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giovedì 22 marzo 2018

Maledette Nuvole: Psychopathia Sexualis [di Miguel Angel Martin]


Nel 1995, il mondo del fumetto italiano fu scosso da un episodio sconcertante. L'editore Jorge Vacca, titolare delle edizioni alternative Topolin, già note per la pubblicazione di fumetti provocatori, veniva denunciato per reati gravi per avere provato a stampare nel nostro paese "Psychopathia Sexualis", una delle opera più estreme (almeno fino a quel momento) dell'artista spagnolo Miguel Angel Martin. La vicenda giudiziaria fu lunga e si articolò in più gradi. Più personalità del mondo della cultura italiana intervennero in difesa dell'editore e dell'opera. Come leggiamo oggi l'orrore agghiacciante rappresentato da Martin nelle sue pagine? Perché sconvolge così tanto e qual è la sua reale funzione? Un'opera "maledetta" protagonista di uno dei più celebri casi di censura dell'editoria italiana.

martedì 27 febbraio 2018

Uzumaki (Spirale) di Junji Ito


C'è una forma nascosta tra le pieghe della realtà. Quella forma è la spirale. Studiata nei secoli, è considerata da alcuni la prova di una geometria ragionata all'interno della natura. Ma è davvero benevola? E se fosse invece l'occhio di qualcosa che ci spia, che gioca con le vite e i fenomeni del mondo in modo cinico e mostruoso? Uzumaki di Junji Ito esprime una visione oscura dell'esistenza in uno dei manga più sconvolgenti e strani che siano mai stati scritti e disegnati.

domenica 27 agosto 2017

Un coccodrillo per Tobe Hooper



Un coccodrillo.
Sì. Un coccodrillo per Tobe Hooper.

Un pizzico di humor nero per salutare uno dei padri dell'horror moderno che ci ha appena lasciato.
La battuta è contorta. Necessita di un'infarinatura di gergo giornalistico e di conoscenza della filmografia del regista per essere compresa. Coccodrillo. Come gli articoli che si scrivono per omaggiare qualcuno che muore, spesso una celebrità. Un'etichetta senza mezze misure, per indicare qualcosa che si ritiene “vada fatto”, ma che nello stesso tempo non riesce a sottrarsi da sospetti di cinismo. Il tutto riferito, ovviamente, alle proverbiali lacrime del grande rettile.

Coccodrillo. Come il mostro (secondario?) di “Eaten Alive” (“Quel motel vicino alla palude”, in Italia) suo secondo film (1977), che in realtà sarebbe il terzo, ma è il secondo a restare nella memoria del pubblico dopo il successo di “Non aprite quella porta” e il flop della sua prima incursione nel dramma indipendente con “Eggshells” del 1969. Eaten Alive” si ispirava liberamente alle imprese del serial killer Joe Ball, in azione nell'America degli anni trenta. Si racconta che Ball si sbarazzasse dei corpi delle sue vittime dandole in pasto a degli alligatori. Nel film, il protagonista nutre un famelico coccodrillo con il quale ha un rapporto quasi simbiotico, secondo le allegorie care al regista.


Ma Tobe Hooper, che pure diresse diversi altri film (sebbene con meno fortuna e mano meno ispirata, anche per via delle ingerenze produttive che non gli diedero mai tregua) sarà ricordato (e merita di esserlo) soprattutto per il rivoluzionario “Non aprite quella porta” (titolo italiano di “The Texas Chainsaw Massacre”) del 1974. Perché ricordarlo? Perché semplicemente ha fatto la storia del cinema horror, contribuendo a modificarne le regole come “La notte dei morti viventi” di George Romero (altro maestro recentemente scomparso... anno gramo per il cinema del perturbante). E come il film di Romero ha infuso nella sua fiaba nerissima un sottotesto politico di grande impatto. Non è un caso che la recente elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti ha spinto qualcuno a commentare che l'America, e quindi il suo corpo elettorale, non è solo quella che vediamo nelle patinate commedie hollywoodiane. L'America è fatta anche (se non soprattutto) di ampie province rurali. Veri e propri mondi separati, dove ancora oggi è possibile imbattersi in zone fuori dal tempo e forme preoccupanti di arretratezza. La famiglia cannibale di “Non aprite quella porta” rappresenta in modo esemplare, per quanto estremizzato, il proletariato campestre statunitense, incattivito e degenerato dal disagio e dallo strapotere delle multinazionali che lo riducono a uno stato di animalità. Costretto a vivere ai margini del mondo civilizzato, sopravvivendo come un predatore primordiale che finisce col rivoltarsi contro i suoi simili e trasformare in alimento chi non riconosce come parte del suo gruppo ristretto. I suppellettili della casa realizzati con ossa umane, il laboratorio da macellaio, il gancio a cui la giovane vittima viene appesa con metodica, ottusa diligenza, sono metafore disturbanti che non si dimenticano più. Con il film di Tobe Hooper, gli Snopes raccontati da William Faulkner incontravano l'horror, e il cocktail aveva un sapore amarissimo, ma eccitante.


Per il 1974 (ma ancora oggi) “Non aprite quella porta” era un film davvero sconvolgente. Seminale per quello che sarebbe diventato il sottogenere horror definito “slasher”, insieme con il meraviglioso “Halloween” di John Carpenter, di cui rappresenta l'altro lato della medaglia. Quello più sporco, laido e rumoroso. Non è possibile omaggiare Hooper senza ricordare anche l'icona cinematografica di Leatherface, personaggio chiave di “The Texas Chainsaw Massacre”. Un gigante mentalmente ritardato, probabilmente sfigurato (nel film originale il suo volto non viene mai mostrato), che cela i suoi lineamenti sotto grottesche maschere di pelle umana.

E poi c'è la motosega.

E' vero. La motosega (almeno così sembra) fu usata come arma per la prima volta nel film di Wes Craven “L'ultima casa a sinistra”, ma è con Leatherface e “Non aprite quella porta” che è diventata un feticcio horror fondamentale. Più per l'ossessionante rumore del suo motorino che per gli scempi compiuti dalla lama. Quel rumore che già da solo comunica una disturbante senzazione di follia, di ossessione, che fa sentire lo spettatore assediato e gli fa salire le viscere su per la gola.

Una nota amara consiste, per chi scrive, nel ricordo dell'inutile remake di Marcus Nispel del 2003. Un remake, volendo non tra i più spregevoli, ma che tradiva completamente lo spirito dell'opera originale, facendone un horror patinato e convenzionale fino al midollo. Rammento la conversazione avuta riguardo la pellicola di Nispel con altri spettatori più giovani, e gli insensati confronti che emersero quando mostrai loro il film culto di Tobe Hooper.
Nella loro percezione, il film del '74 sprecava tempo e potenziale, eliminando troppo velocemente un quantità di personaggi per poi concentrarsi sull'odissea di un'unica protagonista. A loro parere, Hooper avrebbe dovuto centellinare gli omicidi lungo tutto il film, e non puntare il riflettore su un soggetto specifico, in quanto il risultato – per loro – era la noia. Rischiai di sentirmi male.


Quando si dice che il trend commerciale diseduca all'arte. E stavo assistendo a uno di quei casi. La sostanza era che i giovani spettatori erano ormai viziati da un canone dell'horror slasher pensato in termini di catena di montaggio, mentre il film di Hooper... per quanto antenato dello slasher... non era propriamente uno slasher. Non solo, almeno. E l'inferno vissuto dall'attrice Marilyn Burns, un ruolo in cui più che parlare urlava disperatamente, sottoposta a sevizie fisiche e psicologiche (vogliamo parlare dell'insopportabile, lunga scena del pranzo?) reappresentava l'apice di uno dei film più spaventosi della storia. Non aprite quella porta” del 1974 è un film con una personalità fortissima, e il remake degli anni 2000 non era che la banalizzazione, appiattita su uno standard ormai trito, di un classico che era stato a suo modo un pioniere.

A motoseghe e coccodrilli più o meno domestici, sarebbero seguiti altri film. Raramente all'altezza dei precedenti, soprattutto per i limiti imposti a Hooper dalle produzioni che nel tempo lo avrebbero sempre più ostracizzato, praticamente fino a farlo scomparire dalle scene. Non parlerò di “Poltergeist”, altra pellicola nota firmata da Hooper, se non per sottolineare quanto possano essere evidenti le ingerenze produttive nella realizzazione di un film che porta la firma di una personalità dal potenziale sovversivo qual era quella del regista di “The Texas Chainsaw Massacre”. La mano di Steven Spielberg e la sua cifra stilistica traspaiono da ogni fotogramma, e paradossalmente potremmo dire che “Poltergeist” sia un titolo riconducibile più al regista di “E.T.” che al discorso iniziato da Hooper, che possibilmente avrebbe realizzato una pellicola più malata e meno adatta a un pubblico generalista.

Un peccato, quindi. Peccato per quello che avrebbe potuto essere e a causa delle dinamiche hollywoodiane non è stato. Peccato perché la storia è finita qui. Peccato, come ogni volta che sentiamo la necessità di scrivere un coccodrillo.

Già! Il coccodrillo.

Non lo sentite? Che strano ticchettio!
E' il primo allarme, poi dopo arrivo io.
Non voglio alcun vantaggio.
Ma non è per coraggio.
E' perché sono il più cattivo.
E mi diverte il fatto di inseguirvi.


Grazie per gli incubi, Tobe Hooper. Quelli intelligenti.
Quelli che ti fanno svegliare.



sabato 8 luglio 2017

Maledette Nuvole - FAUST di Quinn e Vigil (il "vero" Spawn?)


Faust... il mito del patto con il diavolo rivive in un delirante fumetto metropolitano dove la violenza, il sesso e il puro delirio regnano sovrani. Un fumetto underground che ha impiegato decenni a tagliare il traguardo, subendo censure, intervalli, cambi editoriali, una pioggia di critiche scandalizzate e divieti. Stroncato dalla critica italiana nei primi anni 90, è diventato un cult dell'estremo per i lettori americani. Un supereroe infernale lontano anni luce dalle rassicuranti versioni generaliste. L'opera di Quinn e Vigil che ispirò in parte il più noto Spawn e che conserva ancora oggi la sua carica sovversiva e allucinatoria.

mercoledì 10 maggio 2017

Maledette Nuvole - Cleanup Crew: il fumetto che ispirò Nekromantik


Maledette Nuvole! Una nuova rubrica per esplorare gli aspetti più creepy, weird, strambi e malati di... certi fumetti non proprio convenzionali. Alcune chicche sono marce, altre nascondono sorprese che non ci aspettiamo. Ma esistono, e sono tra noi. Come non cominciare con il breve fumetto underground che ispirò il regista Jorg Buttgereit per il controverso "Nekromantik"? Benvenuti, dunque, sotto queste maledette nuvole.

venerdì 28 aprile 2017

Aula alla Deriva [di Kazuo Umezu]


Un misterioso fenomeno trasporta un'intera scuola giapponese in un futuro da incubo. Per sopravvivere, i ragazzi, tutti molto giovani, dovranno inventare una nuova società, darsi norme rigide, ma anche affrontare calamità imprevedibili, follia e mostruosità. Comprese le tenebre dell'animo umano. Una versione fanta-horror dello scenario base del “Signore delle Mosche” di William Golding, sfiorando H.P. Lovecraft e e altri classici. Finalmente arriva in Italia una delle opere più note di Kazuo (Umezz) Umezu. Una saga di formazione dalle tinte truci, ambientata alla fine del mondo...

lunedì 9 gennaio 2017

Vedute: Junji Ito



Frankenstein di Mary Shelley ha avuto numerosissime letture a fumetti. Alcune hanno avuto forma di seguiti apocrifi, più o meno fedeli alle atmosfere orrorifiche e gotiche del romanzo o trasfigurate in chiavi del tutto differenti, fino alla serialità confinante con il genere che fa capo ai supereroi. Altre si sono cimentate nell'illustrazione del libro della Shelley o in veri e propri adattamenti dell'opera originale. Non si può non ricordare, a questo proposito, il lavoro di Bernie Wrightson, che sicuramente rimane tra le prove d'autore più degne di nota. A sua volta l'opera di sintesi svolta da Junji Ito, maestro dell'orrore giapponese contemporaneo, attraverso la lente della sensibilità tutta orientale per il macabro e la paura dell'ignoto, colpisce per la sua tenebrosa intensità. Il suo estro per “l'orrore del corpo” è a suo agio nel mito del moderno Prometeo. E tocca corde quanto mai inquietanti, dipingendo un mostro raramente così spaventoso e nello stesso tempo tragico.







sabato 7 gennaio 2017

Cat Eyed Boy di Kazuo (Umezz) Umezu



Se ci sono autori che fanno scuola, Kazuo (UMEZZ) Umezu è sicuramente tra questi. Patriarca dell'orrore nipponico e pioniere del perturbante a fumetti nelle sue successive declinazioni, è rimasto a lungo inedito nel nostro paese. Quel vuoto oggi è colmato dalle edizioni Latitudine 42 con Cat Eyed Boy (Nekome Kozo) con quattro volumi che raccolgono la saga del ragazzo per metà demone felino. Ma all'orizzonte c'è dell'altro. Il 2017, per l'Italia, potrebbe essere l'anno della rivincita di Umezu, visto che la Hikari ha già annunciato un'altra sua importante opera: Aula alla deriva. Yokai maligni, body horror, ansia e perturbante. Un manga che conserva ancora oggi più di un motivo di interesse.

mercoledì 4 gennaio 2017

martedì 25 ottobre 2016

Speciale Halloween: Pandemonium (di Cristophe Bec e Stefano Raffaele)


Uno speciale in occasione di Halloween particolare. Questa festa, contagiata dall'America a noi italiani come una malattia sessualmente trasmissibile, si propone di giocare e far divertire con la paura, e tutti gli elementi della tradizione a questa collegati. Ma di vampiri, zombi, streghe, per quanto amichevoli e sempre simpatici, ho già parlato in altra sede. Stavolta esploriamo una regione della paura differente, con un fumetto che dà i brividi. E non solo a causa delle presenze tenebrose al suo interno, per le case infestate e sussurri nel buio. "Pandemonium" di Cristophe Bec e Stefano Raffaele è un gioiello rosso sangue che colpisce allo stomaco e si fa ricordare per la crudezza e la profonda inquietudine che lascia addosso. Lo so, vi piace avere paura. Ma siete davvero sicuro di volere visitare il Sanatorio di Waverly Hills? Siete certi che quando vedrete, ascolterete, non vi farà venire voglia di gridare? 
Ne siete sicuri?
Buon Halloween.


venerdì 11 marzo 2016

American Horror Story: Hotel (riflessione finale di uno spettatore deluso)


Finalmente ho finito di vedere la quinta stagione del serial TV American Horror Story, il ciclo intitolato Hotel. E finalmente, in questo caso, indica un senso di liberazione, dal momento che la compulsione a non lasciare niente di incompleto mi ha spinto ad assistere allo show nella sua interezza, pur prendendomi delle confortanti pause per dedicarmi ad altre serie. Alla fine posso tirare le somme convinto della mia impressione iniziale: American Horror Story: Hotel è veramente, a mio parere, il picco più basso toccato dalla serie ideata da Ryan Murphy e Brad Falchuck.

Se la precedente stagione, FreakShow, aveva fatto storcere il naso a molti (io l'avevo in buona parte apprezzata, trovando ben più lacunosa la terza stagione, intitolata Coven), Hotel è una discesa nel kitsch senza ritorno. Già dal secondo ciclo, Asylum, la serie aveva iniziato a presentare una struttura composita, con più trame parallele e convergenti. Le stagioni successive hanno tentato tutte di seguire il medesimo criterio, ma senza riuscire a riprodurre lo stesso equilibrio. Hotel è un minestrone di situazioni e personaggi dove praticamente non esiste un vero finale per nessuno, un meccanismo che gira a vuoto azzardando l'ennesima rilettura di un mito mediatico ormai troppo sfruttato: i vampiri. I succhiasangue negli ultimi vent'anni sono stati oggetto di infinite riscritture, alcune interessanti, altre patetiche. Ma non avevo mai incontrato dei vampiri scialbi, incoerenti, privi di fascino come quelli che vediamo in Hotel.

Lady Gaga, premiata in modo incomprensibile con il Golden Globe come migliore attrice protagonista di una serie televisiva, non aggiunge gran che, se non fare pesare ancor di più l'assenza di un protagonista realmente carismatico dopo l'abbandono di Jessica Lange. Dal punto di vista recitativo, la popstar non è esattamente un disastro. Potremmo anche dire che si difende senza infamia e senza lode. Ma il suo personaggio vive soprattutto nei costumi appariscenti che sfoggia, e la sua performance, sia pure non disprezzabile, non meritava certo un premio. Insomma, Lady Gaga incede in una versione molto dilatata di uno dei suoi videoclip, mentre il sangue zampilla, la gente muore, serial killer realizzano omicidi raccapriccianti e macchinosi, e tutto sa terribilmente di statico e stantio.


Si è scritto che la rivelazione di Hotel è l'attore Denis O'Hare, nella parte della trans Liz Taylor. Ma che O'Hare fosse un attore duttile e di grande talento lo sapevamo già dai tempi di True Blood, nonché dalle stagioni precedenti di American Horror Story. La sua prova d'attore è sicuramente degna di nota ed è tra le cose più riuscite di Hotel, ma lo spazio a lui riservato è pochissimo e – ahimé – non basta a reggere il peso di un baraccone dove alla fine non quadra niente. Troppi spunti sprecati, troppe situazioni dimenticate per strada. Appunto: troppi, come le trame che vanno a comporre il mosaico (alla fine informe) di Hotel, collocandosi qualitativamente al di sotto anche del già difettoso Coven.

L'assenza di Jessica Lange, o comunque di un interprete al suo livello, si rivela dunque cruciale. Già da un po', la Lange appariva sacrificata, intrappolata com'era dagli sceneggiatori in ruoli troppo simili tra loro, da maliarda non più giovanissima, assetata di successo e di potere. Ma nonostante il ruolo sempre uguale, il fascino e il talento di Jessica rappresentavano un faro che illuminava la scena. Qui manca, e nessuno è in grado di prenderne il posto. Kathy Bates e Angela Bassett continuano a essere relegate a ruoli di supporto, e anche loro appaiono sempre più stereotipate. Lungi dal fermarsi, la sesta stagione di American Horror Story si farà. E probabilmente Lady Gaga sarà ancora della partita. Ma se le premesse sono quelle di questo Hotel, fosse sarebbe stata opportuna una pausa di riflessione.


Una serie antologica avrebbe potuto presentare approcci differenti alla materia trattata. Murphy e Falchuck, invece, non hanno fatto che servire sempre lo stesso menu, aumentando di volta in volta in modo esponenziale le quantità di ogni ingrediente, col risultato di presentare alla fine una pietanza dal gusto pesante e stucchevole. Emblematico, da questo punto di vista, l'effetto di già visto (sebbene voluto) che ci riporta alle dinamiche della primissima stagione. Solo che a quel punto anche lo spettatore si sente un fantasma legato a un luogo che non potrà mai lasciare, e la sensazione non è confortante.

domenica 12 luglio 2015

TUSK di Kevin Smith


Un giovane giornalista radiofonico, specializzato nel raccogliere storie grottesche e nel mettere alla berlina bravate shockanti nel suo podcast, si avventura in Canada per documentare l'ennesimo teatrino della crudeltà mediatica. Ma dopo aver "bucato" la storia principale, si lascia sedurre dal racconto di un anziano ex marinaio in sedia a rotelle. Personaggio pittoresco e d'altri tempi, apparentemente depositario di una quantità di racconti curiosi. Tra questi c'è però la storia traumatica di un naufragio, di una strenua lotta per la sopravvivenza in mare. E su tutto, l'ombra inquietante di un animale totemico...




TUSK (2014) è un film spiazzante. Inclassificabile come la maggior parte delle pellicole girate da Kevin Smith, del resto. Un horror (o una commedia nera?) che quasi non dice di esserlo, ma di fatto lo è, diventando tanto più disturbante quanto il racconto procede di pari passo con l'ironia goliardica (e i parallelismi sul cinismo mediatico contemporaneo) di cui Smith è ormai un maestro. Un film forse non perfetto, ma che conquista per i dialoghi frizzanti e un cast sorprendente. Non foltissimo, ma animato da attori camaleonte in grado di offrire caratterizzazioni che non ti aspetteresti. Il duttile Michael Parks, Justin Long (visto nel primo Jeepers Creepers), il cresciuto (e ingrassato) Haley Joel Osment (il bambino del Sesto Senso) e un sempre più sfaccettato Johnny Depp, qui quasi irriconoscibile nel suo bizzarro, esasperante personaggio. 
Non saprei dire in che misura TUSK rappresenti il superamento del sottogenere horror che ci siamo abituati a definire "torture porn" o un alto punto nell'evoluzione della metafora dell'uomo disumanizzato dagli eccessi, dal pregiudizio e da una progressiva perdita di sensibilità. Un'umanità che per ritrovarsi deve diventare qualcos'altro. Ma che sarà sempre qualcosa che porterà all'irrisione, alla goliardia, e alla negazione di un orrore fondamentale, in un cortocircuito (suggerito durante i titoli di coda, dove Kevin Smith si autocita) davvero sinistro nel suo irriducibile rifiuto di prendersi sul serio.

[L'artista Francesco Francavilla ha realizzato una serie di immagini promozionali in stile fumettistico]



domenica 21 giugno 2015

Dylan Dog o dell'immaginario panico (su Calaméo)


Di tempo ne è passato. E Dylan Dog è entrato nella sua tanto discussa "Fase 2". Qui proponiamo un passo indietro. Uno di quelli che si fanno davanti ai quadri per poter vedere meglio e cogliere tutti i dettagli. Correva il 1993. Il sottoscritto frequentava l'università e il corso di diploma universitario in giornalismo (istituito presso la facoltà di Magistero, non ancora ribattezzato Scienza della Formazione) muoveva i primi timidi passi, prima di trasformarsi in un corso ben più lungo ed elaborato: quello in Scienze della Comunicazione. Ciò non toglie che fosse possibile divertirsi. Soprattutto con le materie sociologiche, se affidate a docenti anticonvenzionali e aperti come la duttile e preparata professoressa Pina Lalli. Fu così che iniziò il mio cammino di analisi sociale dei fumetti. Una relazione che qualcuno a suo tempo si offrì (in modo vano) di pubblicare, e che oggi Calaméo vi mette comodamente a disposizione. Questo è quanto pensavo e scrivevo negli anni novanta a proposito dell'indagatore dell'incubo. Questo è quanto discussi in sede di esame di Sociologia della Comunicazione. E questo è quello che ha portato al recente video (che affronta anche le recenti evoluzioni del personaggio) sul canale Youtube di Altroquando.
Buona lettura, Giuda ballerino!





giovedì 11 giugno 2015

Addio a Christopher Lee


Un'età veneranda. Una lunga, intensa carriera, fatta non solo di un'ingombrante icona cinematografica, ma di innumerevoli ruoli, quasi tutti particolari e riusciti. Anche fortunate apparizioni televisive. Se vogliamo ricordare Christopher Lee, facciamolo nel modo meno scontato e più iconoclasta possibile, a onore della duttilità del popolare attore inglese. Rammentiamolo in quello che pare sia stato uno dei suoi ruoli preferiti: Lord Summerisle, il leader della comunità pagana di The Wicker Man (1973, regia di Robin Hardy). Pellicola (se non erro) ancora oggi inedita in Italia. Se non lo conoscete, recuperatelo. E non leggete la trama in rete. Sarebbe un peccato.

domenica 9 novembre 2014

Dracula Untold

 

Se dovessi, da comune spettatore, esprimere un giudizio su Dracula Untold, direi subito che il vampiro, il principe Vlad detto "L'Impalatore" portato sul grande schermo dal regista esordiente Gary Shore, è un gran bel pezzo di gnocco, nelle vesti dello storico e famigerato vampiro di nome Dracula (interpretato da Luke Evans). Gran bel fisico, tanti muscoli, e denti canini quasi inesistenti. Da appassionato del tenebroso vampiro così ben descritto da Bram Stoker nel 1897 e dal Dracula di Francis Ford Coppola (1992), dovrei far notare che la scelta di privare il personaggio dell'abituale stile gotico e dell'elemento horror ha come principale risultato quello di smorzare di molto il tema, benché questo Dracula Untold tenti, a grandi linee, di convogliarsi proprio sugli stessi binari del film del regista de Il Padrino.




Per continuare nella mia umile analisi,credo che nelle intenzioni degli sceneggiatori, Matt Sazama e Burk Sharpless, c'era il forte desiderio di realizzare un film completamente diverso dai soliti gia citati sul personaggio Vlad, e cioè portare in scena un background storico che del vampiro transilvano mostrasse il lato profondamente umano, bello e attraente. Ovvero un personaggio che fosse un vero condottiero, capace di prodigarsi e sacrificarsi per il suo popolo, modificando alla base la caratterizzazione del solito succhiasangue. In poche parole un mito "diversamente vampiro".



Per lo più nel film si ammirano i bei paesaggi d'Irlanda, la bella colonna sonora, il fascino del genere horror, ma sopratutto l'attore protagonista: Luke Evans. Bello,dark , intenso, carismatico e virile come pochi tra i Dracula cinematografici.





[Recensione di Salvo D'Apolito]
 

giovedì 16 ottobre 2014

Annabelle


La nuova pellicola horror diretta dal regista John R. Leonetti ha come protagonista principale una bambola indemoniata che scatena il panico all'interno di una normale e pacifica famiglia americana. E' per così dire il “prequel" de L'Evocazione-TheConjuring, diretto da James Wan nel 2013.

La trama ripercorre i classici di un film horror americani, dove una casa tranquilla si trasforma nel teatro di un incubo dopo che il marito regala alla moglie incinta una rarissima bambola vintage, vestita con un candido abito da sposa e il viso porcellanato con due occhi enormi e le labbra di un rosso intenso.


Durante una notte a dir poco terrificante, la tranquilla villa viene attaccata dai membri di una setta satanica (un uomo e una donna) che lascia una scia di terrore, sangue e crudelta'. Solo un assaggio di ciò che e' in grado di fare la dannata Annabelle, la bambola ricevuta in regalo dalla futura mamma.


Annabelle in alcuni tratti è un film godibilissimo, con citazioni e innumerevoli richiami ai classici del terrore. Ricco di suspence, scandita da terrificanti scene demoniache e dal lato oscuro della religione, ma in linea massima si delinea come un film dai ritmi blandi. I silenzi e soprattutto lo scarto tra l'attesa di una scena di suspence e la sua palese realizzazione sono ottimamente girati, mentre il fantasma di Annabelle si diverte ad attivare la macchina per cucire o bruciare i popcorn e incendiare la cucina, così come lo studio delle inquadrature, che prevedono la presenza maligna, o l'attesa suggestiva, tesa e angosciante della stessa. Ma di certo il merito della riuscita - a tratti - del film è senz'altro il ghigno di una bambola vestita di bianco che riempie lo schermo e ruba la scena alla poco convinta prova recitativa della coppia di protagonisti.


In linea di massima, se amate il genere consiglio il film senza troppe pretese rispetto ai film del passato, su tutti il Chucky de La Bambola Assassina del quale Annabelle potrebbe essere, con il suo sguardo penetrante, la perfetta compagna.



[Recensione di Salvo D'Apolito]