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mercoledì 1 febbraio 2023

The Last of Us 1x03: Long Long Time... una riflessione

 


In genere non mi piace partecipare a certi cori mediatici. Mi riferisco a eventi della cultura pop, film e serie TV che fanno clamore e generano in rete applausi o urla di biasimo da più parti, con tutto il corredo di critiche, analisi, incensi o roghi. Ancora meno mi piace partecipare al sezionamento sistematico di ogni episodio di una serie in fase di programmazione. Lo trovo noioso, inutile e anche fuorviante come può esserlo la contemplazione di una mano, un piede, l'orecchio o l'occhio di un individuo che non hai ancora potuto percepire nella sua visione d'insieme. Ma è la rete, bellezza! Sono i social e soprattutto il lavoro di quelli che oggi si chiamano influencer. La necessità di battere sul ferro incandescente delle news più cliccate per raccogliere visualizzazioni e relativi benefici economici.

Dicevo, non mi piace... di solito. In questo caso non riesco a farne a meno. Forse perché non sono immune come credevo a certe dinamiche omologanti. Oppure perché sento il bisogno di dire la mia davanti a qualcosa che non mi ha lasciato indifferente, sento di avere in corpo qualcosa che vuole uscire... e quindi, eccoci qua.

Il terzo episodio della serie HBO dedicata alla versione in live action del popolarissimo action-adventure The Last of Us, già acclamata per le prime due puntate, sta facendo discutere tantissimo. I giudizi sono prevalentemente positivi, commossi ed entusiasti. Finora, i detrattori si posizionano ai margini di quello che sembra un grosso successo di pubblico e critica. Long Long Time, questo il titolo dell'episodio, sta trionfando mentre una bassa percentuale di spettatori arriccia il naso bollandolo come insulso filler e prodotto della cultura woke.

Devo ammettere che ho iniziato a seguire The Last of Us con una certa prevenzione, e che lo show sceneggiato da Craig Mazin e Neil Druckman mi sta conquistando un passo alla volta. Da non giocatore, ma avvertito sulle tematiche dalla popolarità pervasiva del brand, sto scoprendo poco per volta un racconto post apocalittico diverso dal solito, forse meno prevedibile dei tanti già visti, e l'episodio intitolato Long Long Time possiede quel tocco in più che lo renderebbe fruibile anche come mediometraggio avulso dal suo contesto. Quasi, se non altro.



Glissiamo, dunque, sugli stolidi mugugni contro l'inclusione, quell'orticaria reattiva alle tematiche LGBTQ+ che, presenti nella realtà quotidiana di tanti uomini e donne, a qualcuno sembrano così fuori posto nelle storie che ci raccontiamo. Nemmeno si volesse reclutarli per giocare in una squadra avversaria o forzarli a mangiare una pietanza che aborriscono.

Lasciamo da parte anche il fattore commozione, che con me vince facile per mille motivi, che è sempre soggettivo e non è prescritto da nessun medico a chi semplicemente non lo vive.

Il post è pieno di spoiler, quindi se foste tra i pochi che ancora non sono in pari con la serie, fermatevi qui.

Per cominciare, parliamo di filler, cioè quegli episodi considerati dei riempitivi nel contesto di una serie, che possono essere più o meno riusciti, ma che per la loro struttura rappresentano un intervallo nel progredire della trama generale e che a tanti danno bruciori di stomaco. Come molte parole usate di frequente nella cultura pop in ambito social, “filler” è diventato una parolaccia. Un etichetta dispregiativa da affibbiare a qualcosa di sgradevole che ci si è trovati in bocca mentre si pensava di assaggiare altro e che va sputata con fastidio se non disgusto.

E' anche una parola abusata, spesa a volte con una certa superficialità. Infatti, nel caso di Long Long Time non siamo in presenza di un filler, ma piuttosto di una digressione dal percorso narrativo principale. Espedienti che se ben gestiti non tolgono nulla alla narrazione, riuscendo addirittura ad arricchirla. Il punto è che se Long Long Time fosse davvero un filler... beh, ad averne.


La storia d'amore omosessuale tra Bill e Frank è collocata in mezzo a schegge narrative con cui risulta speculare. Il mondo di The Last of Us è ancora in formazione e quel che l'episodio ci propone sono modi differenti di reagire a una catastrofe planetaria. I gruppi istituzionali formatisi dopo la diffusione del letale fungo sono retti da un sistema autoritario che non esita a eliminare fisicamente non solo chi è infetto, ma anche chi è giudicato di troppo o non gestibile per i nuovi standard di sopravvivenza. Altrove succede qualcosa di diverso. Le reazioni umane, potenzialmente altrettanto feroci e spietate, lasciano spazio all'accoglienza e alla possibilità di una convivenza da cui può nascere l'amore di una vita. La differenza, in sostanza, tra sopravvivenza e vivere davvero.

C'è un altro aspetto di cui si dovrebbe tenere conto. E cioè che le storie non sono fatte soltanto di un insieme di eventi e neppure del grado di logica che contengono. Le storie, spesso, vanno considerate anche in base ai loro aspetti simbolici. Sono fatte per comunicare non per essere inattaccabili costrutti geometrici. Se poi sono ben scritte, e Long Long Time lo è a dispetto dei detrattori, e interpretata da attori in gamba quali Nick Offerman e Murray Bartlett, sono senz'altro le benvenute.


Bill è un prepper, uno di quei soggetti che fondano la propria esistenza sul complottismo e la preparazione maniacale a qualunque tipo di emergenza, sia essa una guerra, un attacco nucleare, un'epidemia. Per questo ha organizzato la sua casa e il terreno circostante in modo da poter sopravvivere in piena autonomia, fornito di potenti generatori di elettricità, scorte di viveri ingenti, ma soprattutto armi di ogni forma e dimensione, e tessendo tutto intorno una fitta rete di trappole. L'emergenza micotica che ha spazzato via gran parte della civiltà umana non lo trova quindi impreparato. L'evacuazione forzata della cittadina in cui vive gli dona uno splendido isolamento che gli permette di tenere lontana l'avanzata del contagio, ma soprattutto un'umanità di cui non si è mai fidato. Questo fino all'arrivo di Frank, sopravvissuto al collasso di una delle zone di quarantena e caduto, esausto e affamato, in una delle trappole di Bill.

Accogliere Frank, anche solo per poche ore e accettare di sfamarlo produce un'incrinatura nella barriera che Bill aveva innalzato intorno a sé prima ancora che la catastrofe iniziasse. Frank possiede una facilità di comunicazione che al ruvido survivalista è sempre mancata. E' arguto, creativo, amante delle cose belle e pieno di iniziativa.

Ci viene lasciato intendere che lo stesso Bill non è proprio un pozzo arido. Conserva ancora il pianoforte appartenuto alla madre, sa anche suonarlo un po' e sa leggere la musica scritta. Anche Frank strimpella il piano e la condivisione della musica rappresenta la svolta romantica di quello che è stato un incontro fatale e l'inizio di un amore che durerà tutta la vita, suggellato dalla canzone di una folk singer del passato, quella Long Long Time cantata da Linda Ronsdat che dà il titolo all'episodio.

Quel che c'è di coraggioso in Long Long Time è la scelta di affidare la luce di speranza di un'umanità allo sbando a una coppia omosessuale, un genere di relazione per molti ancora fuori dagli schemi, e in particolar modo a due uomini. Infatti, il plot dell'episodio non sarebbe nuovissimo in sé non fosse per questo dettaglio. La fiction ha preso a fare molto uso dell'amore omosessuale, ma gli spettacoli indirizzati al grande pubblico hanno spesso scelto di mettere in scena relazioni tra donne. Non è neanche difficile capire il perché. La cultura patriarcale tuttora forte è più propensa a tollerare la rappresentazione dell'omosessualità femminile, da sempre presente anche in tanta pornografia destinata a maschi etero. Portare in scena l'amore tra uomini, in un mondo dove ancora permane tanto sentire maschilista, si può definire un atto sovversivo. Ancora di più se, come nel caso di Long Long Time, vengono abbandonati determinati stereotipi e i protagonisti che si amano non sono giovani efebi, ma uomini maturi, ordinari e senza la corporatura di fotomodelli. Caratteristica che oltre a conferire maggiore verità al racconto ha portato all'immediata adozione dell'episodio da parte della comunità Bear internazionale.

La scena del primo momento di intimità tra Bill e Frank è un ulteriore atto di scardinamento. Di rado, forse mai, si era visto in televisione qualcosa del genere. Almeno non in un prodotto destinato al vasto pubblico. Due uomini barbuti, dall'aria rude, avvicinarsi nudi l'uno all'altro e scoprire le rispettive vulnerabilità. Bill è quasi vergine. Ha fatto sesso solo una volta, tanto tempo prima, con una ragazza. Probabilmente solo per scoprire che la cosa non faceva per lui. E ora, in un mondo al crepuscolo dove le sovrastrutture culturali sono crollate, rivela per la prima volta le sue vere pulsioni. Frank, più esperto ed estroverso lo guiderà, in una scena che riesce a essere sensuale e tenerissima nello stesso tempo. Una palingenesi per il personaggio di Bill, e una possibile strada di rinascita per l'umanità tutta, che all'indomani della sua caduta può scegliere di aprire la propria anima ad aspetti prima rinnegati.



L'episodio, dicevamo, non è un filler, ma un'espansione dei punti di vista. Nel corso di Long Long Time veniamo a conoscenza di come è nato il codice radio con cui Tess comunicava negli episodi precedenti, frutto dell'inventiva di Frank. Un salto temporale ci mostra che il rapporto tra i due uomini si è evoluto in qualcosa di duraturo e che la presenza del nuovo venuto ha finito con l'allargare un poco gli orizzonti del solitario survivalista. Bill continua a diffidare dagli altri. Frank invece è collaborativo e pieno di fervore. All'insaputa del compagno è entrato in contatto via radio con Tess e la frangia di resistenza al nuovo ordine mondiale. Il ménage dei due eremiti si apre dunque a due ospiti.

Tess (l'attrice Anna Torv), morta nell'episodio precedente, torna in scena in un significativo flashback in cui la vediamo in compagnia di Joel pranzare nella dimora fortificata di Bill. Quest'ultimo conserva il suo carattere ombroso, ma è chiaro che sta cambiando. Contagiato non dal fungo mortale, ma dalla vitalità che l'esuberanza di Frank ha saputo infondergli. E' l'inizio di una riluttante amicizia, qualcosa di assolutamente non previsto, ma che porterà a costruttivi baratti e a un'esistenza migliore per tutte le parti coinvolte.

Il racconto, svolto su piani temporali diversi, ci mostra Joel e Ellie nel presente, in cammino verso la casa di Bill e Frank. Un altro motivo per cui non si può considerare il capitolo un mero riempitivo, ma una cronaca a incastro che acquisterà senso compiuto nel finale.

La casa di Bill e Frank è di sicuro diventata un'oasi felice in mezzo all'apocalisse. Nemmeno l'attacco di una squadra di predoni riesce a spezzarne l'incanto. A farlo, molti anni più tardi sarà la vecchiaia e una malattia degenerativa, forse il morbo di Parkinson, che due uomini soli in mezzo al nulla, per quanto organizzati, non possono fronteggiare.

Nel gioco le cose andavano molto diversamente. Frank si allontanava, esasperato dalle manie complottiste di Bill e finiva con l'essere contagiato dal fungo. S'impiccava prima di trasformarsi mettendo fine a un rapporto che non aveva avuto lo stesso spazio della serie TV per essere compreso. In definitiva, lasciando un messaggio nettamente agli antipodi.

I tempi cambiano. Magari non proprio in meglio, ma qualcosa evolve. Mazin e Druckman lo hanno capito e hanno scelto una via diversa e un finale ottimista pur nella sua drammaticità.

Le vite di Frank e Bill finiranno insieme nel modo più romantico possibile. Frank decide di morire per non soccombere alla malattia invalidante che prolifera nel suo corpo al posto del fungo che lo ha infettato nel videogioco, ma che in sostanza rappresenta la medesima condanna in termini metaforici. Tuttavia, stavolta non morirà solo, ma in compagnia del marito. I due decidono di sposarsi e scambiarsi gli anelli al termine di una cena consumata in un'atmosfera quasi festosa. Frank ingerirà un quantitativo letale di pillole sbriciolate in una coppa di quello stesso vino che Bill gli ha offerto il giorno del loro primo incontro e si addormenterà tra le sue braccia. Bill, però, ha avvelenato l'intera bottiglia e rassicura il compagno affermando che è meglio così. Anche lui ormai è anziano e non può rimanere da solo. Ha vissuto una vita piena, grazie a Frank, e ora è il momento di andarsene insieme.


Potremmo dire che la vita di Bill prima dell'arrivo di Frank non era da uomo realmente vivo. Chiuso in una prigione dorata e nelle sue manie complottiste, si limitava a sopravvivere. Frank gli ha insegnato a vivere veramente, condividendo l'esistenza con qualcuno che amava e a essere se stesso fino in fondo. Dietro tutto questo non c'è soltanto una storia d'avventura apocalittica o una storia d'amore fine a se stessa, ma un insegnamento morale. Se vogliamo didascalico. E come nel teatro di Bertolt Brecht i personaggi sono maschere dell'esistenza cui si affidano dei significati. Significati che vanno colti.

L'isolamento di Bill è allegoria di una solitudine dettata dalla sua cultura d'appartenenza, fatta di sovrastrutture, paura e pregiudizio, non da una possibile apocalisse. Frank, che arriva dall'esterno, è la voce della novità, della capacità di rischiare, di osare e di aprirsi a una parte di umanità che potrebbe anche farti del bene se solo glielo permettessi.

Long Long Time è il racconto di un'epifania e di una nuova vita possibile in un mondo in rovina. La costruzione di un proprio paradiso che parte dall'accettazione non solo di se stessi, ma anche dell'altro. Sì, Long Long Time è una parabola pacifista.



L'ultima parte del racconto, mostra l'arrivo dei due protagonisti della serie, lasciati in disparte per la maggior parte del minutaggio. La lettera di Bill a Joel in cui gli affida le sue armi, le sue cose e lo invita a usarle a proteggere l'ormai defunta Tess spazza via ogni dubbio sulla natura di filler dell'episodio. Tutto quello che abbiamo visto, il ricordo che Joel conserverà dei suoi amici e quelle ultime parole finali, svolgeranno una funzione importante nella sua maturazione di personaggio e nel suo rapporto con Ellie. Joel si era chiuso ai sentimenti e alla vita dopo la morte di sua figlia Sarah, uccisa dai militari nei primi giorni dell'emergenza. Chiuso allegoricamente come Bill, in una fortezza psicologica in cui nemmeno il rapporto con Tess era riuscito a fare breccia. Ma qualcosa sta cambiando. Il ritorno in scena di Tess in una scena ambientata nel passato non è casuale, ma rappresenta l'importanza dei ricordi e della persistenza degli affetti perduti.

The Last of Us, dopo questo episodio, potrebbe rivelarsi nel tempo una serie antologica sui diversi modi di sopravvivere in un mondo finito. Quando si sceglie la via dell'isolamento rinunciando alla propria umanità e quando la ritrovata empatia dà un verso senso al nostro respirare.

Long Long Time non sarà il capolavoro che tanti dicono. Possibilmente non è neppure un racconto perfetto. Ma le storie non hanno bisogno di essere perfette per essere belle, per emozionare e arricchire chi le ascolta. Non ne hanno bisogno neppure le persone. E se per mille ragioni non riusciamo a commuoverci... beh, non è un dramma. Purché a emozionarsi sia il cervello se non il cuore, e ci si apra a un mondo di possibilità che possono aiutarci tutti a vivere davvero.

Chissà, se siamo fortunati, per lungo, lungo tempo.

Bravi, Mazin e Druckman.



lunedì 10 ottobre 2022

Addio a Doug Langway


 

E' con dolore che apprendo della scomparsa di Doug Langway, regista indipendente, membro della comunità LGBTQ e autore della trilogia cinematografica "BearCity", in cui volle celebrare tutti gli aspetti, i feticci, le magagne, le contraddizioni, gli scherzi e i drammi della comunità degli Orsi. Visione autoironica di un modo diverso di intendere la bellezza, la sensualità e l'amore nella più genuina chiave body positive. Era un militante e filmaker coraggioso. Lo perdiamo a soli 52 anni per un cancro al fegato contro il quale si è battuto fino allo scorso 9 ottobre 2022.

Buon viaggio, Doug. E grazie di tutto. Un abbraccio da orso.



martedì 6 gennaio 2004

Gengoroh Tagame: Orsi all'inferno

Per parlare dell'opera di Gengoroh Tagame, è inevitabile contestualizzarla alla cultura erotica e popolare del Giappone, con tutto ciò che questo approccio comporta. Tagame è sicuramente un grande illustratore, padrone dell'anatomia e dei chiaroscuri come pochi mangaka  sono. I suoi disegni spaziano dalla computer art, all'illustrazione a matita, al dipinto, per non parlare di una cospicua produzione fumettistica (della quale il nostro paese ha visto tradurre solo una minima parte) che colloca l'autore tra gli artisti più apprezzati nell'ambito di quell'espressione artistica che ama ritrarre la bellezza maschile. In questo caso dedicata al genere definito "bear" (orso), tipologia di uomo massiccio e irsuto. Alla passione per gli orsi, però, Tagame sposa un elemento estremo che nelle sue tavole acquista una particolare crudezza: la componente sadomaso, sconfinando in un settore dell'erotismo che nel paese del Sollevante ha un notevole spessore ed è molto seguito a livello popolare. 



Se per altri mangaka a tema LGBTQ+ l'uomo-orso è identificato con il "chubby", l'uomo paffuto che offre al mondo il suo grosso corpo affinché se ne possa trarre piacere, per Tagame l'Orso è invece il simbolo della forza bruta. Un uomo possente, barbuto, dai muscoli scultorei, le natiche sode e irto di peli. Nei sogni, liberi da qualunque condizionamento morale, la forza (in questo caso simbolo anche di bellezza) può essere posseduta carnalmente in molti modi. Il pennello abile di Tagame sembra suggerire che la potenza del corpo maschile è più eccitante quanto più è sottomessa. Incatenata, umiliata nel modo più crudele. E' necessario ricordare che in Giappone la censura segue binari molto particolari rispetto all'occidente. Nella pornografia è consentito quasi di tutto, purché i genitali restino nascosti. Da qui, il frequente uso dell'effetto mosaico nei porno orientali, o la regola (cui non sfugge lo stesso Tagame, sia pure imbrogliandola con grande malizia) del pene stilizzato e bianco negli hentai (i fumetti erotici giapponesi). 



Nel saggio "Erotismo infernale" edito da Mondo Bizzarro, il critico Jack Hunter, parlando del cinema erotico giapponese, dice: «Questa rigida regola ha senza dubbio arricchito il cinema nipponico, rivelando ciò di cui anche il cinema occidentale avrebbe bisogno: dei limiti. Per molti registi europei, la fin troppo facile discesa nel cinema hardcore va inevitabilmente a braccetto con la negazione di creatività e visionarietà, dato che la ripresa ravvicinata delle penetrazioni diventa l'unico scopo della loro arte. I cineasti estremi giapponesi, a cui tale scelta è stata negata, sono dovuti ricorrere alle proprie risorse immaginative per emulare l'impatto ipnotico e l'esperienza carnale totale offerti dall'hardcore. Il risultato è una visione del sesso come inferno sulla terra, o del corpo umano come frontiera chiusa dell'inferno, con tutta la follia prodotta da tale mortale confino». 

Gengoroh Tagame
Inferno che Gengoroh Tagame sembra conoscere molto bene. Nei suoi fumetti si respira un'atmosfera claustrofobica, sulfurea e crudele. Se per la cultura eterosessuale l'oggetto di piacere per antonomasia è la figura femminile, Tagame promuove l'Orso a nuovo capro espiatorio delle brame erotiche più estreme e lo sprofonda in un inferno lascivo, dove sangue e sperma si mischiano. Se la pornografia giapponese produce in quantità falsi snuff movie che raccontano di ragazze indifese massacrate da spietati aguzzini, Tagame reinventa questa peculiarità erotica della sua cultura in chiave tutta ursina. Nelle sue storie, gli orsi sono sempre fatti prigionieri, legati, violentati e seviziati in molti modi, in un crescendo di violenza che coniuga eros e orrore. Il sito ufficiale dell'artista offre un ampio saggio della sua produzione articolandola in sezioni tematiche. Se i disegni elettronici, le pin up e tutto il resto non richiedono una particolare preparazione per essere ammirati, la sezione SM avverte esplicitamente il visitatore: "Ti troverai davanti immagini violente, che contengono mutilazioni e morte. Sappi distinguere la fantasia dalla realtà". E in effetti, per affrontarle è necessario possedere uno stomaco discretamente forte. La bellezza del disegno di Tagame rende tutto vivido, sensuale e sconvolgente. 


C'è da dire che al sadismo rappresentato non sempre corrisponde un masochismo, elemento che permetterebbe di considerare il tutto come un gioco tra amanti. No, il sadismo è spesso assoluto e devastante (chi godrebbe nel farsi schiacciare i testicoli con un enorme maglio?). Anche questo è da ricondurre a una tradizione pornografica tutta nipponica. «L'SM è diverso in Giappone...» dice il musicista e film maker Masami Akita, sempre nel libro di Jack Hunter. «Non c'è un reciproco darsi piacere. In Giappone il mondo dell SM ha spesso a che fare con le uniformi militari... Il potere e l'autorità sadomasochista sono presentati come tematiche paranoiche. L'SM rende manifesta la crudeltà del potere assoluto mostrandola con violenza allo spettatore». Infatti, le ambientazioni militari sono frequenti nell'opera di Tagame. Se l'italianissimo Viste infonde blande atmosfere sadiche alle sue illustrazioni mostrando massicci soldati sottomessi da rudi addestratori, Tagame è un figlio dell'Oriente e non va tanto per il sottile. Gli atti ritenuti aberranti dalla società occidentale non incontrano alcun tabù nella cultura mainstream giapponese. La violenza sessuale e la tortura sono temi molto presenti nell'immaginario popolare, soprattutto per motivi storici (la tortura come strumento per estorcere confessioni è stata usata molto a lungo in Giappone), e i consumatori abituali di pornografia sono avvezzi a convivere con questa forma di fiction estrema come da noi, in Italia, lo siamo con le performance di Jessica Rizzo. Lasciandosi alle spalle facili moralismi etnocentrici (giacché si parla pur sempre di fiction), e superato lo shock che la particolare violenza di certe tavole può suscitare, l’opera di Tagame è apprezzabilissima, quasi geniale. Pur nella ripetitività delle trame di stampo sadomaso, non possiamo fare a mene di essere affascinati dalla maestria di Gengoroh nel disegnare corpi maschili statuari e grondanti sensualità. Quello che nel gergo ursino è chiamato “muscle bear” trova nell’opera di Tagame la sua rappresentazione paradigmatica. L’uomo perfetto, grosso, forte e bellissimo. Talmente bello da non poter esistere, da dover essere distrutto. Alla base delle fantasie sadiche, dopotutto, c’è sempre un barlume di ambigua tenerezza. Quanto spesso, coccolando qualcuno ci affiorano sulle labbra le classiche parole “...ti mangerei”? 


L’idea (anche solo quella) dell’assoggettamento di un corpo massiccio al quale virtualmente può essere fatto di tutto, può suscitare in qualcuno emozioni conturbanti. Non per ultima, una sensazione di potenza in quanti rivestono nei propri sogni il ruolo di dominatore. Un padrone il cui potere svanisce, però, nello stesso momento in cui la vittima è stata annientata. Da qui l’incubo ossessivo e masturbatorio di infinite novelle sadiche, che si differenziano solo in pochi elementi, raccontate da Gengoroh Tagame con una freddezza carnale che non può lasciare indifferente il lettore. Un pugno nello stomaco, che ci costringe a guardare negli occhi fantasmi erotici che infestano anche le anime più innocenti. L’inquietante confine tra tenerezza e violenza, desiderio e brama di distruzione, è superato sulla pagina disegnata, e la matita dell’artista Tagame ci accompagna nei meandri di un inferno dantesco, pessimista, oscuro, forse ispirato da un’irriducibile misantropia. Ci chiediamo se l’erotismo di Tagame non sia specchio di un disagio sociale più profondo della mera voglia di sesso. Espressione di un malessere dell’esistere che si traduce nella sua opera in un’eterna mortificazione della carne, rappresentando piacere e dolore come entità speculari: il giorno e la notte, la vita e l’inevitabile morte che metterà fine a ogni edonismo. Non resta, per tirare il fiato, che soffermarsi sull’affascinante bellezza di quei corpi che l’autore sembra amare quanto il sangue di cui li copre. Quella bellezza che, ci piace ricordare le parole di Dostoevskij, può ancora salvare il mondo.