venerdì 17 febbraio 2023

Un'altra serialità è possibile




I serial televisivi (o streaming, ormai non fa più differenza) sono diventati compagni di strada nel quotidiano per molti di noi. Per me sono un rito serale, che in genere non mi trattiene più di un'ora prima di abbandonarmi alla lettura e quindi al sonno. L'offerta è vastissima e se in mezzo c'è tanto materiale che a volte emerge con clamore, in altri casi rimane più o meno sommerso.

Questo mio post si propone di elencare alcune di quelle serie meritevoli di essere viste che per una ragione o per l'altra non hanno goduto della stessa eco mediatica riservati a prodotti più celebrati.

Quanto spesso sui social abbiamo letto elogi di titoli come House of the Dragon? Quante volte ci siamo imbattuti nell'isterismo di massa (di segni opposti) a proposito della serie The Lord of the Rings: The Rings of Power? Nel visibilio relativo a The Boys, a Mercoledì e più recentemente a The Last of Us?

Insomma, esistono dei prodotti che più di altri possono essere definiti mainstream, o se preferiamo... popolari. Titoli in grado di catalizzare l'attenzione e monopolizzare la ribalta, in qualche caso a discapito di prodotti seriali interessanti che risultano spinti in una zona d'ombra dai riflettori puntati sui serial più gettonati.

Vediamo di scoprire qualcosa di meno dirompente, non per qualità, ma per riscontro mediatico. Una serialità “altra”, che non punta su brand arcinoti e grosse campagne promozionali pur avendo molto da dire, o semplicemente rivelandosi un valido intrattenimento. Quella che segue non è da intendere come una classifica, ma solo una casuale raccolta delle mie più recenti visioni preferite. Quindi, fatene un uso consapevole. Sono solo consigli.



Bad Sisters
– Grace Garvey è sposata con un uomo orribile. Un individuo insopportabile che non è il classico marito violento, ma che ha un'influenza nefasta sulla vita della moglie, stroncando in lei ogni minima gratificazione personale. Grace ha anche quattro sorelle molto legate tra loro, ciascuna delle quali ha subito una conseguenza negativa dalla condotta dell'infame cognato. John Paul ora è morto, apparentemente per cause fortuite. Ma se non fosse così? E come sono andate esattamente le cose? Nel frattempo, un agente assicurativo sull'orlo della bancarotta indaga per non essere costretto a pagare la cospicua polizza sulla vita del defunto. Succederà di tutto in un crescendo da cardiopalma.

Bad Sisters è una serie irlandese (basata su una produzione belga inedita da noi) prodotta da Apple TV, una piattaforma che negli ultimi tempi ha sfornato diversi titoli davvero interessanti. Ideata da Sharon Horgan, che nella serie interpreta il personaggio di Eva, è una commedia nera come la pece e frizzante come lo champagne. Seguendo le peripezie delle cinque ineffabili sorelle Garvey si ride e si inorridisce nello stesso tempo, in un balletto tra presente e passato che svela poco alla volta i segreti di una famiglia tutt'altro che esemplare. Un thriller al femminile appassionante, grottesco e divertentissimo.




Inside Man
– Un detenuto nel braccio della morte di un carcere statunitense riceve visite da persone che gli sottopongono quesiti di vario genere. Grieff ha ucciso la moglie in modo efferato e nessuno sa perché né dove abbia nascosto la testa del cadavere. L'uomo, che è stato un criminologo professionista, possiede qualità deduttive pari a quelle di Sherlock Holmes, e si presta a risolvere enigmi dal chiuso della prigione quasi fosse un modo per pareggiare i conti con il proprio senso etico. Nel frattempo, in Inghilterra, un sacerdote protestante si trova di fronte a un dilemma morale apparentemente insolubile. Le vicende dei due uomini si intrecceranno a distanza in modo imprevedibile.

Scritto da Steven Moffat, autore di Sherlock e per anni show runner di Doctor Who, Inside Man si basa moltissimo sulle performance dei due attori protagonisti: David Tennant e Stanley Tucci. Solo quattro puntate, ma serratissime e dal ritmo indiavolato. Un senso di angoscia crescente e un meccanismo a orologeria che funziona come una trappola. Difficile non cedere alla tentazione del binge watching e divorarlo in un'unica seduta. Si trova nel catalogo Netflix.





Severance – Scissione – Altra serie prodotta da Apple TV e altro titolo di alto profilo del quale, sia pure all'interno di una nicchia, si è parlato un po' di più. Il paradosso con Scissione, serie ideata da Dan Erickson e diretta tra gli altri dall'attore Ben Stiller, è che per consigliarla sarebbe meglio parlarne il meno possibile. Il suo incipit è fulminante e sarebbe un peccato rovinarlo ai neofiti. Limitiamoci pertanto a dire che siamo nei territori di una fantascienza sociale che sconfina nel thriller, dove le domande si succedono l'una all'altra sia per lo spettatore che per i protagonisti. Il contesto paranoico e claustrofobico, un vero e proprio incubo, pur narrando una storia completamente diversa, ai più anziani tra noi potrebbe ricordare alcune atmosfere del classico serial inglese Il prigioniero. Un mondo del lavoro distopico, dove l'essere umano è ridotto a un mero ingranaggio e le coscienze non sono mai state così manipolabili. Un gioiello di cui si attende con impazienza la seconda stagione.





Yellowjackets
– L'aereo su cui viaggia una squadra di calcio femminile cade in una remota zona montuosa lontana dalla civiltà. Un pugno di superstiti sono ritrovate molti mesi dopo. Ma non sono più le stesse. Venticinque anni più tardi, oscuri segreti tornano a perseguitare le giovani sportive ormai divenute donne ciascuna con la propria storia. Che cosa è successo nel misterioso eremo in cui la squadra si era trovata a sopravvivere, e chi sta giocando oggi con le loro esistenze?
Tra passato e presente, gioventù e maturità, Yellowjackets potrebbe essere definito un lontano parente del leggendario Lost. Una vicenda enigmatica che si dipana come un mosaico da formare un pezzo alla volta in base ai continui salti temporali. Un po' mistery un po' teen drama, un po' crime e un po' horror con pennellate di grottesco, lo show è arricchito da una ciurma di attrici notevoli tra cui si distinguono Melanie Linksey, Juliette Lewis e la sempre impagabile Christina Ricci. La prima stagione (già confermata la seconda) presenta numerosi enigmi e non è ancora chiaro in che misura il mistery centrale presenti venature soprannaturali. Come che sia, Yellowjackets è uno spasso. Se si ama farsi domande e giocare a indovinare le risposte (proprio come facevamo con Lost), il divertimento è assicurato. La serie è ideata da Ashley Lyle, Bart Nickerson e in Italia è andata in onda su Sky.



The Afterparty – Il giallo-rosa (un tempo li chiamavano così) è stato rilanciato di recente da Only Murders in the building riscuotendo un certo gradimento. La stessa etichetta sarebbe da applicare a The Afterparty, serial di Apple TV scritto da Christopher Miller. Gradevole nella sua visione di insieme, The Afterparty presenta un approccio specifico potenzialmente affascinante che però non ha il coraggio di andare fino in fondo, risultando alla fine uno show simpatico, ma anche lasciando una sensazione di possibilità sprecata. Almeno così è stato per me. Una classe di ex studenti si incontrano per una rimpatriata in cui emergono inevitabili i bilanci esistenziali di ognuno, i vecchi amori e rancori. Alla fine ci scappa il morto ed è subito millenial whodunnit, come dicono oggi quelli bravi. Una commedia poliziesca, direbbero altri senza troppi fronzoli, in cui ogni episodio è concentrato sul differente punto di vista di un ospite della festa e potenziale colpevole. L'intenzione era quella di proporre attraverso la soggettiva dei vari protagonisti un tono narrativo diverso per ogni puntata, passando dalla commedia sentimentale all'horror, all'action, al musical e persino al cartone animato. L'idea è tanto carina e intrattiene il giusto. Peccato, però, che l'atmosfera di base rimanga sempre quella della commedia, smorzando un po' la trovata sperimentale e riducendo il gioco a semplici allusioni parodistiche. Se ogni episodio, oltre al genere avesse mutato anche chiave e tono narrativo, avremmo potuto trovarci davanti a un evento. Ciò non toglie che The Afterparty sia un giallo simpatico, che se non altro prova a essere diverso dagli altri e merita la visione.


                                                        



The Devil's Hour
– Prodotto da Steven Moffat e scritto da Tom Moran come original su Amazon Prime Video, The Devil's Hour è una piccola (grande) sorpresa. Lucy si sveglia ogni notte alla stessa ora, tra le 3 e le 4 antimeridiane, reduce sempre dallo stesso incubo. Non un minuto prima né dopo. L'orario è implacabilmente preciso. La sua vita non è certo un letto di fiori. Ha ripreso da poco a frequentarsi con il marito da cui è separata, ma il loro rapporto continua a non convincerla. L'uomo non riesce proprio a relazionarsi affettivamente con il figlioletto. Isaac, un bambino strano che appare indifferente a qualunque stimolo, che non ride, non piange e a tratti appare simile a un guscio vuoto inclassificabile anche per la scienza medica. Intorno a Lucy, intanto, si verificano una serie di brutali omicidi e fenomeni indecifrabili che la porteranno a incrociare il cammino di un misterioso serial killer.

The Devil's Hour è un oggetto enigmatico e di fruizione non proprio facilissima. Trama labirintica, dinamiche narrative sfuggenti che confondono lo spettatore fino alla conclusione risolutiva nella sua complessità. Un horror mistery britannico che invita a comporre un nuovo mosaico dalle tessere tremendamente ambigue. Narrazione tesa, tenebrosa eppure affascinante grazie ai numerosi colpi di scena, all'ottimo ritmo e alle interpretazioni di Peter Capaldi e Jessica Raine. Disorientante e proprio per questo appassionante nella sua spietatezza.



                          
                                                       

Servant
– Ormai giunta alla conclusiva quarta stagione, la serie ideata da Tony Bassgallop, prodotta da M. Night Shyamalan, che ha pure diretto alcuni episodi, non è sicuramente roba per tutti. Eppure, tra le tante serie proposte da Apple TV (che sembra averne imbroccata una dietro l'altra), fa bella mostra di sé per originalità e il modo personale con cui affronta temi abusatissimi.

Sì, perché Servant è praticamente una storia supereroistica, di quelle in chiave dark e decostruzioniste. Può suonare strano, ma di questo si tratta, considerato che il personaggio centrale ha molti punti di contatto con quello marvelliano di Scarlet Witch, o perlomeno con la sua versione a fumetti più classica. Aggiungere altri dettagli sconfinerebbe nello spoiler.

Una famiglia americana formata da uno chef specializzato in cucina molecolare e da una giornalista televisiva rampante perde il figlioletto appena nato in circostanze drammatiche che non saranno subito chiarite. Per aiutare Dorothy, la madre, psicologicamente provata dal lutto, il marito accetta di ricorrere a un trattamento terapeutico sperimentale che prevede l'uso di una bambola che riproduce le fattezze del neonato defunto. Dorothy però sta varcando la soglia della follia, e mette sul giornale un'inserzione alla ricerca di una tata per il figlio artificiale. All'annuncio risponde Leanne, una misteriosa ragazza dal passato oscuro che viene subito assunta per assecondare le illusioni della madre confusa. Da quel momento, nella casa gli eventi sembrano non seguire più le leggi della natura, ma distorcersi in modo imponderabile.

Servant è una serie strana, probabilmente non per tutti. Qualcuno potrebbe trovarla ostica. Tuttavia mi sento di consigliarla, in quanto siamo davanti a un fantastico esempio di narrativa non lineare, un efficace thriller da camera e di un'ottima prova di attori. Nel cast, accanto a Toby Kebbell (Black Mirror), Lauren Ambrose (Six Feet Under) e Nell Tiger Free (Games of Thrones), troviamo anche Rupert Grint, l'ex Ron Wesley della saga di Harry Potter, in un ruolo sfaccettato che lo fa svettare su tutto il cast.






 The Bear
– Carmy è uno chef stellato che ha appena ereditato dal fratello defunto una tavola calda in un quartiere popolare di Chicago. Il locale è assediato dai debiti, il personale fuori controllo e rimettere l'attività in carreggiata sembra un'impresa impossibile. Carmy farà di tutto per comunicare con i suoi nuovi collaboratori, aiutarli a dare il meglio di sé e fare i conti con il rapporto mai del tutto risolto con il fratello ormai scomparso. The Bear 
è una serie che osa ignorare gli schemi più battuti e porta la serialità in un territorio raramente esplorato. Gli episodi, tutti molto brevi, sono ambientati in una cucina incasinatissima e chiassosa. Una vera zona di guerra dove si urlano istruzioni cui fanno eco proteste per tutto il tempo e ci si tuffa tra corpi che sgobbano, ingredienti miscelati, fornelli accesi e pietanze cotte con disperato senso di urgenza. La serie, scritta da Christopher Storer, a tratti può ricordare alcune pellicole di Spike Lee per il taglio realistico, la vicinanza ai personaggi e la narrazione ellittica in cui alcuni eventi sono suggeriti più che mostrati. Qualcosa di insolito che parla di umanità attraverso il rapporto con il cibo e la sua preparazione. Un gioiellino imperfetto, ma lucente da scoprire. Su Disney+ come Star Original.




Black Bird – Ispirato a una storia vera, come specifica un tag a inizio di ogni episodio, Black Bird è un thriller psicologico e nello stesso tempo una prova di attori a lenta ebollizione.

James, ex campione di football figlio di poliziotto in pensione, ricco, spavaldo e sicuro di sé, campa facendo affari con la cocaina finché non lo incastrano con una condanna durissima. Per avere un condono e potere stare vicino al padre malato nei suoi ultimi giorni, gli viene proposta una missione sotto copertura. Dovrà infiltrarsi in un carcere di massima sicurezza riservato a criminali con turbe mentali e usare le sue capacità di socializzazione per estorcere informazioni a Larry, un uomo accusato di essere un presunto serial killer di ragazzine che potrebbe essere presto liberato in appello data l'assenza di prove schiaccianti. Larry è mentalmente disturbato, mitomane, bugiardo... perverso. Jim dovrà trovare il modo di fare breccia nella psiche del vicino di cella, carpirgli informazioni cruciali, e assicurarsi che il mondo rimanga al sicuro dal suo delirio omicida...

Prodotto da Apple TV, scritto da Dennis Lehane e basato sul saggio In with the Devil, Black Bird non è un giallo in cui scoprire l'identità del colpevole, sebbene alcuni elementi possano a tratti far sorgere qualche incertezza sul reale andamento dei fatti. Tutto si basa sul confronto tra due personalità complesse. Una lucida, potenzialmente redimibile, e un'altra torbida, sfuggente, in cui bugie e verità possono diventare indistinguibili. A entrambi i protagonisti, Taron Egerton (Kingsman) e Paul Walter Hauser (Richard Jewell) sono stati candidati al Golden Globe (poi vinto da Hauser) per le loro interpretazioni. Black Bird è il crescendo ansiogeno di una partita a scacchi psicologica che si dipana per sei puntate tese come corde di violino mentre si sprofonda sempre più nella palude di una mente malata. Nel cast vediamo per l'ultima volta Ray Liotta, scomparso poco dopo il termine della serie, in una prova recitativa che ce lo farà ulteriormente rimpiangere.  




mercoledì 1 febbraio 2023

The Last of Us 1x03: Long Long Time... una riflessione

 


In genere non mi piace partecipare a certi cori mediatici. Mi riferisco a eventi della cultura pop, film e serie TV che fanno clamore e generano in rete applausi o urla di biasimo da più parti, con tutto il corredo di critiche, analisi, incensi o roghi. Ancora meno mi piace partecipare al sezionamento sistematico di ogni episodio di una serie in fase di programmazione. Lo trovo noioso, inutile e anche fuorviante come può esserlo la contemplazione di una mano, un piede, l'orecchio o l'occhio di un individuo che non hai ancora potuto percepire nella sua visione d'insieme. Ma è la rete, bellezza! Sono i social e soprattutto il lavoro di quelli che oggi si chiamano influencer. La necessità di battere sul ferro incandescente delle news più cliccate per raccogliere visualizzazioni e relativi benefici economici.

Dicevo, non mi piace... di solito. In questo caso non riesco a farne a meno. Forse perché non sono immune come credevo a certe dinamiche omologanti. Oppure perché sento il bisogno di dire la mia davanti a qualcosa che non mi ha lasciato indifferente, sento di avere in corpo qualcosa che vuole uscire... e quindi, eccoci qua.

Il terzo episodio della serie HBO dedicata alla versione in live action del popolarissimo action-adventure The Last of Us, già acclamata per le prime due puntate, sta facendo discutere tantissimo. I giudizi sono prevalentemente positivi, commossi ed entusiasti. Finora, i detrattori si posizionano ai margini di quello che sembra un grosso successo di pubblico e critica. Long Long Time, questo il titolo dell'episodio, sta trionfando mentre una bassa percentuale di spettatori arriccia il naso bollandolo come insulso filler e prodotto della cultura woke.

Devo ammettere che ho iniziato a seguire The Last of Us con una certa prevenzione, e che lo show sceneggiato da Craig Mazin e Neil Druckman mi sta conquistando un passo alla volta. Da non giocatore, ma avvertito sulle tematiche dalla popolarità pervasiva del brand, sto scoprendo poco per volta un racconto post apocalittico diverso dal solito, forse meno prevedibile dei tanti già visti, e l'episodio intitolato Long Long Time possiede quel tocco in più che lo renderebbe fruibile anche come mediometraggio avulso dal suo contesto. Quasi, se non altro.



Glissiamo, dunque, sugli stolidi mugugni contro l'inclusione, quell'orticaria reattiva alle tematiche LGBTQ+ che, presenti nella realtà quotidiana di tanti uomini e donne, a qualcuno sembrano così fuori posto nelle storie che ci raccontiamo. Nemmeno si volesse reclutarli per giocare in una squadra avversaria o forzarli a mangiare una pietanza che aborriscono.

Lasciamo da parte anche il fattore commozione, che con me vince facile per mille motivi, che è sempre soggettivo e non è prescritto da nessun medico a chi semplicemente non lo vive.

Il post è pieno di spoiler, quindi se foste tra i pochi che ancora non sono in pari con la serie, fermatevi qui.

Per cominciare, parliamo di filler, cioè quegli episodi considerati dei riempitivi nel contesto di una serie, che possono essere più o meno riusciti, ma che per la loro struttura rappresentano un intervallo nel progredire della trama generale e che a tanti danno bruciori di stomaco. Come molte parole usate di frequente nella cultura pop in ambito social, “filler” è diventato una parolaccia. Un etichetta dispregiativa da affibbiare a qualcosa di sgradevole che ci si è trovati in bocca mentre si pensava di assaggiare altro e che va sputata con fastidio se non disgusto.

E' anche una parola abusata, spesa a volte con una certa superficialità. Infatti, nel caso di Long Long Time non siamo in presenza di un filler, ma piuttosto di una digressione dal percorso narrativo principale. Espedienti che se ben gestiti non tolgono nulla alla narrazione, riuscendo addirittura ad arricchirla. Il punto è che se Long Long Time fosse davvero un filler... beh, ad averne.


La storia d'amore omosessuale tra Bill e Frank è collocata in mezzo a schegge narrative con cui risulta speculare. Il mondo di The Last of Us è ancora in formazione e quel che l'episodio ci propone sono modi differenti di reagire a una catastrofe planetaria. I gruppi istituzionali formatisi dopo la diffusione del letale fungo sono retti da un sistema autoritario che non esita a eliminare fisicamente non solo chi è infetto, ma anche chi è giudicato di troppo o non gestibile per i nuovi standard di sopravvivenza. Altrove succede qualcosa di diverso. Le reazioni umane, potenzialmente altrettanto feroci e spietate, lasciano spazio all'accoglienza e alla possibilità di una convivenza da cui può nascere l'amore di una vita. La differenza, in sostanza, tra sopravvivenza e vivere davvero.

C'è un altro aspetto di cui si dovrebbe tenere conto. E cioè che le storie non sono fatte soltanto di un insieme di eventi e neppure del grado di logica che contengono. Le storie, spesso, vanno considerate anche in base ai loro aspetti simbolici. Sono fatte per comunicare non per essere inattaccabili costrutti geometrici. Se poi sono ben scritte, e Long Long Time lo è a dispetto dei detrattori, e interpretata da attori in gamba quali Nick Offerman e Murray Bartlett, sono senz'altro le benvenute.


Bill è un prepper, uno di quei soggetti che fondano la propria esistenza sul complottismo e la preparazione maniacale a qualunque tipo di emergenza, sia essa una guerra, un attacco nucleare, un'epidemia. Per questo ha organizzato la sua casa e il terreno circostante in modo da poter sopravvivere in piena autonomia, fornito di potenti generatori di elettricità, scorte di viveri ingenti, ma soprattutto armi di ogni forma e dimensione, e tessendo tutto intorno una fitta rete di trappole. L'emergenza micotica che ha spazzato via gran parte della civiltà umana non lo trova quindi impreparato. L'evacuazione forzata della cittadina in cui vive gli dona uno splendido isolamento che gli permette di tenere lontana l'avanzata del contagio, ma soprattutto un'umanità di cui non si è mai fidato. Questo fino all'arrivo di Frank, sopravvissuto al collasso di una delle zone di quarantena e caduto, esausto e affamato, in una delle trappole di Bill.

Accogliere Frank, anche solo per poche ore e accettare di sfamarlo produce un'incrinatura nella barriera che Bill aveva innalzato intorno a sé prima ancora che la catastrofe iniziasse. Frank possiede una facilità di comunicazione che al ruvido survivalista è sempre mancata. E' arguto, creativo, amante delle cose belle e pieno di iniziativa.

Ci viene lasciato intendere che lo stesso Bill non è proprio un pozzo arido. Conserva ancora il pianoforte appartenuto alla madre, sa anche suonarlo un po' e sa leggere la musica scritta. Anche Frank strimpella il piano e la condivisione della musica rappresenta la svolta romantica di quello che è stato un incontro fatale e l'inizio di un amore che durerà tutta la vita, suggellato dalla canzone di una folk singer del passato, quella Long Long Time cantata da Linda Ronsdat che dà il titolo all'episodio.

Quel che c'è di coraggioso in Long Long Time è la scelta di affidare la luce di speranza di un'umanità allo sbando a una coppia omosessuale, un genere di relazione per molti ancora fuori dagli schemi, e in particolar modo a due uomini. Infatti, il plot dell'episodio non sarebbe nuovissimo in sé non fosse per questo dettaglio. La fiction ha preso a fare molto uso dell'amore omosessuale, ma gli spettacoli indirizzati al grande pubblico hanno spesso scelto di mettere in scena relazioni tra donne. Non è neanche difficile capire il perché. La cultura patriarcale tuttora forte è più propensa a tollerare la rappresentazione dell'omosessualità femminile, da sempre presente anche in tanta pornografia destinata a maschi etero. Portare in scena l'amore tra uomini, in un mondo dove ancora permane tanto sentire maschilista, si può definire un atto sovversivo. Ancora di più se, come nel caso di Long Long Time, vengono abbandonati determinati stereotipi e i protagonisti che si amano non sono giovani efebi, ma uomini maturi, ordinari e senza la corporatura di fotomodelli. Caratteristica che oltre a conferire maggiore verità al racconto ha portato all'immediata adozione dell'episodio da parte della comunità Bear internazionale.

La scena del primo momento di intimità tra Bill e Frank è un ulteriore atto di scardinamento. Di rado, forse mai, si era visto in televisione qualcosa del genere. Almeno non in un prodotto destinato al vasto pubblico. Due uomini barbuti, dall'aria rude, avvicinarsi nudi l'uno all'altro e scoprire le rispettive vulnerabilità. Bill è quasi vergine. Ha fatto sesso solo una volta, tanto tempo prima, con una ragazza. Probabilmente solo per scoprire che la cosa non faceva per lui. E ora, in un mondo al crepuscolo dove le sovrastrutture culturali sono crollate, rivela per la prima volta le sue vere pulsioni. Frank, più esperto ed estroverso lo guiderà, in una scena che riesce a essere sensuale e tenerissima nello stesso tempo. Una palingenesi per il personaggio di Bill, e una possibile strada di rinascita per l'umanità tutta, che all'indomani della sua caduta può scegliere di aprire la propria anima ad aspetti prima rinnegati.



L'episodio, dicevamo, non è un filler, ma un'espansione dei punti di vista. Nel corso di Long Long Time veniamo a conoscenza di come è nato il codice radio con cui Tess comunicava negli episodi precedenti, frutto dell'inventiva di Frank. Un salto temporale ci mostra che il rapporto tra i due uomini si è evoluto in qualcosa di duraturo e che la presenza del nuovo venuto ha finito con l'allargare un poco gli orizzonti del solitario survivalista. Bill continua a diffidare dagli altri. Frank invece è collaborativo e pieno di fervore. All'insaputa del compagno è entrato in contatto via radio con Tess e la frangia di resistenza al nuovo ordine mondiale. Il ménage dei due eremiti si apre dunque a due ospiti.

Tess (l'attrice Anna Torv), morta nell'episodio precedente, torna in scena in un significativo flashback in cui la vediamo in compagnia di Joel pranzare nella dimora fortificata di Bill. Quest'ultimo conserva il suo carattere ombroso, ma è chiaro che sta cambiando. Contagiato non dal fungo mortale, ma dalla vitalità che l'esuberanza di Frank ha saputo infondergli. E' l'inizio di una riluttante amicizia, qualcosa di assolutamente non previsto, ma che porterà a costruttivi baratti e a un'esistenza migliore per tutte le parti coinvolte.

Il racconto, svolto su piani temporali diversi, ci mostra Joel e Ellie nel presente, in cammino verso la casa di Bill e Frank. Un altro motivo per cui non si può considerare il capitolo un mero riempitivo, ma una cronaca a incastro che acquisterà senso compiuto nel finale.

La casa di Bill e Frank è di sicuro diventata un'oasi felice in mezzo all'apocalisse. Nemmeno l'attacco di una squadra di predoni riesce a spezzarne l'incanto. A farlo, molti anni più tardi sarà la vecchiaia e una malattia degenerativa, forse il morbo di Parkinson, che due uomini soli in mezzo al nulla, per quanto organizzati, non possono fronteggiare.

Nel gioco le cose andavano molto diversamente. Frank si allontanava, esasperato dalle manie complottiste di Bill e finiva con l'essere contagiato dal fungo. S'impiccava prima di trasformarsi mettendo fine a un rapporto che non aveva avuto lo stesso spazio della serie TV per essere compreso. In definitiva, lasciando un messaggio nettamente agli antipodi.

I tempi cambiano. Magari non proprio in meglio, ma qualcosa evolve. Mazin e Druckman lo hanno capito e hanno scelto una via diversa e un finale ottimista pur nella sua drammaticità.

Le vite di Frank e Bill finiranno insieme nel modo più romantico possibile. Frank decide di morire per non soccombere alla malattia invalidante che prolifera nel suo corpo al posto del fungo che lo ha infettato nel videogioco, ma che in sostanza rappresenta la medesima condanna in termini metaforici. Tuttavia, stavolta non morirà solo, ma in compagnia del marito. I due decidono di sposarsi e scambiarsi gli anelli al termine di una cena consumata in un'atmosfera quasi festosa. Frank ingerirà un quantitativo letale di pillole sbriciolate in una coppa di quello stesso vino che Bill gli ha offerto il giorno del loro primo incontro e si addormenterà tra le sue braccia. Bill, però, ha avvelenato l'intera bottiglia e rassicura il compagno affermando che è meglio così. Anche lui ormai è anziano e non può rimanere da solo. Ha vissuto una vita piena, grazie a Frank, e ora è il momento di andarsene insieme.


Potremmo dire che la vita di Bill prima dell'arrivo di Frank non era da uomo realmente vivo. Chiuso in una prigione dorata e nelle sue manie complottiste, si limitava a sopravvivere. Frank gli ha insegnato a vivere veramente, condividendo l'esistenza con qualcuno che amava e a essere se stesso fino in fondo. Dietro tutto questo non c'è soltanto una storia d'avventura apocalittica o una storia d'amore fine a se stessa, ma un insegnamento morale. Se vogliamo didascalico. E come nel teatro di Bertolt Brecht i personaggi sono maschere dell'esistenza cui si affidano dei significati. Significati che vanno colti.

L'isolamento di Bill è allegoria di una solitudine dettata dalla sua cultura d'appartenenza, fatta di sovrastrutture, paura e pregiudizio, non da una possibile apocalisse. Frank, che arriva dall'esterno, è la voce della novità, della capacità di rischiare, di osare e di aprirsi a una parte di umanità che potrebbe anche farti del bene se solo glielo permettessi.

Long Long Time è il racconto di un'epifania e di una nuova vita possibile in un mondo in rovina. La costruzione di un proprio paradiso che parte dall'accettazione non solo di se stessi, ma anche dell'altro. Sì, Long Long Time è una parabola pacifista.



L'ultima parte del racconto, mostra l'arrivo dei due protagonisti della serie, lasciati in disparte per la maggior parte del minutaggio. La lettera di Bill a Joel in cui gli affida le sue armi, le sue cose e lo invita a usarle a proteggere l'ormai defunta Tess spazza via ogni dubbio sulla natura di filler dell'episodio. Tutto quello che abbiamo visto, il ricordo che Joel conserverà dei suoi amici e quelle ultime parole finali, svolgeranno una funzione importante nella sua maturazione di personaggio e nel suo rapporto con Ellie. Joel si era chiuso ai sentimenti e alla vita dopo la morte di sua figlia Sarah, uccisa dai militari nei primi giorni dell'emergenza. Chiuso allegoricamente come Bill, in una fortezza psicologica in cui nemmeno il rapporto con Tess era riuscito a fare breccia. Ma qualcosa sta cambiando. Il ritorno in scena di Tess in una scena ambientata nel passato non è casuale, ma rappresenta l'importanza dei ricordi e della persistenza degli affetti perduti.

The Last of Us, dopo questo episodio, potrebbe rivelarsi nel tempo una serie antologica sui diversi modi di sopravvivere in un mondo finito. Quando si sceglie la via dell'isolamento rinunciando alla propria umanità e quando la ritrovata empatia dà un verso senso al nostro respirare.

Long Long Time non sarà il capolavoro che tanti dicono. Possibilmente non è neppure un racconto perfetto. Ma le storie non hanno bisogno di essere perfette per essere belle, per emozionare e arricchire chi le ascolta. Non ne hanno bisogno neppure le persone. E se per mille ragioni non riusciamo a commuoverci... beh, non è un dramma. Purché a emozionarsi sia il cervello se non il cuore, e ci si apra a un mondo di possibilità che possono aiutarci tutti a vivere davvero.

Chissà, se siamo fortunati, per lungo, lungo tempo.

Bravi, Mazin e Druckman.



mercoledì 23 novembre 2022

Elogio dell'ebook reader


Il mio BeBook è vecchio, fuori produzione. L'azienda olandese che lo produceva ha dichiarato fallimento molti anni fa, pertanto il mio BeBo appartiene a una stirpe in via di estinzione come l'ultimo dei Moicani.

E' un modello basico piuttosto modesto. Non ha neppure la funzione touch per voltare pagina. Quando lo acquistai ero in ristrettezze, e per risparmiare scelsi la versione con due pratici pulsanti per andare avanti e indietro. Mi abituai in fretta al nuovo dispositivo, leggendo soprattutto sul bus mentre andavo al lavoro. Poi iniziò un brutto periodo e una lunga permanenza in ospedale in cui il BeBook rappresentò una preziosa via di fuga. Lo tenevo nello zaino, dentro una busta di finta pelle che aveva contenuto una bottiglia di Pampero. All'epoca mi era sembrata una buona idea, ma l'alloggiamento fece male alla sua epidermide sintetica, o almeno così sembrò. Il telaio nero divenne appiccicoso da morire e prese a screpolarsi. Era come se sul dispositivo fosse stato spalmato del miele. Usarlo dava la sensazione di stare maneggiando un torrone di Natale. Il tentativo di pulirlo con alcol denaturato fallì. La superficie restava inesorabilmente collosa. Il mio fedele amico si era ammalato e non conoscevo nessun dermatologo della plastica.

Provai a farlo vivere in condizioni più salutari, tirandolo fuori dalla zainetto, rinunciando alla busta e lasciandolo all'aria per la maggior parte della giornata. La natura sembrò fare il suo benevolo corso. La plastica iniziò a desquamare copiosamente come se il dispositivo stesse facendo la muta. Un mese più tardi, il mio amico si era liberato della pelle morta ed era tornato al suo aspetto nero lucente. La sensazione di attaccaticcio sotto le dita era scomparsa. BeBo era guarito, e
durante tutto il tempo trascorso non avevo mai smesso di adoperarlo. Sono passati gli anni, il mio amico si è infortunato cadendo sul pavimento, sfuggito alle mie dita mentre mi addormentavo. Non si è fatto troppo male. L'apertura laterale causata dall'urto non si chiudeva più, ma uno strato di nastro adesivo telato, rigorosamente nero, lo ha restituito se non all'antico splendore alla sua piena abilità.

Ancora oggi BeBook è con me. Funziona, vive e lotta insieme a noi, con i suoi due anacronistici pulsanti per avanzare o retrocedere di pagina, e oggi voglio spendere due parole su di lui. Anzi, sulle letture elettroniche in generale.

Oltre all'ordinario uso per la lettura, i libri possono essere uno strumento per identificare tanti diversi tipi di persona. Quelli come me, che li vedono come gioielli da lustrare e custodire gelosamente e quanti ti guardano come un pazzo depravato dedito a chissà quale vizio disgustoso. Ma anche come un debosciato, incurante del valore dei soldi, che sperpera per acquistare oggetti insulsi. Questi occhi hanno visto esseri più o meno umani scandalizzarsi davanti a biblioteche cariche di libri come se si fossero trovati di fronte a una vetrina di costosi sexy toys. Purtroppo non è uno scherzo, è un orrore che esiste e circola per il mondo. Ma tra gli stessi lettori, amanti delle storie e dei libri, possono verificarsi spaccature di una certa rilevanza.


L'avvento del digitale ha originato un'ulteriore diatriba culturale. Quella del cartaceo contro il supporto elettronico. Il libro, si dice, va toccato, sfogliato, annusando il suo afrore di carta, palpeggiando la sua morbidezza tagliente, sostenendo il suo dolce peso. E' un oggetto favoloso. Puoi portatelo dietro dove vuoi. Il libro è caldo, rassicurante. Sacro.

Beh, tutto vero. Tutto giusto. Viva i libri, come oggetti e come veicolo di conoscenza.

Parlando di lettura digitale, sono in tanti a vedere i libri elettronici come il male assoluto, senza se e senza ma. La negazione di un bene tradizionale e nobilissimo. Un luogo comune molto battuto, che vede le parole a schermo come lo spettro di un amante defunto, o se non altro una sua pallida fotografia, che ci fa rimpiangere il calore del suo abbraccio. E il lettore di ebook come un congegno del diavolo, l'ennesimo bad miracle di un progresso perverso, venuto a sottrarci una delle ultime consolazioni alla nostra portata. Il contatto, fisico e rassicurante, di un buon libro. Un libro vero.

Giusto?

Ni.

Le nuove leve tendono a liquidare ogni diffidenza nei confronti delle nuove tecnologie con un «Ok, boomer» che ormai ha travalicato i confini generazionali dei sixties per diventare una sputo in faccia a qualunque dissenso. Eppure non ho rilevato (forse per mia distrazione) posizioni nette del pubblico giovanile riguardo il tema degli ebook readers. Forse perché la lettura rimane una pratica esoterica, in cui i dissidi generazionali si rarefanno, e i dibattiti al suo interno riguardano pochi iniziati la cui età anagrafica non conta più nulla.

Ed è da boomer che vorrei spezzare una lancia sulla pratica della lettura elettronica. Questa piaga così vituperata dai bibliofili, categoria cui peraltro appartengo.

Quando si parla di libri elettronici, in genere, il primo aspetto pratico che viene menzionato è il risparmio di spazio. Il lettore di ebook è in grado di contenere migliaia di libri, una biblioteca sterminata che in un appartamento potrebbe finire col causare disagio. Sempre a seconda della casa in cui si vive, delle proprie possibilità ed esigenze. Al fascino degli scaffali affollati si contrappone la comodità di un trasporto agile, che non teme traslochi e può offre un catalogo vastissimo di facile accessibilità. Senza necessità di inerpicarsi su una scala, senza polvere, senza infinite guerre alle tarme delle carta.

Ok, è un pro interessante. Ma non basta. Non ancora.


Un altro argomento potrebbe essere di stampo ambientalista. Il risparmio di carta e la conseguente salvaguardia degli alberi. Sì, perché i nostri amati libri sono fatti di carta e (sia questa riciclata o meno) la loro pubblicazione si traduce in una puntuale sottrazione alle risorse del verde. Non se ne parla gran che, eppure è vero. Insomma, gli odiati libri elettronici, fatti di bit e plastica (quindi non troppo ecologici neppure loro), sono a loro modo piccoli baluardi a tutela dell'ambiente.

Ma il vero punto è un altro.

La mia vista comincia a soffrire, ma il desiderio di leggere, quando sei abituato a farlo, non si estingue mai. Il lettore di ebook ti permette di ingrandire il testo a tuo piacimento e immergerti nella narrazione senza ridurre gli occhi a due strette fessurine arrossate.

Già non è poco, ma consideriamo la questione del peso. Sono frequenti i volumi di una certa consistenza, opere mastodontiche difficili da adattare in edizioni maneggevoli. E ci sono lettori che invecchiano, che si acciaccano, e magari hanno problemi a tenere sulla pancia un tomo da un quintale, o a curvarsi sulle pagine aperte sopra una scrivania.

Ricordo mio nonno, ormai novantenne ma sempre affamato di lettura, insaziabile consumatore di romanzi storici, alle prese con edizioni cartonate pesanti parecchi chili. E rammento il sogno, mai realizzato, di un leggio da montare accanto alla sua poltrona preferita, qualcosa di mobile e pratico che potesse permettergli di fruire dei suoi libri rimanendo comodamente seduto.

Penso anche uno zio, uomo di lettere affetto da un precoce e infame abbassamento di vista che gli proibì il piacere della lettura per il resto dei suoi anni. Rammento il suo rammarico quando spiegava che l'unico rimedio suggerito dai medici consisteva in un paio di lenti costosissime che non aveva modo di acquistare. Conobbi anche un maturo studioso, anche lui con seri problemi alla vista, che utilizzava un visore da tavolo in grado di ingigantire i caratteri di libri e giornali. Si trattava comunque di un dispositivo ingombrante, qualcosa che non potevi portarti a letto o in bagno, e neppure in treno o in aereo, in una sala d'aspetto o semplicemente in poltrona.

I problemi alla vista sono diffusi e non riguardano soltanto chi invecchia. Il lettore di ebook non risolverà tutti i disagi possibili, ma una grossa fetta probabilmente sì. Il peso ridottissimo e la possibilità di adattare il corpo dei caratteri non sono funzioni da sottovalutare.

I libri sono oggetti magici, è vero. Ma la magia scaturisce quando è possibile leggerli. Altrimenti si trasformano in un supplizio di Tantalo, la visione beffarda del cibo per un affamato che non ha modo di afferrarlo e mangiare.

Adoro la mia biblioteca, sia chiaro, ma sono legatissimo anche al mio BeBook, vegliardo tenace e ormai compagno di mille avventure, che mi permette di leggere ovunque senza neppure sforzarmi troppo.

I libri, siano stampati su carta o appaiano su uno schermo, restano quello che sono. Rispettabili, amabili dispensatori di intrattenimento o istruzione. Cibo necessario per l'anima di molti tra noi. Contano poco le posate con cui si porta alla bocca. Tutto il resto è solo una questione pratica, e gli integralismi una gran rottura di zebedei.







mercoledì 26 ottobre 2022

La mia Lucca (anche se non ci sarò)



Purtroppo non potrò a essere a Lucca. Sarò impegnato a sottopormi a esami medici impegnativi (e periodici, gli stessi di tre anni fa) che non potevano essere rimandati. La buona notizia, però, è che IL MIO LIBRO SARA' A LUCCA 2022, e potrete toccarlo, sfogliarlo, e se vorrete acquistarlo. I titoli di Bisso Edizioni saranno reperibili presso lo stand di Tabularasa Edizioni, stand NAP214 del Padiglione Napoleone. In questo post trovate la mappa per scovarlo e farlo vostro.

Che altro posso aggiungere? Sarò lì in spirito, con "Un'Altra Storia di Cinema e Fumetti" e tutto il prezioso sostegno che mi date.
P. S. Mattia Ferrari (Victorlaszlo88) a Lucca ci sarà. Perciò, se volete, potete farvi firmare il volume da lui che ha scritto la prefazione.

Buona Lucca 2022.



lunedì 10 ottobre 2022

Addio a Doug Langway


 

E' con dolore che apprendo della scomparsa di Doug Langway, regista indipendente, membro della comunità LGBTQ e autore della trilogia cinematografica "BearCity", in cui volle celebrare tutti gli aspetti, i feticci, le magagne, le contraddizioni, gli scherzi e i drammi della comunità degli Orsi. Visione autoironica di un modo diverso di intendere la bellezza, la sensualità e l'amore nella più genuina chiave body positive. Era un militante e filmaker coraggioso. Lo perdiamo a soli 52 anni per un cancro al fegato contro il quale si è battuto fino allo scorso 9 ottobre 2022.

Buon viaggio, Doug. E grazie di tutto. Un abbraccio da orso.



lunedì 29 agosto 2022

Nope e i suoi antenati

 


Questa non è una recensione. Solo una riflessione. Anzi, un'associazione di idee, innescata dalla visione di Nope, il film di Jordan Peele che tanto sta facendo discutere, e che già tanto è stato passato ai raggi X dai cinefili della rete da rendere inutile ogni ulteriore commento.


Inevitabili saranno gli spoiler, parlando qui dei temi e dei simboli presenti nel film. Pertanto siete avvisati. Nope si presenta come un horror sui generis, sulla traccia delle opere precedenti di Peele. C'è anche chi dice che si ascrive solo parzialmente alle tematiche sociali finora care al regista. Ma è davvero così? Get Out (Scappa) del 2017, era una metafora dichiarata dello sfruttamento razziale, e usava un linguaggio abbastanza popolare per essere apprezzato da un pubblico vasto. Us (Noi) del 2019, iniziava a spaziare su temi più trasversali, parlando di società matrigna, diseredati e privilegiati, ma continuando ad affidare alle persone afro il ruolo di bussola politica del racconto. Tutti esempi significativi di quello che negli ultimi anni, sullo sfondo del movimento Black Lives Matter, ha preso a chiamarsi black horror. Un cinema (e anche televisione se pensiamo alla serie Them) del perturbante civilmente impegnato, dove il soprannaturale e la paura adombrano storture sociali, e danno voce a una parte di umanità la cui lunga storia è fatta di sopraffazione e diritti negati


Nope
prosegue su questa strada. Quella di Us più che di Get Out, e va oltre. Meno legato ai temi black, è stato detto da qualcuno, e più propenso a trattare argomenti di interesse universale. Analisi un po' miope, a mio avviso. Nope parte dal presupposto della rimozione storica, facendo dei suoi protagonisti (gli addestratori di cavalli OJ e Emerald) i discendenti dell'uomo in groppa al cavallo in uno delle prime sequenze in movimento mai filmate. Aneddoto in cui Jordan Peele si prende alcune licenze artistiche, ma a contare sono i simboli. Come dice Emerald nel film, tutti oggi ricordano il nome di quel cavallo, ma non del suo cavaliere: un uomo nero, il suo trisnonno, iniziatore di una dinastia di talentuosi allevatori e addestratori di cavalli per lo spettacolo.

Il cinema di Peele torna a mostrare la ferita ancora aperta di un popolo prevaricato, ma anche ignorato e rimosso dalla storia come una mosca dalla minestra. Il racconto che segue, sebbene possa sembrare prendere strade diverse da quelle finora battute dal regista, mostra in ogni caso un cammino di rivincita, e la dimostrazione di un estro, una pertinacia e un'intelligenza vincenti, da parte di rappresentati di una categoria di persone a lungo ridotta in un angolo della società e della memoria collettiva. Nope è quindi un film politico del tutto coerente con i precedenti film di Jordan Peele. Forse più ambizioso nel suo mix di generi e di temi, nei ritmi alternati che adotta e in certe scelte visive. Ma oggi non siamo qui per parlare di questo.

Uno dei temi principali di Nope è la presenza pervasiva dei media, e soprattutto del mondo dello spettacolo, oppio dei popoli che alla lunga diventa veleno, e ribalta i punti di vista consumando il suo pubblico fino all'annientamento. Sotto traccia, il film di Jordan Peele, parla anche di sfruttamento animale. Anzi, di sfruttamento tout court, e della differenza tra addestramento, comunicazione e asservimento. Anche in questo caso c'è un parallelismo sottile, dove l'approccio ai cavalli della famiglia protagonista descrive un rapporto di rispetto, paritario e costruttivo.



L'episodio fondamentale di Gordy, lo scimpanzé utilizzato in una popolare sit-com televisiva che a un tratto ha perso la testa facendo una carneficina sul set, riassume i temi centrali del film. E' il volto di un'industria dell'intrattenimento spietata, e di un pubblico superficiale che contribuisce con le sue scelte a generare mostri di Frankenstein, diseredati che giunti al limite esploderanno e ridurranno tutto in briciole, compreso chi credeva di poterli controllare.

L'entità di Nope, il disco volante, in realtà una creatura aliena affamata che periodicamente si ciba di tutto quello che le capita a tiro, è un simbolo di annichilimento che perfeziona l'episodio preparatore di cui è protagonista lo scimpanzé Gordy. Non è necessaria la presenza di animali esasperati da un lavoro ripetitivo e umiliante, e neppure di esseri umani sfruttati. E' la stessa dinamica dell'intrattenimento che si trasforma in mostro e progressivamente divora lo spettatore, lobotomizzandolo, rendendolo mero carburante volto a perpetuare lo show.



La fiction, in passato, aveva presentato molti elementi anticipatori di questi temi. Nope è un'opera complessa e di valore, ma come OJ e Emerald vanta degli antenati di tutto rispetto, e siamo qui per ricordarli.


Lo scrittore Richard Matheson, nel racconto breve intitolato Through Channels (Su dai Canali), raccontava di uno strano fenomeno che improvvisamente interessava i televisori di un moderno condominio. Sullo schermo dell'apparecchio domestico compaiono a un tratto dei buchi neri che si dilatano e restringono in modo ritmico, simili a bocche di grandi vermi, mentre sotto lampeggia intermittente la parola Eat! I telespettatori, incuriositi dal misterioso messaggio, non riescono a staccarsi dalla TV, pensando si tratti di un espediente pubblicitario e che presto seguirà il vero show. L'unico a sopravvivere è un ragazzo di quindici anni, uscito per fare una commissione. Al suo ritorno, la famiglia è scomparsa, mentre sullo schermo televisivo il messaggio è cambiato, e adesso lampeggia la parola Eaten.

Il racconto è del 1951, ed è una breve, crudelissima profezia sugli effetti annichilenti del mezzo televisivo su un pubblico acritico, sordo ai bisogni dei propri familiari e pronto a lasciarsi assorbire dallo spettacolo più fatuo. Le creature che si manifestano attraverso lo schermo della televisione non hanno nome, ma sembrano vermi, e le loro bocche elastiche dei buchi neri pronti a fagocitare tutto. E' evidente che Jordan Peele aveva ben chiaro in mente il ricordo dell'opera di Matheson mentre girava Nope.

Del 1959 è invece The Veldt (La Savana) di Ray Bradbury. In un futuro non precisato, il progresso tecnologico ha reso possibile la creazione di stanze le cui mura sono in grado di rappresentare in modo tridimensionale le fantasie di chi le abita. Si tratta di stanze da gioco destinate ai bambini, dove i piccoli abitanti possono illudersi di vivere all'interno delle loro storie preferite. Un giorno, presso una normale famiglia americana, la camera dei ragazzi inizia a comportarsi in modo strano. Non mostra più scenari fantasiosi e rassicuranti, ma un panorama africano, riarso e abitato da un branco di leoni affamati intenti a divorare delle prede insanguinate. La situazione precipiterà presto, e la stanza, pensata per generare illusioni, rivelerà la capacità di interagire con il mondo reale, influenzata dalla crescente ferocia di un mondo infantile sempre più cinico e dipendente dai suoi giochi. Anche nel racconto di Bradbury ciò che nasce come intrattenimento si trasforma in mostro e mangia letteralmente chi pensava di poterlo controllare. In questo caso con la complicità di una nuova generazione che ha perso il contatto con la realtà, disumanizzandosi e rivelandosi pronta a recidere le proprie radici pur di continuare a seguire lo spettacolo. Uno show che causa una regressione primordiale e conduce all'essenza crudele di una catena alimentare priva di ogni etica.



A The Veldt, si rifaceva in parte il film di Giuliano Montaldo Circuito Chiuso, prodotto dalla Rai nel 1978, acclamato dalla critica al Festival Internazionale del Cinema di Berlino, e rimasto confinato nello spazio televisivo per ragioni contrattuali. Il film di Montaldo è un curioso thriller che per intenti e simboli avrebbe molti punti in comune con Nope, se non fosse per la chiave di lettura molto più didascalica. In un cinema romano, durante la proiezione di un film western, uno spettatore è ucciso da un colpo di pistola esploso nello stesso istante in cui si sta sparando sullo schermo. La polizia impone al pubblico di non abbandonare la sala, ma l'inchiesta prende a stagnare, mentre le ore e i giorni passano senza che l'assassino sia identificato. Si prova a ricostruire l'evento, proiettando ancora il film con gli spettatori seduti negli stessi posti che occupavano durante la prima visione. Anche il volontario che sedeva nella poltrona della prima vittima è fulminato implacabilmente da un colpo di arma da fuoco nel medesimo momento in cui il cow boy protagonista del film preme il grilletto...


Circuito Chiuso
, film surreale, inquietante, claustrofobico e oggi dimenticato dai più, è reperibile su Raiplay, e merita di essere recuperato, superando i pregiudizi che si potrebbero nutrire per un prodotto italiano televisivo di fine anni '70. Questo nonostante il fatto che la sua presenza tra gli antenati di Nope, in questa conversazione, sia di per sé uno spoiler. Considerato che il racconto di Bradbury, The Veldt, è citato dichiaratamente nel film dal personaggio del sociologo interpretato da Flavio Bucci.

Lo spettacolo fruito acriticamente, divenuto sostanza da cui dipendere, ci consuma, ci uccide e si nutre di noi. E' come una bestia selvaggia, non cattiva di per sé, ma semplicemente istintiva e fuori controllo. Per poterne fare buon uso è necessario domarla. E domarla, spiega Jordan Peele in Nope, non significa assoggettarla, ma comprenderla e riuscire a comunicare con essa. Altrimenti è la fine. Allora è meglio non guardare, dire di NO a questa tentazione pervasiva, spesso morbosa, e scrutare piuttosto dentro noi stessi.


Come dicevamo, Nope ha antenati illustri, sul piano formale e concettuale. Proprio come i protagonisti del film di Peele. E alla maniera del cavaliere afroamericano che cavalcò il primo cavallo in movimento del cinema, sarebbe il caso di conoscerli, ricordarli, rendere loro merito. La comprensione dell'opera di Jordan Peele (senz'altro consapevole di queste parentele) ne uscirebbe arricchita e il messaggio ulteriormente metabolizzato. Perché è così che dovrebbe essere. Quando di norma, a cervello spento, a essere assimilate e distrutte sono le nostre capacità di ragionamento, appiattite e asservite da un'industria che ci vede solo come ottusi consumatori.