il male, qui raffigurata dalla dicotomia dei volti di Sarah e Laura Palmer che si aprono mostrando il primo oscurità, l'altro luce. E Laura stessa, salvata in una possibile dimensione narrativa dopo essere stata vittima in quella originale, potrebbe tornare a soccombere, in quanto personaggio iconico, vincolato dalla dinamica delle storie secondo la quale qualcosa di brutto deve accadere affinché la narrazione trovi il suo innesco. Vittima sacrificale necessaria per continuare a narrare altre storie. Comprensibile che Laura-Carrie urli davanti a una spirale infinita di tribolazioni senza le quali non potrebbe esserci racconto.

«Continuo a precipitare per l'eternità» diceva il personaggio nel film-prequel “Fuoco cammina con me”.


Questa la mia personale lettura della “terza stagione” di Twin Peaks. Una lettura che non necessita dell'avallo del regista-autore (qui interamente al timone rispetto all'esperienza di tanti anni fa). E che lascia il tempo che trova, restando la poetica di Lynch qualcosa di criptico e sfuggente, e proprio per questo affascinante.

In passato è stato scritto che «David Lynch o lo si ama per quello che è o lo si rifiuta in blocco.»
Personalmente sono contrario a questa estremizzazione. E non è neppure il caso di offendersi se altri non apprezzeranno la particolarità della narrazione Lynchiana. E' un fatto culturale, inteso come bagaglio di esperienze e forma del gusto dello spettacolo. David Lynch non sarà mai un autore popolare. Non potrà mai mettere tutti d'accordo. E tutto sommato, è una fortuna che sia così.

Non avremmo avuto, altrimenti, opere cinematografiche di rara potenza, e nemmeno questo ritorno a Twin Peaks, del quale certamente si discuterà ancora a lungo.

domenica 10 settembre 2017

IT's FANTASTIC! (ma non solo)



Posso raccontarvi una storia?

Allora... C’era una volta... Ma che storia! Non è una storia normale: questo è un fumetto! Anzi una storia su un fumetto. Meglio ancora, un fumetto che racconta la storia di come potrebbe nascere un fumetto. Che poi, è più che altro la storia di come potrebbe nascere un fumettista, e un fumettista è uno che fa fumetti. Ma un fumettista... è fumettista se fa fumetti... o solo se riesce a pubblicarli? E se li pubblica e basta, è un fumettista o diventa un fumettista solo se qualcuno legge i suoi fumetti e fa partire il passaparola?

Dunque questo è un fumetto che parla di fumetti e di autori di fumetti che non sono autori di fumetti però vorrebbero diventarlo. Ma è anche un fumetto che gioca con altri fumetti e altri media, con stili di fumetto differenti e racconta quindi una storia più grande, fatta di segni, di tipi umani che potremmo incontrare in un fumetto come in un cartone o in un anime... o nella realtà.

Confusi? Calma. Abbandoniamo il citazionismo e Pierino e il Lupo, e ci scusi il buon Prokofiev.
Il punto è che stiamo parlando davvero di un'operazione bizzarra e ibrida, metafumettistica e sotto certi aspetti ammicante al crossmediale. Uno scherzo della Cyrano Comics posto in essere da Enrico Martini alla sceneggiatura e da una ciurma di giovani illustratori (Gabriele Bagnoli, Elisa Ferrari, Michele Righetti e Aldo Tocci) che hanno dato vita a una vera e propria trilogia (It's Fantastic!, It's Problematic!, It's Karmatic!) per descrivere sogni, delusioni, incidenti, speranze e goffaggini di un aspirante autore di fumetti in un contesto a cavallo tra realtà e fantasia, fino a una conclusione spumeggiante che è meglio lasciare dietro le quinte per chi ancora non si è accostato alla lettura.

Se parlando dell'odissea di un fumettista e di contenuti “meta” è impossibile non pensare a Bakuman di Tsugumi Oba e Takeshi Obata, la trilogia che ha inizio con It's Fantastic! conquista una sua identità grazie a un ritmo agile e a una spensieratezza di fondo che colloca il racconto in una dimensione fiabesca, dai toni fracassoni ma tutto sommato ottimisti, dando vita a un piacevole incrocio di stili per quanto riguarda forma e contenuti.


La storia del giovane studente Jonny Faben, del suo amico Ted e dello strampalato clan familiare che lo supporta, rimanda dichiaratamente allo shonen e al cammino iniziatico fatto di inciampi, ruzzoloni e ripresa che i protagonisti affrontano in questo specifico genere giapponese. C'è una ciurma di “losers” solidali (figura amatissima nell'immaginario orientale) in grado, pur sbagliando, di realizzare l'impossibile. Ma c'è anche un ritmo che oltre i manga si rifà agli anime, con soluzioni grafiche surreali che figurerebbero bene in un prodotto animato (in molte scene, leggendo, si ha la sensazione di sentir partire un jingle musicale o il suono di un'onomatopea beffarda). La Cyrano Comics non è sicuramente nuova a operazioni del genere. Cioè la produzione di fumetti italianissimi, ambientati in un'Italia che sembra il Giappone (del resto le nuove generazioni hanno avuto circa trent'anni per iniziare a introiettare feticci, look e vezzi originari della cultura asiatica), e fare da banco di prova a giovani artisti (ognuno dei tre capitoli è illustrato da un disegnatore diverso) palesemente cresciuti a pane e manga.

La trilogia It's Fantastic!, It's Problematic!, It's Karmatic! è una simpatica sinfonia allegra, ben confezionata, che celebra e nello stesso tempo canzona bonariamente il mondo nerd e le dinamiche, spesso caotiche dell'establishment fumettistico. Ma presenta, a sorpresa, anche altri rimandi, coinvolgendo istituzioni e canali che interessano l'universo dei fumetti e dei suoi fruitori sotto ulteriori aspetti. Aspetti, ovviamente, editoriali, ma anche dal punto di vista degli eventi pubblici ormai mitizzati nella percezione di noi italiani e personaggi che in qualche modo da questo ambiente sono stati influenzati e a questo media devono la loro identità pubblica.


Insomma, il trittico della Cyrano è un godibile divertessemant, un esercizio di stile promettente e un riuscito omaggio a tutta la tradizione manga-anime che ci ha cresciuti. Una lettura che piacerà soprattutto ai lettori più giovani, che maggiormente potranno immedesimarsi in Jonny e i suoi compagni di strada, condividendone sogni e inciampi. Ma che fa ben sperare lettori più maturi, davanti a una prova di scrittura e di disegno che può (e a questo punto deve) maturare ancora, dimostrando che, aldilà dei prestiti culturali, una fucina di giovani talenti in Italia esiste, ed è viva e vitale.

martedì 5 settembre 2017

Riguardo "Alien Covenant" (e scusate il ritardo)

E... che dire?
Mi è piaciuto. Mi trovo risucchiato nel partito dei bastian contrari, dal momento che su quest'ultima fatica di Scott se ne sono dette davvero tante, spesso non proprio in termini positivi.
Certamente, è un film che porta il fardello di un'eredità pesante. Dal prototipo dello stesso regista ai vari seguiti, è ormai difficile che alcune situazioni non risultino già viste. Ma potremmo anche definirle "iconiche". Io l'ho trovato diretto benissimo. Ho apprezzato la componente horror più spiccata del solito e interessante la performance di Michael Fassbender.


Rammento (io c'ero) quando vidi il primo "Alien" nuovo in sala, e le prime recensioni. Quel primo film non fu subito acclamato dalla critica, e noto con un certo smarrimento che le critiche che sento oggi riguardo "Alien covenant" sono in linea di massima le stesse che allora furono mosse al film da cui tutto ebbe inizio. Interessante ricorso storico e sociologico sul quale mi sto interrogando. Diciamo che se "Prometheus" poteva non risultare gradito a una parte di pubblico per i suoi contenuti "ellittici" (possibilmente anche per la sceneggiatura cui contribuiva Damon Lindelof di Lostiana memoria), in cui molti dettagli venivano indicati con le immagini e non spiegati, "Alien covenant" mette le carte in tavola e poi le butta all'aria. Curioso, ma per una volta le chiacchiere in negativo mi hanno preparato alla visione del film facendomelo apprezzare di più (e chi mi conosce sa che non amo andare in controtendenza per il puro gusto di farlo).

martedì 29 agosto 2017

...e andiamo di meme


...e niente. Mi devo rassegnare, per adesso è il trend di tutti i pischelli che mi vedono per la prima volta. Esclamare: «Ma è George R. R. Martin?!» 🤪
Dopo una vita trascorsa a essere stato associato a:
Lucio Dalla (versione giovane, barbuto e senza parrucchino)
Luciano Pavarotti (in versione accorciata)
Giuliano Ferrara (di solito rispondo: "accetto di essere paragonato a un porco solo a proposito delle cose di letto".)
...per dirla alla siciliana, il buon Martin è "stidda ca mi curri".
Nessun problema, eh! Solo vent'anni di meno. Nessun problema. ☺️
Conferma a una gestalt che conosco da tempo. Per molta gente, i ciccioni barbuti si assomigliano tutti come per altri i neri e gli asiatici. 😏






 Valar Morghulis.

domenica 27 agosto 2017

Un coccodrillo per Tobe Hooper



Un coccodrillo.
Sì. Un coccodrillo per Tobe Hooper.

Un pizzico di humor nero per salutare uno dei padri dell'horror moderno che ci ha appena lasciato.
La battuta è contorta. Necessita di un'infarinatura di gergo giornalistico e di conoscenza della filmografia del regista per essere compresa. Coccodrillo. Come gli articoli che si scrivono per omaggiare qualcuno che muore, spesso una celebrità. Un'etichetta senza mezze misure, per indicare qualcosa che si ritiene “vada fatto”, ma che nello stesso tempo non riesce a sottrarsi da sospetti di cinismo. Il tutto riferito, ovviamente, alle proverbiali lacrime del grande rettile.

Coccodrillo. Come il mostro (secondario?) di “Eaten Alive” (“Quel motel vicino alla palude”, in Italia) suo secondo film (1977), che in realtà sarebbe il terzo, ma è il secondo a restare nella memoria del pubblico dopo il successo di “Non aprite quella porta” e il flop della sua prima incursione nel dramma indipendente con “Eggshells” del 1969. Eaten Alive” si ispirava liberamente alle imprese del serial killer Joe Ball, in azione nell'America degli anni trenta. Si racconta che Ball si sbarazzasse dei corpi delle sue vittime dandole in pasto a degli alligatori. Nel film, il protagonista nutre un famelico coccodrillo con il quale ha un rapporto quasi simbiotico, secondo le allegorie care al regista.


Ma Tobe Hooper, che pure diresse diversi altri film (sebbene con meno fortuna e mano meno ispirata, anche per via delle ingerenze produttive che non gli diedero mai tregua) sarà ricordato (e merita di esserlo) soprattutto per il rivoluzionario “Non aprite quella porta” (titolo italiano di “The Texas Chainsaw Massacre”) del 1974. Perché ricordarlo? Perché semplicemente ha fatto la storia del cinema horror, contribuendo a modificarne le regole come “La notte dei morti viventi” di George Romero (altro maestro recentemente scomparso... anno gramo per il cinema del perturbante). E come il film di Romero ha infuso nella sua fiaba nerissima un sottotesto politico di grande impatto. Non è un caso che la recente elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti ha spinto qualcuno a commentare che l'America, e quindi il suo corpo elettorale, non è solo quella che vediamo nelle patinate commedie hollywoodiane. L'America è fatta anche (se non soprattutto) di ampie province rurali. Veri e propri mondi separati, dove ancora oggi è possibile imbattersi in zone fuori dal tempo e forme preoccupanti di arretratezza. La famiglia cannibale di “Non aprite quella porta” rappresenta in modo esemplare, per quanto estremizzato, il proletariato campestre statunitense, incattivito e degenerato dal disagio e dallo strapotere delle multinazionali che lo riducono a uno stato di animalità. Costretto a vivere ai margini del mondo civilizzato, sopravvivendo come un predatore primordiale che finisce col rivoltarsi contro i suoi simili e trasformare in alimento chi non riconosce come parte del suo gruppo ristretto. I suppellettili della casa realizzati con ossa umane, il laboratorio da macellaio, il gancio a cui la giovane vittima viene appesa con metodica, ottusa diligenza, sono metafore disturbanti che non si dimenticano più. Con il film di Tobe Hooper, gli Snopes raccontati da William Faulkner incontravano l'horror, e il cocktail aveva un sapore amarissimo, ma eccitante.


Per il 1974 (ma ancora oggi) “Non aprite quella porta” era un film davvero sconvolgente. Seminale per quello che sarebbe diventato il sottogenere horror definito “slasher”, insieme con il meraviglioso “Halloween” di John Carpenter, di cui rappresenta l'altro lato della medaglia. Quello più sporco, laido e rumoroso. Non è possibile omaggiare Hooper senza ricordare anche l'icona cinematografica di Leatherface, personaggio chiave di “The Texas Chainsaw Massacre”. Un gigante mentalmente ritardato, probabilmente sfigurato (nel film originale il suo volto non viene mai mostrato), che cela i suoi lineamenti sotto grottesche maschere di pelle umana.

E poi c'è la motosega.

E' vero. La motosega (almeno così sembra) fu usata come arma per la prima volta nel film di Wes Craven “L'ultima casa a sinistra”, ma è con Leatherface e “Non aprite quella porta” che è diventata un feticcio horror fondamentale. Più per l'ossessionante rumore del suo motorino che per gli scempi compiuti dalla lama. Quel rumore che già da solo comunica una disturbante senzazione di follia, di ossessione, che fa sentire lo spettatore assediato e gli fa salire le viscere su per la gola.

Una nota amara consiste, per chi scrive, nel ricordo dell'inutile remake di Marcus Nispel del 2003. Un remake, volendo non tra i più spregevoli, ma che tradiva completamente lo spirito dell'opera originale, facendone un horror patinato e convenzionale fino al midollo. Rammento la conversazione avuta riguardo la pellicola di Nispel con altri spettatori più giovani, e gli insensati confronti che emersero quando mostrai loro il film culto di Tobe Hooper.
Nella loro percezione, il film del '74 sprecava tempo e potenziale, eliminando troppo velocemente un quantità di personaggi per poi concentrarsi sull'odissea di un'unica protagonista. A loro parere, Hooper avrebbe dovuto centellinare gli omicidi lungo tutto il film, e non puntare il riflettore su un soggetto specifico, in quanto il risultato – per loro – era la noia. Rischiai di sentirmi male.


Quando si dice che il trend commerciale diseduca all'arte. E stavo assistendo a uno di quei casi. La sostanza era che i giovani spettatori erano ormai viziati da un canone dell'horror slasher pensato in termini di catena di montaggio, mentre il film di Hooper... per quanto antenato dello slasher... non era propriamente uno slasher. Non solo, almeno. E l'inferno vissuto dall'attrice Marilyn Burns, un ruolo in cui più che parlare urlava disperatamente, sottoposta a sevizie fisiche e psicologiche (vogliamo parlare dell'insopportabile, lunga scena del pranzo?) reappresentava l'apice di uno dei film più spaventosi della storia. Non aprite quella porta” del 1974 è un film con una personalità fortissima, e il remake degli anni 2000 non era che la banalizzazione, appiattita su uno standard ormai trito, di un classico che era stato a suo modo un pioniere.

A motoseghe e coccodrilli più o meno domestici, sarebbero seguiti altri film. Raramente all'altezza dei precedenti, soprattutto per i limiti imposti a Hooper dalle produzioni che nel tempo lo avrebbero sempre più ostracizzato, praticamente fino a farlo scomparire dalle scene. Non parlerò di “Poltergeist”, altra pellicola nota firmata da Hooper, se non per sottolineare quanto possano essere evidenti le ingerenze produttive nella realizzazione di un film che porta la firma di una personalità dal potenziale sovversivo qual era quella del regista di “The Texas Chainsaw Massacre”. La mano di Steven Spielberg e la sua cifra stilistica traspaiono da ogni fotogramma, e paradossalmente potremmo dire che “Poltergeist” sia un titolo riconducibile più al regista di “E.T.” che al discorso iniziato da Hooper, che possibilmente avrebbe realizzato una pellicola più malata e meno adatta a un pubblico generalista.

Un peccato, quindi. Peccato per quello che avrebbe potuto essere e a causa delle dinamiche hollywoodiane non è stato. Peccato perché la storia è finita qui. Peccato, come ogni volta che sentiamo la necessità di scrivere un coccodrillo.

Già! Il coccodrillo.

Non lo sentite? Che strano ticchettio!
E' il primo allarme, poi dopo arrivo io.
Non voglio alcun vantaggio.
Ma non è per coraggio.
E' perché sono il più cattivo.
E mi diverte il fatto di inseguirvi.


Grazie per gli incubi, Tobe Hooper. Quelli intelligenti.
Quelli che ti fanno svegliare.